«Finché in Africa si muore si continuerà a partire»
Un abruzzese, figlio di immigrati italiani in Libia. I capelli bianchi, la croce vescovile sulla giacca nera, nel dopo Sinodo africano fende la folla dei turisti che assediano il Vaticano, nel tiepido ottobre romano. Il vicario apostolico di Tripoli Giovanni Innocenzo Martinelli, francescano, 67 anni, ha la faccia di un uomo semplice. Vive in Libia da molti anni. La sua è una Chiesa, dice, «di stranieri»: 50mila lavoratori asiatici residenti in quel Paese sono cattolici. Ma, accanto a loro, c’è l’onda, la grande inarrestabile onda dei migranti che si riversano su Tripoli varcando il confine invisibile che scorre lungo la sabbia del deserto. Non pochi – eritrei soprattutto, e nigeriani – sono cristiani. E allora accade che la chiesa di San Francesco, cattedrale di Tripoli, sia anche una 'parrocchia' per i migranti venuti dal Sahara. Gli stessi che sbarcano a Lampedusa o in Sicilia, o vengono respinti in mare; o naufragano, o talvolta scompaiono fra le onde. Al tavolo di una trattoria di Borgo Pio, Martinelli racconta com’è, l’onda dei boat people che preme sull’Europa mediterranea: vista dall’altra parte del mare.
«Sono tantissimi – dice –. Impossibile contarli. Molte decine di migliaia, forse centomila tra Tripoli e la costa libica. Vengono dal Corno d’Africa e dall’Africa sub-sahariana, viaggiando nel deserto su camion di fortuna, ammassati come merci nel cassone. C’è chi in un viaggio simile, che dura molte settimane, ci lascia la vita. Ad ogni frontiera, ad ogni trasbordo, un pedaggio. La frontiera libica è una linea infinita nel deserto; sorvegliarla è impossibile. Una piccola parte dei clandestini finisce nei centri del governo; la maggioranza resta fuori e sopravvive con lavori saltuari o in nero. Molte donne finiscono nella prostituzione. I clandestini non possono andare in ospedale, se si ammalano. Come Chiesa noi facciamo ciò che possiamo: una volta alla settimana un ambulatorio presta assistenza ai malati, e lo stesso fa la Chiesa Copta con gli ortodossi. Facciamo fronte, per quanto riusciamo, a un grande bisogno».
Monsignore, molte Ong e lo stesso Alto commissario dell’Onu per i rifugiati hanno definito le condizioni nei centri di accoglienza libici « terribili » ... Martinelli: «I nostri sacerdoti e suore hanno accesso ad alcuni di questi centri e anche, periodicamente, alle carceri. Certo, sono centri per migranti in un Paese africano; tuttavia i libici sono per tradizione un popolo accogliente e non razzista, e fanno quel che possono per gestire con decoro questi posti. Se non altro, sfamano quella gente; e permettono a noi di entrare. Anche nelle carceri ci è permesso ogni tanto di accedere, di confessare, di dire una Messa. In realtà, in Libia l’islam è tollerante e in rapporto di dialogo con le Chiese cristiane. Noi collaboriamo con l’Islamic Call Society, una organizzazione islamica per la formazione e diffusione dell’islam nel mondo, che fa anche attività assistenziale. Io trovo in sostanza che la Libia, sovrastata da un’emergenza migratoria che è al di sopra delle sue forze, fa quel che può. E certe critiche feroci mi sembrano inquinate dalla politicizzazione. Certo, i centri libici non sono posti in cui si vive bene. Ma vorrei sapere quante carceri italiane lo sono ».
Fuori dai centri, ci sono le migliaia che vivono per strada e di espedienti. Quelli che sognano di passare il mare. Che spendono gli ultimi dollari per un passaggio su un fragile barcone, stretti in ottanta.
Martinelli: «Non tutti i clandestini tentano la traversata. Molti cercano di arrangiarsi e sopravvivere in Libia o nei Paesi della costa. Alcuni, giunti qui, si arrendono e accettano di essere aiutati dalle organizzazioni internazionali a tornare in patria: è il caso di alcune nigeriane, quando capiscono che il lavoro promesso in Europa è la prostituzione. Ma c’è chi, proprio, indietro non può tornare, perché fugge dalla guerra o da una dittatura. I più disperati sono gli eritrei: decisi a tutto, a ogni pericolo, pur di non rimpatriare. Gente decisa a partire ad ogni costo. Non pochi hanno studiato, però sono pronti a fare in Europa qualsiasi mestiere. E questi profughi sono quelli che hanno diritto all’accoglienza, secondo la legge internazionale. Io comprendo la necessità di controllare il flusso migratorio, tuttavia la nuova legge italiana secondo me è inaccettabile non solo per una cultura cristiana, ma anche umana. È qualcosa che tradisce la nostra stessa storia. Ad Ellis Island, i nostri bisnonni venivano lasciati sbarcare. Sì, la legge ha frenato il flusso dei migranti verso l’Italia. Ma – dice Martinelli pacatamente – non c’è da illudersi: riprenderanno a partire, e a premere sull’Europa, finché a casa loro non potranno sopravvivere».
E come aiutarli, nei loro Paesi?
Martinelli sorride amaramente come di una domanda troppo difficile. «Vede, bisognerebbe poter scavalcare la maggior parte dei governi africani. Aiutare direttamente le popolazioni. Non aiuti per mangiare, occorrono. È necessario finanziare strade, ponti, dighe: perché in buona parte dell’Africa la situazione è ferma al Medio Evo. Ci vogliono ospedali. E scuole. Chi aiuterà l’Africa ? L’Europa, si occupa soprattutto di pattugliare i suoi confini. Nemmeno di tutte le Ong ci si può fidare. Io vedo come una nuova forma di colonialismo: alcune organizzazioni che, sotto l’aura benefica, di fatto conducono i loro interessi. Eppure, l’Africa ha straordinarie risorse naturali. Colonizzata dalle multinazionali, depredata nel suo territorio, l’Africa però è ricca. Del suo grande popolo. Delle sue donne. Le donne africane sono straordinariamente forti. L’Africa deve puntare sulle sue donne, lo si è detto al Sinodo. L’Africa , credo, deve puntare sul dialogo interreligioso: è una sfida questa, tra le forze di buona volontà. Il Sinodo ci ha insegnato a capire i problemi dell’Africa per valorizzare questo grande polmone spirituale, come lo definì Giovanni Paolo II».
Intanto però, in Somalia c’è la guerra, in Eritrea una dittatura, in Etiopia la fame. In migliaia cercano di andarsene. Sbarcano in Libia. Arrivano, alcuni, a San Francesco. Dopo la Messa, qualcuno timidamente si avvicina al sacerdote. «Father, bless me » (padre, mi benedica). E non c’è bisogno di domande. Domani, dopodomani, da una insenatura della costa partirà un altro barcone. Viaggerà nella notte, senza luci. Verso l’Europa. Magari, intercettato, tornerà indietro.
«Ma quello che gli europei non capiscono è che in questo movimento migratorio – dice Martinelli – c’è qualcosa di epocale. C’è un popolo giovane e pieno di figli, mentre noi ne abbiamo così pochi, che domanda di vivere. E non è una pressione, questa, che si possa tacitare con misure di polizia. Finché in Africa si muore, continueranno a partire. A qualsiasi costo: perché vogliono vivere, e la volontà di vivere è, di tutte le forze, la più grande».
«Padre, mi benedica». Poi il viaggio
Il venerdì, nella chiesa di San Francesco a Tripoli, c’è una Messa speciale. Anzi, tante Messe. Quelle dei coreani e dei filippini legalmente residenti in Libia; e poi quella degli eritrei, dei nigeriani, dei migranti e dei profughi arrivati qui dal deserto. Ci sono le eritree sfuggite al regime, a volte sole con i loro bambini aggrappati alle gonne; e quelle gravide, che, ad interrogarle, racconterebbero delle violenze subite nel viaggio nel Sahara, in balia dei trafficanti. E tuttavia questa folla di povera gente che gremisce la chiesa prega, dice monsignor Martinelli, «in un modo straordinario. Con una fede, con una gioia che sbalordiscono e commuovono noi occidentali. Pregano, cantano, e in quel pregare si trasformano, è evidente nelle facce come la loro fede sia concreta, l’àncora che li sorregge».
Sono, aggiunge il vicario apostolico, popoli molto solidali: benché poveri, «generosi nel dare il poco che hanno. Se c’è un bambino che ha perso i genitori, naturalmente viene accolto da un’altra famiglia. E non ho mai sentito queste donne, nemmeno quelle incinte dopo una violenza, parlare di aborto. Non è nella loro cultura. Le guardi con questi neonati in braccio, avvinghiati, e se scherzando dici: 'Lascialo a me', vedi come si ritraggono, gelose del figlio. E sono ragazzine, spesso non hanno vent’anni».
A San Francesco si distribuiscono cibo, vestiti, coperte. Si assistono i malati. Le suore seguono le donne gravide. Nascono, su questo margine estremo d’Africa , molti bambini. Alcuni partiranno con i genitori in quei viaggi sui barconi. Ne seguiranno la sorte, qualsiasi essa sia, tra le braccia delle madri. I popoli dell’Africa non abbandonano i figli. Solo una donna, una volta a San Francesco, ha lasciato un neonato fra le braccia di una vicina, e non è più tornata. La donna cui quel fagotto era stato affidato ha voluto adottarlo. Un’altra volta monsignor Martinelli ha trovato un clandestino davanti alla chiesa. Un uomo handicappato, in carrozzella. Lasciato lì, probabilmente, perché sui gommoni le carrozzelle proprio non riescono a salire. Per un anno il vicario apostolico ha ospitato quel poveretto in casa. «Ho bussato a mille porte. Le uniche che alla fine lo hanno accolto, sono state le suore di Madre Teresa di Roma».
Eppure, l’onda dei migranti vista di là del mare non è, nel racconto di Martinelli, disperata. Miserabile sì, senza un tetto, né un soldo, sì. Ma non disperata. Spinta da una irriducibile speranza di una vita migliore per sé, per i figli. Sanno, chiedi, che rischiano la vita nel traversare il mare?
Lo sanno bene, risponde Martinelli, «e noi cerchiamo di scoraggiarli». Ma non demordono. La vita stessa li spinge. E allora, «Father, bless me», sussurrano a bassa voce una sera, e poi non si vedono più. Talvolta, dopo mesi, qualcuno telefona: è passato, ha un lavoro, ce l’ha fatta.
I disperati dei barconi, diciamo noi. Martinelli scuote la testa, non convinto della esattezza di questa espressione: «Bisognerebbe vederli, quando pregano – ripete –. Con quale fede. Con quale affidamento». E chi li ha visti da una motovedetta della Finanza avvicinarsi a Lampedusa, sotto il sole a picco, assetati, sfiniti, si ricorda però che in quel momento della gente pregava, sulle pagine di piccoli libri bagnati dalle onde. Ringraziavano Dio, alla vista della terra. Come una forza possente dentro questi uomini, ai nostri occhi miserabili. La fede, la voglia di vivere e aver figli. Disperati? Forse, meno di noi, in questo vecchio Occidente.
Marina Corradi in “Avvenire”, 31 ottobre 2009
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