La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

29 novembre 2010

Dicono di noi 5: C'era la Dacia, ma non l'audacia

Dicono di noi: se sono missionario, non lo sono da solo. Sono missionario perché tanti amici mi sostengono con la loro preghiera, con la loro solidarietà dai mille aspetti, con la simpatia, forse solo con la curiosità di conoscere cosa è una missione in Africa oggi.
Non mi piace quando scrivono di me, è sempre imbarazzante. E il contenuto di questo scritto, più di altri, mi sembra sproporzionato: grandi personaggi della cultura e il piccolo missionario come possono relazionarsi? Lascio a voi il commento. Una cosa mi rallegra, e questa la devo evidenziare. Il giornalista (che non conosco, e che quindi scrive in piena libertà nei miei confronti) con queste sue affermazioni conferma la bontà della raccolta di materiale scolastico per i bambini delle scuole delle missioni della mia zona (nord della Guinea-Bissau). Questo mi è di conforto. Lo è anche per i tanti amici che in tutta Italia (non solo a Foggia) si stanno adoperando per la raccolta di questo materiale. A tutti va il ringraziamento da parte dei miei bambini che possono imparare a leggere e scrivere.





C'era la Dacia, ma non l'audacia

di Enrico Ciccarelli
29 novembre 2010


Ho atteso un po', prima di parlare della laurea honoris causa in Scienze della Formazione conferita a Dacia Maraini lo scorso 18 novembre. Dirò subito che la cosa migliore mi è sembrata proprio la protagonista, che ha svolto un intervento coinvolgente, civile ed appassionato. Una voce limpida quale ci si attendeva, venuta dal tempo in cui c'era, o almeno si ricercava, un rapporto necessario tra professione intellettuale e amor di verità e di giustizia. Un intervento il cui valore fa premio sul triste spettacolo di un pubblico in buona parte "adescato", che ha fornito il colpo d'occhio a fotografi e cameramen per poi lasciare la sala con larghi vuoti proprio quando veniva il meglio; e che permette di dimenticare la comica piaggeria (che è di norma l'altra faccia del livore) di un cronista che ha trasformato una banale trafila burocratica in una specie di epopea risorgimentale, con tanto di mazziniana "tempesta del dubbio" per la povera Franca Pinto Minerva, la preside di Scienze della Formazione raffigurata come intenta a struggersi nell'attesa del fatidico bollo ministeriale.

Un paio di giorni prima che la Maraini fosse a Foggia, il professor Giuseppe Ricciardi, studioso di comunicazione fra i più insigni d'Italia, ha parlato alla libreria "Ubik" su invito della stessa Facoltà che ha laureato la Maraini. Un appuntamento che non ha avuto la cornice di pubblico che avrebbe meritato, ma è stato tuttavia molto interessante. Il professor Ricciardi, a margine della conferenza, ha raccontato dei sapidi aneddoti legati al suo lavoro di redattore della casa editrice Bompiani. Fra questi il divertente episodio di quando Maria Corti (un monumento dell'editoria e della critica letteraria italiana) giunse in ufficio e comunicò tutta fiera di essere stata insignita di una laurea honoris causa da non so più quale Ateneo; proprio mentre la Corti si pavoneggiava giunse Umberto Eco, che smadonnava dicendo "Ma che palle! Mi hanno dato altre tre lauree honoris causa! Non se ne può più!" Un aneddoto che spiega quanto dubbio e controverso sia il destino di tali riconoscimenti. La mia personale opinione è che andrebbero meglio spesi, e che soprattutto non dovrebbero rincorrere l'ovvio, benché sia sicuramente la via più facile per ottenere l'imprimatur ministeriale.

Direi che due cose, nella laurea conferita a Dacia Maraini, sono di tutta evidenza: la prima è che il legame disciplinare è pretestuoso. Non pretendo di sapere con precisione quale sia lo specifico ambito disciplinare di Scienze della Formazione; ma non mi pare che il cursus honorum della Maraini vi abbia qualcosa a che fare. La seconda è che, astraendo dallo specifico titolo, un riconoscimento accademico a questa grande scrittrice italiana è più che meritato. Fin troppo, direi. Perché non credo che questa laurea sia tale da aggiungere qualcosa al prestigio italiano ed internazionale dell'autrice della lunga vita di Marianna Ucria. Laddove le lauree honoris causa dovrebbero in qualche modo segnare un progresso dell'accademia, la sua capacità di inchinarsi agli eretici, di riconoscere il valore di ciò che non è allineato alla sua tradizione, di portare all'onore del mondo e al centro della scena ciò che è abitualmente relegato ai margini o ai fondali.

Il titolo di questa nota parla proprio di questo: c'era la Dacia, ma non l'audacia. È mancata la capacità, forse anche la voglia, di osare, di proporre terreni inconsueti, di marcare una specificità. E siccome è sempre facile criticare ciò che fanno gli altri senza proporre alternative, io un nome da laureare honoris causa in Scienze della Formazione ce l'avrei. Pergamena e tocco li affiderei a don Ivone Cavraro (spero di ricordare correttamente il nome). Chi è mai don Ivone? Un sacerdote foggiano che da qualche anno si occupa di una missione a Bigene, in Guinea Bissau. Don Ivone fa scuola ai poverissimi bambini di quel poverissimo borgo; sia chiaro, io non penso che vada premiato come individuo caritatevole, come angelo che provvede ai bisogni di chi non ha nulla; questo è commendevole e degno, ma merita sostegno ed aiuto, non lauree. Il titolo accademico dovrebbe premiare chi come don Ivone, in quel remoto angolo di mondo, suscita eserciti e alleva soldati vocati alla guerra contro l'ingiustizia: l'istruzione ai poveri, da Barbiana in poi, non è un linimento, ma un incendio. La cultura è una semina di consapevolezza, è l'arma e l'arsenale con cui ci si ribella alla fortuna e ai capricci del caso come alle catene dell'oppressione. La cultura e l'istruzione portano gli esseri umani a una seconda nascita; ed è tanto più vero, è tanto più utile in luoghi dove è frequente la morte per fame o per guerra, la catastrofe annunciata, la sconfitta predestinata. Nella sua missione (per saperne di più cercate il sito dell'associazione Amici di Bissau a Foggia) don Ivone perpetua il gesto di libertà e di resurrezione che appartiene a tutti i Maestri. Se non la merita lui, la laurea in Scienze della Formazione, faccio fatica a immaginare chi potrebbe esserne più degno.





Il giornalista Enrico Ciccarelli, nella foto a sinistra (accanto a Valerio Quirino, durante la presentazione del romanzo “Il più grande sognatore di tutti i tempi”), è direttore di Foggia&Foggia (www.foggiaefoggia.com), vivace e attento strumento di comunicazione in web e “free press” distribuito in 12.000 copie nella città di Foggia.

22 novembre 2010

Chiariamoci le idee 4: Il Papa, il preservativo e gli imbecilli




In settimana, quando esce il libro-intervista del Papa, ne parleremo come merita. Oggi invece parliamo di imbecilli. Dalle associazioni gay a qualche cosiddetto tradizionalista, tutti a dire che il Papa ha cambiato la tradizionale dottrina cattolica sugli anticoncezionali. Titoli a nove colonne sulle prime pagine. Esultanza dell’ONU. Commentatori che ci spiegano come il Papa abbia ammesso che è meglio che le prostitute si proteggano con il preservativo da gravidanze indesiderate: e però, se si comincia con le prostitute, come non estendere il principio ad altre donne povere e non in grado di allevare figli, e poi via via a tutti?

Peccato, però, che – come spesso capita – i commentatori si siano lasciati andare a commentare sulla base di lanci d’agenzia, senza leggere la pagina integrale sul tema dell’intervista di Benedetto XVI, che pure fa parte delle anticipazioni trasmesse ai giornalisti. Il Papa, in tema di lotta all’AIDS, afferma che la «fissazione assoluta sul preservativo implica una banalizzazione della sessualità», e che «la lotta contro la banalizzazione della sessualità è anche parte della lotta per garantire che la sessualità sia considerata come un valore positivo». Nel paragrafo successivo – traducendo correttamente dall’originale tedesco – Benedetto XVI continua: «Ci può essere un fondamento nel caso di alcuni individui, come quando un prostituto usi il preservativo (wenn etwa ein Prostituierter ein Kondom verwendet), e questo può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità, sulla strada del recupero della consapevolezza che non tutto è consentito e che non si può fare ciò che si vuole. Ma non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV. Questo può basarsi solo su di una umanizzazione della sessualità».

Non so se il testo italiano che uscirà tradurrà correttamente «un prostituto», come da originale tedesco, o riporterà – come in alcune anticipazioni giornalistiche italiane - «una prostituta». «Prostituto», al maschile, è cattivo italiano ma è l’unica tradizione di «Prostituierter», e se si mette la parola al femminile l’intera frase del Papa non ha più senso. Infatti le prostitute donne ovviamente non «usano» il preservativo: al massimo lo fanno usare ai loro clienti. Il Papa ha in mente proprio la prostituzione maschile, dove spesso – come riporta la letteratura scientifica in materia – i clienti insistono perché i «prostituti» non usino il preservativo, e dove molti «prostituti» - clamoroso il caso di Haiti, a lungo un paradiso del turismo omosessuale – soffrono di AIDS e infettano centinaia di clienti, molti dei quali muoiono. Qualcuno potrebbe dire che «prostituto» si applica anche al gigolò eterosessuale che si accompagna a pagamento con donne: ma l’argomento sarebbe capzioso perché è tra i «prostituti» omosessuali che l’AIDS è notoriamente epidemico.

Stabilito dunque che le gravidanze non c’entrano, perché dalla prostituzione omosessuale è un po’ difficile che nascano bambini, il Papa non dice nulla di rivoluzionario. Un «prostituto» che ha un rapporto mercenario con un omosessuale – per la verità, chiunque abbia un rapporto sessuale con una persona dello stesso sesso – commette dal punto di vista cattolico un peccato mortale. Se però, consapevole di avere l’AIDS, infetta il suo cliente sapendo d’infettarlo, oltre al peccato mortale contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché si tratta di omicidio, almeno tentato. Commettere un peccato mortale o due non è la stessa cosa, e anche nei peccati mortali. c’è una gradazione. L’immoralità è un peccato grave, ma l’immoralità unita all’omicidio lo è di più.

Un «prostituto» omosessuale affetto da AIDS che infetta sistematicamente i suoi clienti è un peccatore insieme immorale e omicida. Se colto da scrupoli decide di fare quello che – a torto o a ragione (il problema dell’efficacia del preservativo nel rapporto omosessuale non è più morale ma scientifico) – gli sembra possa ridurre il rischio di commettere un omicidio non è improvvisamente diventato una brava persona, ma ha compiuto «un primo passo» - certo insufficiente e parzialissimo – verso la resipicenza. Di Barbablù (Gilles de Rais, 1404-1440) si dice che attirasse i bambini, avesse rapporti sessuali con loro e poi li uccidesse. Se a un certo punto avesse deciso di continuare a fare brutte cose con i bambini ma poi, anziché ucciderli, li avesse lasciati andare, questo «primo passo» non sarebbe stato assolutamente sufficiente a farlo diventare una persona morale. Ma possiamo dire che sarebbe stato assolutamente irrilevante? Certamente i genitori di quei bambini avrebbero preferito riaverli indietro vivi.

Dunque se un «prostituto» assassino a un certo punto, restando «prostituto», decide di non essere più assassino, questo «può essere un primo passo». «Ma – come dice il Papa - questo non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV». Bisognerebbe piuttosto smettere di fare i «prostituti», e di trovare clienti. Dove stanno la novità e lo scandalo se non nella malizia di qualche commentatore? Al proposito, vince il premio per il titolo più imbecille il primo lancio della Associated Press, versione in lingua inglese (poi per fortuna corretto, ma lo trovate ancora indicizzato su Yahoo con questo titolo): «Il Papa: la prostituzione maschile è ammissibile, purché si usi il preservativo».

di Massimo Introvigne
22 novembre 2010


Massimo Introvigne prega di non scrivergli a proposito della dichiarazione di Peter Seewald, intervistatore del Papa, secondo cui tra "prostituto" (maschio) e "prostituta" (femmina) non c'è differenza. M'intervistano tutti i giorni e una lunga esperienza mi dice che l'intervistatore non è particolarmente autorevole come interprete di quello che gli ha detto l'intervistato (che in questo caso ha anche rivisto le risposte...)

23 novembre 2010




Viene pubblicata oggi, 21 dicembre 2010, su L’Osservatore Romano una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla banalizzazione della sessualità, a proposito di alcune letture del libro-intervista di Papa Benedetto XVI "Luce del mondo".



Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede
Sulla banalizzazione della sessualità
A proposito di alcune letture di "Luce del mondo"



In occasione della pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI, Luce del mondo, sono state diffuse diverse interpretazioni non corrette, che hanno generato confusione sulla posizione della Chiesa cattolica riguardo ad alcune questioni di morale sessuale. Il pensiero del Papa non di rado è stato strumentalizzato per scopi e interessi estranei al senso delle sue parole, che risulta evidente qualora si leggano interamente i capitoli dove si accenna alla sessualità umana. L’interesse del Santo Padre appare chiaro: ritrovare la grandezza del progetto di Dio sulla sessualità, evitandone la banalizzazione oggi diffusa.

Alcune interpretazioni hanno presentato le parole del Papa come affermazioni in contraddizione con la tradizione morale della Chiesa, ipotesi che taluni hanno salutato come una positiva svolta e altri hanno appreso con preoccupazione, come se si trattasse di una rottura con la dottrina sulla contraccezione e con l’atteggiamento ecclesiale nella lotta contro l’Aids. In realtà, le parole del Papa, che accennano in particolare ad un comportamento gravemente disordinato quale è la prostituzione (cfr. Luce del mondo, prima ristampa, novembre 2010, pp. 170-171), non sono una modifica della dottrina morale né della prassi pastorale della Chiesa.

Come risulta dalla lettura della pagina in questione, il Santo Padre non parla della morale coniugale e nemmeno della norma morale sulla contraccezione. Tale norma, tradizionale nella Chiesa, è stata ripresa in termini assai precisi da Paolo VI nel n. 14 dell’enciclica Humanae vitae, quando ha scritto che è "esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione". L’idea che dalle parole di Benedetto XVI si possa dedurre che in alcuni casi sia lecito ricorrere all’uso del profilattico per evitare gravidanze indesiderate è del tutto arbitraria e non risponde né alle sue parole né al suo pensiero. A questo riguardo il Papa propone invece vie umanamente e eticamente percorribili, per le quali i pastori sono chiamati a fare "di più e meglio" (Luce del mondo, p. 206), quelle cioè che rispettano integralmente il nesso inscindibile di significato unitivo e procreativo in ogni atto coniugale, mediante l’eventuale ricorso ai metodi di regolazione naturale della fecondità in vista di una procreazione responsabile.

Quanto poi alla pagina in questione, il Santo Padre si riferiva al caso completamente diverso della prostituzione, comportamento che la morale cristiana da sempre ha considerato gravemente immorale (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 27; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2355). La raccomandazione di tutta la tradizione cristiana – e non solo di quella – nei confronti della prostituzione si può riassumere nelle parole di san Paolo: "Fuggite la fornicazione" (1 Corinzi, 6, 18). La prostituzione va dunque combattuta e gli enti assistenziali della Chiesa, della società civile e dello Stato devono adoperarsi per liberare le persone coinvolte.

A questo riguardo occorre rilevare che la situazione creatasi a causa dell’attuale diffusione dell’Aids in molte aree del mondo ha reso il problema della prostituzione ancora più drammatico. Chi sa di essere infetto dall’Hiv e quindi di poter trasmettere l’infezione, oltre al peccato grave contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché consapevolmente mette a serio rischio la vita di un’altra persona, con ripercussioni anche sulla salute pubblica. In proposito il Santo Padre afferma chiaramente che i profilattici non costituiscono "la soluzione autentica e morale" del problema dell’Aids e anche che "concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità", perché non si vuole affrontare lo smarrimento umano che sta alla base della trasmissione della pandemia. È innegabile peraltro che chi ricorre al profilattico per diminuire il rischio per la vita di un’altra persona intende ridurre il male connesso al suo agire sbagliato. In questo senso il Santo Padre rileva che il ricorso al profilattico "nell’intenzione di diminuire il pericolo di contagio, può rappresentare tuttavia un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana". Si tratta di un’osservazione del tutto compatibile con l’altra affermazione del Santo Padre: "questo non è il modo vero e proprio per affrontare il male dell’Hiv".

Alcuni hanno interpretato le parole di Benedetto XVI ricorrendo alla teoria del cosiddetto "male minore". Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, nn. 75-77). Un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta. Il Santo Padre non ha detto che la prostituzione col ricorso al profilattico possa essere lecitamente scelta come male minore, come qualcuno ha sostenuto. La Chiesa insegna che la prostituzione è immorale e deve essere combattuta. Se qualcuno, ciononostante, praticando la prostituzione e inoltre essendo infetto dall’Hiv, si adopera per diminuire il pericolo di contagio anche mediante il ricorso al profilattico, ciò può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri, anche se la malizia della prostituzione rimane in tutta la sua gravità. Tali valutazioni sono in linea con quanto la tradizione teologico-morale della Chiesa ha sostenuto anche in passato.

In conclusione, nella lotta contro l’Aids i membri e le istituzioni della Chiesa cattolica sappiano che occorre stare vicini alle persone, curando gli ammalati e formando tutti perché possano vivere l’astinenza prima del matrimonio e la fedeltà all’interno del patto coniugale. Al riguardo occorre anche denunciare quei comportamenti che banalizzano la sessualità, perché, come dice il Papa, proprio questi rappresentano la pericolosa ragione per cui tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore. "Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità" (Luce del mondo, p. 170).







Massimo Introvigne (Roma, 14 giugno 1955) è un sociologo, filosofo e scrittore italiano. È il fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), una rete internazionale di studiosi di nuovi movimenti religiosi.

Introvigne è membro della sezione di Sociologia della Religione dell'Associazione Italiana di Sociologia[1] ed è autore di una quarantina di libri, tra i quali L'Enciclopedia delle religioni in Italia, e centinaia di articoli nel campo della sociologia della religioni.

12 novembre 2010

Camminare con la Chiesa 7: Esortazione Apostolica VERBUM DOMINI, "La missione della Chiesa: annunciare la Parola di Dio"

ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE
VERBUM DOMINI
DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
ALL’EPISCOPATO, AL CLERO, ALLE PERSONE CONSACRATE E AI FEDELI LAICI
SULLA PAROLA DI DIO NELLA VITA E NELLA MISSIONE DELLA CHIESA



TERZA PARTE
VERBUM MUNDO



«Dio nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato» (Gv 1,18)


La missione della Chiesa: annunciare la Parola di Dio al mondo


La Parola dal Padre e verso il Padre

90. San Giovanni sottolinea con forza il paradosso fondamentale della fede cristiana: da una parte, egli afferma che «Dio, nessuno lo ha mai visto» (Gv 1,18; cfr 1Gv 4,12). In nessun modo le nostre immagini, concetti o parole possono definire o misurare la realtà infinita dell’Altissimo. Egli rimane il Deus semper maior. Dall’altra parte, egli afferma che il Verbo realmente «si fece carne» (Gv 1,14). Il Figlio unigenito, che è rivolto verso il seno del Padre, ha rivelato il Dio che «nessuno ha mai visto» (Gv 1,18). Gesù Cristo viene a noi, «pieno di grazia e verità» (Gv 1,14), che per mezzo di Lui sono donate a noi (cfr Gv 1,17); infatti, «dalla sua pienezza noi tutti abbiamo ricevuto: grazia su grazia» (Gv 1,16). In tal modo l’evangelista Giovanni nel Prologo contempla il Verbo dal suo stare presso Dio al suo farsi carne, fino al suo ritornare nel seno del Padre portando con sé la nostra stessa umanità, che egli ha assunto per sempre. In questo suo uscire dal Padre e tornare a Lui (cfr Gv 13,3; 16,28; 17,8.10) Egli si presenta a noi come il «Narratore» di Dio (cfr Gv 1,18).
Il Figlio, infatti, afferma sant’Ireneo di Lione, «è il Rivelatore del Padre».[310] Gesù di Nazareth è, per così dire, l’«esegeta» di Dio che «nessuno ha mai visto». «Egli è immagine del Dio invisibile» (Col 1,15). Si compie qui la profezia di Isaia riguardo all’efficacia della Parola del Signore: come la pioggia e la neve scendono dal cielo per irrigare e far germogliare la terra, così la Parola di Dio «non ritornerà a me senza effetto, senza aver operato ciò che desidero e senza aver compiuto ciò per cui l’ho mandata» (Is 55,10s). Gesù Cristo è questa Parola definitiva ed efficace che è uscita dal Padre ed è ritornata a Lui, realizzando perfettamente nel mondo la sua volontà.

Annunciare al mondo il «Logos» della Speranza

91. Il Verbo di Dio ci ha comunicato la vita divina che trasfigura la faccia della terra, facendo nuove tutte le cose (cfr Ap 21,5). La sua Parola ci coinvolge non soltanto come destinatari della Rivelazione divina, ma anche come suoi annunciatori. Egli, l’inviato dal Padre a compiere la sua volontà (cfr Gv 5,36-38; 6,38-40; 7,16-18), ci attira a sé e ci coinvolge nella sua vita e missione. Lo Spirito del Risorto abilita così la nostra vita all’annuncio efficace della Parola in tutto il mondo. È l’esperienza della prima comunità cristiana, che vedeva il diffondersi della Parola mediante la predicazione e la testimonianza (cfr At 6,7). Vorrei qui riferirmi in particolare alla vita dell’apostolo Paolo, un uomo afferrato completamente dal Signore (cfr Fil 3,12) – «non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20) – e dalla sua missione: «guai a me se non annuncio il Vangelo!» (1Cor 9,16), consapevole che quanto è rivelato in Cristo è realmente la salvezza di tutte le genti, la liberazione dalla schiavitù del peccato per entrare nella libertà dei figli di Dio.
In effetti, ciò che la Chiesa annuncia al mondo è il Logos della Speranza (cfr 1Pt 3,15); l’uomo ha bisogno della «grande Speranza» per poter vivere il proprio presente, la grande speranza che è «quel Dio che possiede un volto umano e che ci “ha amati sino alla fine” (Gv 13,1)».[311] Per questo la Chiesa è missionaria nella sua essenza. Non possiamo tenere per noi le parole di vita eterna che ci sono date nell’incontro con Gesù Cristo: esse sono per tutti, per ogni uomo. Ogni persona del nostro tempo, lo sappia oppure no, ha bisogno di questo annuncio. Il Signore stesso, come ai tempi del profeta Amos, susciti tra gli uomini nuova fame e nuova sete delle parole del Signore (cfr Am 8,11). A noi la responsabilità di trasmettere quello che a nostra volta, per grazia, abbiamo ricevuto.

Dalla Parola di Dio la missione della Chiesa

92. Il Sinodo dei Vescovi ha ribadito con forza la necessità di rinvigorire nella Chiesa la coscienza missionaria, presente nel Popolo di Dio fin dalla sua origine. I primi cristiani hanno considerato il loro annuncio missionario come una necessità derivante dalla natura stessa della fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo Figlio, dando con ciò la risposta che tutti gli uomini, nel loro intimo, attendono. Le prime comunità cristiane hanno sentito che la loro fede non apparteneva ad una consuetudine culturale particolare, che è diversa a seconda dei popoli, ma all’ambito della verità, che riguarda ugualmente tutti gli uomini.

È ancora san Paolo che con la sua vita ci illustra il senso della missione cristiana e la sua originaria universalità. Pensiamo all’episodio narrato dagli Atti degli Apostoli circa l’Areòpago di Atene (cfr 17,16-34). L’Apostolo delle genti entra in dialogo con uomini di culture diverse, nella consapevolezza che il mistero di Dio, Noto-Ignoto, di cui ogni uomo ha una percezione per quanto confusa, si è realmente rivelato nella storia: «Colui che, senza conoscerlo, voi adorate, io ve lo annuncio» (At 17,23). Infatti, la novità dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire a tutti i popoli: «Egli si è mostrato. Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio cristiano non consiste in un pensiero ma in un fatto: Egli si è rivelato».[312]

La Parola e il Regno di Dio

93. Pertanto, la missione della Chiesa non può essere considerata come realtà facoltativa o aggiuntiva della vita ecclesiale. Si tratta di lasciare che lo Spirito Santo ci assimili a Cristo stesso, partecipando così alla sua stessa missione: «Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi» (Gv 20,21), in modo da comunicare la Parola con tutta la vita. È la Parola stessa che ci spinge verso i fratelli: è la Parola che illumina, purifica, converte; noi non siamo che servitori.

È necessario, dunque, riscoprire sempre più l’urgenza e la bellezza di annunciare la Parola, per l’avvento del Regno di Dio, predicato da Cristo stesso. In questo senso, rinnoviamo la consapevolezza, così familiare ai Padri della Chiesa, che l’annuncio della Parola ha come contenuto il Regno di Dio (cfr Mc 1,14-15), il quale è la stessa persona di Gesù (l’Autobasileia), come ricorda suggestivamente Origene.[313] Il Signore offre la salvezza agli uomini di ogni epoca. Avvertiamo tutti quanto sia necessario che la luce di Cristo illumini ogni ambito dell’umanità: la famiglia, la scuola, la cultura, il lavoro, il tempo libero e gli altri settori della vita sociale.[314] Non si tratta di annunciare una parola consolatoria, ma dirompente, che chiama a conversione, che rende accessibile l’incontro con Lui, attraverso il quale fiorisce un’umanità nuova.

Tutti i battezzati responsabili dell’annuncio

94. Poiché tutto il Popolo di Dio è un popolo «inviato», il Sinodo ha ribadito che «la missione di annunciare la Parola di Dio è compito di tutti i discepoli di Gesù Cristo come conseguenza del loro battesimo».[315] Nessun credente in Cristo può sentirsi estraneo a questa responsabilità che proviene dall’appartenere sacramentalmente al Corpo di Cristo. Questa consapevolezza deve essere ridestata in ogni famiglia, parrocchia, comunità, associazione e movimento ecclesiale. La Chiesa, come mistero di comunione, è dunque tutta missionaria e ciascuno, nel suo proprio stato di vita, è chiamato a dare un contributo incisivo all’annuncio cristiano.

Vescovi e sacerdoti secondo la missione loro propria sono chiamati per primi ad una esistenza afferrata dal servizio della Parola, ad annunciare il Vangelo, a celebrare i Sacramenti e a formare i fedeli alla conoscenza autentica delle Scritture. Anche i diaconi si sentano chiamati a collaborare, secondo la missione loro propria, a questo impegno di evangelizzazione.

La vita consacrata risplende in tutta la storia della Chiesa per la capacità di assumersi esplicitamente il compito dell’annuncio e della predicazione della Parola di Dio, nella missio ad gentes e nelle situazioni più difficili, con disponibilità anche alle nuove condizioni di evangelizzazione, intraprendendo con coraggio e audacia nuovi percorsi e nuove sfide per l’annuncio efficace della Parola di Dio.[316]

I laici sono chiamati a esercitare il loro compito profetico, che deriva direttamente dal battesimo, e testimoniare il Vangelo nella vita quotidiana dovunque si trovino. A questo proposito i Padri sinodali hanno espresso «la più viva stima e gratitudine nonché l’incoraggiamento per il servizio all’evangelizzazione che tanti laici, e in particolare le donne, offrono con generosità e impegno nelle comunità sparse per il mondo, sull’esempio di Maria di Magdala, prima testimone della gioia pasquale».[317] Il Sinodo riconosce, inoltre, con gratitudine che i movimenti ecclesiali e le nuove comunità sono, nella Chiesa, una grande forza per l’evangelizzazione in questo tempo, spingendo a sviluppare nuove forme d’annuncio del Vangelo.[318]

La necessità della «missio ad gentes»

95. Nell’esortare tutti i fedeli all’annuncio della divina Parola, i Padri sinodali hanno ribadito la necessità anche per il nostro tempo di un impegno deciso nella missio ad gentes. In nessun modo la Chiesa può limitarsi ad una pastorale di «mantenimento», per coloro che già conoscono il Vangelo di Cristo. Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale. Inoltre, i Padri hanno espresso con forza la consapevolezza che la Parola di Dio è la verità salvifica di cui ogni uomo in ogni tempo ha bisogno. Per questo, l’annuncio deve essere esplicito. La Chiesa deve andare verso tutti con la forza dello Spirito (cfr 1 Cor 2,5) e continuare profeticamente a difendere il diritto e la libertà delle persone di ascoltare la Parola di Dio, cercando i mezzi più efficaci per proclamarla, anche a rischio della persecuzione.[319] A tutti la Chiesa si sente debitrice di annunciare la Parola che salva (cfr Rm 1,14).

Annuncio e nuova evangelizzazione

96. Papa Giovanni Paolo II, sulla scia di quanto già espresso dal Papa Paolo VI nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, aveva richiamato in tanti modi i fedeli alla necessità di una nuova stagione missionaria per tutto il Popolo di Dio.[320] All’alba del terzo millennio non solo vi sono ancora tanti popoli che non hanno conosciuto la Buona Novella, ma tanti cristiani hanno bisogno che sia loro riannunciata in modo persuasivo la Parola di Dio, così da poter sperimentare concretamente la forza del Vangelo. Molti fratelli sono «battezzati, ma non sufficientemente evangelizzati».[321] Spesso, Nazioni un tempo ricche di fede e di vocazioni vanno smarrendo la propria identità, sotto l’influenza di una cultura secolarizzata.[322] L’esigenza di una nuova evangelizzazione, così fortemente sentita dal mio venerabile Predecessore, deve essere riaffermata senza timore, nella certezza dell’efficacia della divina Parola. La Chiesa, sicura della fedeltà del suo Signore, non si stanca di annunciare la buona novella del Vangelo ed invita tutti i cristiani a riscoprire il fascino della sequela di Cristo.

Parola di Dio e testimonianza cristiana

97. Gli orizzonti immensi della missione ecclesiale, la complessità della situazione presente chiedono oggi modalità rinnovate per poter comunicare efficacemente la Parola di Dio. Lo Spirito Santo, agente primario di ogni evangelizzazione, non mancherà mai di guidare la Chiesa di Cristo in questa azione. Tuttavia, è importante che ogni modalità di annuncio tenga presente, innanzitutto, la relazione intrinseca tra comunicazione della Parola di Dio e testimonianza cristiana. Da ciò dipende la stessa credibilità dell’annuncio. Da una parte, è necessaria la Parola che comunichi quanto il Signore stesso ci ha detto. Dall’altra, è indispensabile dare, con la testimonianza, credibilità a questa Parola, affinché non appaia come una bella filosofia o utopia, ma piuttosto come una realtà che si può vivere e che fa vivere. Questa reciprocità tra Parola e testimonianza richiama il modo in cui Dio stesso si è comunicato mediante l’incarnazione del suo Verbo. La Parola di Dio raggiunge gli uomini «attraverso l’incontro con testimoni che la rendono presente e viva».[323] In modo particolare le nuove generazioni hanno bisogno di essere introdotte alla Parola di Dio «attraverso l’incontro e la testimonianza autentica dell’adulto, l’influsso positivo degli amici e la grande compagnia della comunità ecclesiale».[324]

C’è uno stretto rapporto tra la testimonianza della Scrittura, come attestazione che la Parola di Dio dà di sé, e la testimonianza di vita dei credenti. L’una implica e conduce all’altra. La testimonianza cristiana comunica la Parola attestata nelle Scritture. Le Scritture, a loro volta, spiegano la testimonianza che i cristiani sono chiamati a dare con la propria vita. Coloro che incontrano testimoni credibili del Vangelo sono portati così a constatare l’efficacia della Parola di Dio in quelli che l’accolgono.

98. In questa circolarità fra testimonianza e Parola comprendiamo le affermazioni del Papa Paolo VI nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi. La nostra responsabilità non si limita a suggerire al mondo valori condivisi; occorre che si arrivi all’annuncio esplicito della Parola di Dio. Solo così saremo fedeli al mandato di Cristo: «La Buona Novella, proclamata dalla testimonianza di vita, dovrà dunque essere presto o tardi annunziata dalla parola di vita. Non c’è vera evangelizzazione se il nome, l’insegnamento, la vita, le promesse, il Regno, il mistero di Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, non siano proclamati».[325]

Il fatto che l’annuncio della Parola di Dio richieda la testimonianza della propria vita è un dato ben presente nella coscienza cristiana fin dalle sue origini. Cristo stesso è il testimone fedele e verace (cfr Ap 1,5; 3,14), testimone della Verità (cfr Gv 18,37). A questo proposito vorrei farmi eco delle innumerevoli testimonianze che abbiamo avuto la grazia di ascoltare durante l’Assemblea sinodale. Siamo stati profondamente commossi davanti al racconto di coloro che hanno saputo vivere la fede e dare testimonianza fulgida del Vangelo anche sotto regimi avversi al Cristianesimo o in situazioni di persecuzione.

Tutto questo non ci deve fare paura. Gesù stesso ha detto ai suoi discepoli: «Un servo non è più grande del suo padrone. Se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi» (Gv 15,20). Desidero, pertanto, innalzare a Dio con tutta la Chiesa un inno di lode per la testimonianza di tanti fratelli e sorelle che anche in questo nostro tempo hanno dato la vita per comunicare la verità dell’amore di Dio rivelatoci in Cristo crocifisso e risorto. Inoltre, esprimo la gratitudine di tutta la Chiesa per i cristiani che non si arrendono davanti agli ostacoli e alle persecuzioni a causa del Vangelo. Allo stesso tempo ci stringiamo con profondo e solidale affetto ai fedeli di tutte quelle comunità cristiane, in Asia e in Africa in particolare, che in questo tempo rischiano la vita o l’emarginazione sociale a causa della fede. Vediamo qui realizzarsi lo spirito delle beatitudini del Vangelo per coloro che sono perseguitati a causa del Signore Gesù (cfr Mt 5,11). Nel contempo non cessiamo di alzare la nostra voce perché i governi delle Nazioni garantiscano a tutti libertà di coscienza e di religione, anche di poter testimoniare la propria fede pubblicamente.[326]

Dato a Roma, presso San Pietro, il 30 settembre, memoria di San Girolamo, dell’anno 2010, sesto del mio Pontificato.


[310] Adversus haereses, IV, 20, 7: PG 7, 1037.
[311] Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi (30 novembre 2007), 31: AAS 99 (2007), 1010.
[312] Benedetto XVI, Discorso agli uomini di cultura al «Collège des Bernardins» di Parigi (12 settembre 2008): AAS 100 (2008), 730.
[313] Cfr In Evangelium secundum Matthaeum 17, 7: PG 13, 1197 B; S. Girolamo, Translatio homiliarum Origenis in Lucam, 36: PL 26, 324-325.
[314] Cfr Benedetto XVI, Omelia per l’apertura della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (5 ottobre 2008): AAS 100 (2008), 757.
[315] Propositio 38.
[316] Cfr Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, Istruzione Ripartire da Cristo: un rinnovato impegno della Vita consacrata nel terzo millennio (19 maggio 2002), 36: Ench. Vat. 21, n. 488-491.
[317] Propositio 30.
[318] Cfr Propositio 38.
[319] Cfr Propositio 49.
[320] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio (7 dicembre 1990): AAS 83 (1991), 294-340; Id., Lett. ap. Novo millennio ineunte (6 gennaio 2001), 40: AAS 93 (2001), 294-295.
[321] Propositio 38.
[322] Cfr Benedetto XVI, Omelia per l’apertura della XII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi (5 ottobre 2008): AAS 100 (2008), 753-757.
[323] Propositio 38.
[324] Messaggio finale, IV, 12.
[325] Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi (8 dicembre 1975), 22: AAS 68 (1976), 20.
[326] Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Dich. sulla libertà religiosa Dignitatis humanae, 2.7.

5 novembre 2010

Dicono di noi 4: Don Ivo, ponte tra Puglia e Guinea

Dicono di noi: perché se sono missionario, non lo sono da solo. Sono missionario perché tanti amici mi sostengono con la loro preghiera, con la loro solidarietà dai mille aspetti, con la simpatia, forse solo con la curiosità di conoscere cosa è una missione in Africa oggi.
Non mi piace quando scrivono di me, ma sono felice di condividere con voi quest’articolo apparso su "Avvenire”, uno dei maggiori quotidiani d’Italia (lo consiglio per la serietà dei suoi contenuti: www.avvenire.it):
+ perché questo articolo parla di noi, parla anche di te che stai leggendo in questo momento, e descrive la nostra partecipazione alla missione;
+ perché al termine del mese missionario, scopro questa bella pagina ben costruita dalla giovane giornalista foggiana;
+ perché il male fa sempre rumore, ma il bene, per grazia di Dio, è più grande di ogni male, e non lo dobbiamo nascondere.


Don Ivo, ponte tra Puglia e Guinea

di Enza Moscaritolo
Avvenire, 3 novembre 2010, pag. 16.


Da quando è missionario fidei donum della arcidiocesi di Foggia-Bovino a Bigene, diocesi di Bissau, in Guinea-Bissau, ben sette bambini portano il suo nome. Un evidente segno del calore di questa gente che ha accolto don Ivo Cavraro, cinquanta anni, con entusiasmo e gioia, un riconoscimento dell’integrazione in questa comunità di circa 3000 anime ai confini con il Senegal, in cui è presente dall’agosto 2008. Don Ivo è il primo parroco della comunità cattolica del Sacro Cuore di Gesù di Bigene, eretta da monsignor José Câmnate, vescovo di Bissau, l’11 aprile scorso in una celebrazione eucaristica che ha visto la partecipazione anche di Francesco Pio Tamburino, arcivescovo di Foggia-Bovino. Se la missione è diventata parrocchia è perché il lavoro svolto dalla presenza stabile delle suore Oblate e del missionario, con una catechesi organizzata, promette sviluppi positivi.



I battezzati sono pochissimi, appena una ventina, ma in tanti partecipano alla catechesi settimanale, una prima evangelizzazione che viene offerta alle popolazioni dei 43 villaggi sparsi nella foresta intorno a Bigene. Circa 500 frequentanti, su un totale di 25-30mila persone che professano la religione tradizionale dell’Africa occidentale o quella musulmana. I rapporti con la comunità islamica sono cordiali e pacifici. Il risultato è, dunque, grande e lascia per ben sperare. Una bella responsabilità che don Ivo ha deciso spontaneamente e serenamente di affrontare, dopo l’ottima esperienza pastorale nella parrocchia Immacolata di Fatima in Segezia, borgata rurale alle porte del capoluogo dauno, come ha ricordato in occasione della Giornata Missionaria. Il ponte tra Foggia e Bigene è ormai consolidato (in Guinea Bissau sono presenti alcune attività dell’Ong foggiana «Solidaunia ») e si alimenta ogni giorno grazie anche a facebook, ad un blog (diariodiunamissione.blogspot.com).

«Ringrazio il Signore perché queste persone mi costringono ad essere vero – spiega don Ivo – in quello che sono e in quello che faccio, ovvero un missionario che annuncia Cristo. Al momento sono l’unico missionario, è vero, ma per fortuna la chiesa di Foggia¬Bovino mi è tanto vicina e mi sostiene, sia nella persona di monsignor Tamburrino sia attraverso i laici che in tanti modi aiutano la missione».



Qui siamo nell’Africa debole e povera. Un bambino su cinque non arriva a cinque anni di vita. Non esiste un censimento, e i bambini sono registrati solo quando vanno a scuola (per coloro che ci vanno: molti sono gli analfabeti, e solo il 40 % frequenta la scuola). La situazione scolare è quella che preoccupa di più. Lodevole è l’impegno delle solerti suore Oblate che operano insieme a lui, suor Miris, suor Teresa e suor Rosa, con la scuola della missione, frequentata da 170 bambini (70 dei quali sono stati adottati dai fedeli foggiani grazie ad una raccolta di materiale che ha consentito di inviare container di cancelleria e indumenti per bambini), pur tra mille difficoltà. «Mi piacerebbe aiutare anche i bambini dei villaggi e dare anche a loro la possibilità di un’istruzione – aggiunge – qui le scuole vivono in autogestione, senza quaderni, senza banchi, senza lavagna e i bambini ascoltano le lezioni solo orali».