Terza Predica di Avvento: la risposta cristiana al razionalismo
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, 17 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La terza Predica d'Avvento tenuta da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“PRONTI A RENDERE RAGIONE DELLA SPERANZA CHE È IN NOI” (1 Pietro 3,15)
1. La ragione usurpatrice
Il terzo ostacolo, che rende tanta parte della cultura moderna “refrattaria” al Vangelo, è il razionalismo. Di esso intendiamo occuparci in questa ultima meditazione di Avvento.
Il cardinale, e ora beato, John Henry Newman ci ha lasciato un memorabile discorso, pronunciato l’11 Dicembre del 1831, all’Università di Oxford, intitolato “The Usurpation of Raison”, l’usurpazione, o la prevaricazione, della ragione. In questo titolo c’è già la definizione di ciò che intendiamo per razionalismo[1]. In una nota di commento a questo discorso, scritta nella prefazione alla sua terza edizione nel 1871, l’autore spiega cosa intende con tale espressione. Per usurpazione della ragione –dice- si intende “quel certo diffuso abuso di tale facoltà che si verifica ogni qual volta ci si occupa di religione senza una adeguata conoscenza intima, o senza il dovuto rispetto per i primi principi ad essa propri. Questa pretesa ‘ragione’ è chiamata dalla Scrittura ‘la sapienza del mondo’; è il ragionare di religione di chi ha la mentalità secolaristica, e si basa su massime mondane, che le sono intrinsecamente estranee” [2].
In un altro dei suoi Sermoni universitari, intitolato “Fede e ragione a confronto”, Newman illustra perché la ragione non può essere l’ultimo giudice in fatto di religione e di fede, con l’analogia della coscienza.
“Nessuno, scrive, dirà che la coscienza si oppone alla ragione, o che i suoi dettami non possono essere posti in forma argomentativa; tuttavia chi, da ciò, vorrà arguire che la coscienza non è un principio originale, ma che per agire ha bisogno di attendere i risultati di un processo logico-razionale? La ragione analizza i fondamenti e i motivi dell’azione, senza essere essa stessa uno di questi motivi. Come dunque la coscienza è un elemento semplice della nostra natura, e tuttavia le sue operazioni ammettono di essere giustificati dalla ragione, altrettanto la fede può essere conoscibile e i suoi atti possono essere giustificati dalla ragione, senza con questo dipenderne realmente […].Quando si dice che il vangelo esige una fede razionale, si vuole soltanto dire che la fede concorda con la retta ragione in astratto, ma non che ne sia in realtà il risultato”[3].
Una seconda analogia è quella dell’arte. “Il critico d’arte –scrive - valuta ciò che egli stesso non sa creare; altrettanto la ragione può dare la sua approvazione all’atto di fede, senza per questo essere la fonte da cui la fede promana”[4].
L’analisi di Newman ha dei tratti nuovi e originali; mette in luce la tendenza, per così dire imperialista, della ragione a sottomettere ogni aspetto della realtà ai propri principi. Si può però considerare il razionalismo anche da un altro punto di vista, strettamente collegato con il precedente. Per rimanere nella metafora politica impiegata da Newman, potremmo definirlo l’atteggiamento di isolazionismo, di chiusura in se stessa della ragione. Esso non consiste tanto nell’invadere il campo altrui, quanto nel non riconoscere l’esistenza di altro campo fuori del proprio. In altre parole, nel rifiuto che possa esistere alcuna verità al di fuori di quella che passa attraverso la ragione umana.
In questa veste, il razionalismo non è nato con l’illuminismo, anche se esso gli ha impresso una accelerazione i cui effetti perdurano ancora. È una tendenza contro la quale la fede ha dovuto fare i conti da sempre. Non solo la fede cristiana, ma anche quella ebraica e islamica, almeno nel medioevo, ha conosciuto questa sfida.
Contro tale pretesa di assolutismo della ragione, si è levata in ogni epoca la voce non solo di uomini di fede, ma anche di uomini militanti nel campo della ragione, filosofi e scienziati. "L'atto supremo della ragione, ha scritto Pascal, sta nel riconoscere che c'è un'infinità di cose che la sorpassano"[5]. Nell'istante stesso che la ragione riconosce il suo limite, lo infrange e lo supera. È ad opera della ragione che si produce questo riconoscimento, che è, perciò, un atto squisitamente razionale. Essa è, alla lettera, una "dotta ignoranza" [6]. Un ignorare "a ragion veduta", sapendo di ignorare.
Si deve dunque dire che pone un limite alla ragione e la umilia colui che non le riconosce questa capacità di trascendersi. "Finora -ha scritto Kierkegaard- si è sempre parlato così: 'Il dire che non si può capire questa o quella cosa, non soddisfa la scienza che vuol capire'. Ecco lo sbaglio. Si deve dire proprio il contrario: qualora la scienza umana non voglia riconoscere che vi è qualcosa che essa non può capire, o -in modo ancor più preciso- qualcosa di cui essa con chiarezza può 'capire che non può capire', allora tutto è sconvolto. È pertanto un compito della conoscenza umana capire che vi sono e quali sono le cose che essa non può capire"[7].
2. Fede e senso del Sacro
È da attendersi che questo tipo di contestazione reciproca tra fede e ragione continui anche in futuro. È inevitabile che ogni epoca rifaccia il cammino per conto proprio, ma né i razionalisti convertiranno con i loro argomenti i credenti, né i credenti i razionalisti. Bisogna trovare una via per rompere questo circolo e liberare la fede da questa strettoia. In tutto questo dibattito su ragione e fede, è la ragione che impone la sua scelta e costringe la fede, per così dire, a giocare fuori casa e sulla difensiva.
Ne aveva ben coscienza il cardinal Newman che in un altro dei suoi discorsi universitari mette in guardia dal rischio di una mondanizzazione della fede nel suo desiderio di correre dietro la ragione. Egli dice di capire, anche se non può accettarle fino in fondo, le ragioni di coloro che sono tentati di sganciare completamente la fede dall’indagine razionale, a causa “degli antagonismi e le divisioni fomentati dall’argomentare e dibattere, l’orgogliosa confidenza che spesso accompagna lo studio delle prove apologetiche, la freddezza, il formalismo, lo spirito secolaristico e carnale, mentre la Scrittura parla della religione come di una vita divina, radicata negli affetti e manifestantesi in grazie spirituali”[8].
In tutti gli interventi di Newman sul rapporto tra ragione e fede, allora non meno dibattuto di oggi, si avverte un ammonimento: non si può combattere il razionalismo con un altro razionalismo, magari di segno contrario. Bisogna dunque trovare un’altra strada che non pretenda di sostituire quella della difesa razionale della fede, ma almeno che l’affianchi, anche perché i destinatari dell’annuncio cristiano non sono solo degli intellettuali, capaci di impegnarsi in questo tipo di confronto, ma anche la massa delle persone comuni indifferenti ad esso e più sensibili ad altri argomenti.
Pascal proponeva la strada del cuore: “Il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce”[9]; i romantici (per esempio Schleiermacher) proponevano quella del sentimento. Ci resta, penso, una via da battere: quella dell’esperienza e della testimonianza. Non intendo qui parlare dell’esperienza personale, soggettiva, della fede, ma di una esperienza universale e oggettiva che possiamo perciò far valere anche nei confronti di persone ancora estranee alla fede. Essa non ci porta fino alla fede piena e che salva: la fede in Gesù Cristo morto e risorto, ma ci può aiutare a crearne il presupposto che è l’apertura al mistero, la percezione di qualcosa che è al di sopra del mondo e della ragione.
Il contributo più notevole che la moderna fenomenologia della religione ha dato alla fede, soprattutto nella forma che essa riveste nell’opera classica di Rudolph Otto “Il sacro”[10], è di aver mostrato che l’affermazione tradizionale che c’è qualcosa che non si spiega con la ragione, non è un postulato teorico o di fede, ma un dato primordiale di esperienza.
Esiste un sentimento che accompagna l’umanità fin dai suoi primordi ed è presente in tutte le religioni e le culture: L’autore lo chiama il sentimento del numinoso. Esso è un dato primario, irriducibile a ogni altro sentimento o esperienza umana; coglie l’uomo con un brivido quando, per qualche circostanza esterna o interna a lui, si trova davanti alla rivelazione del mistero “tremendo e affascinante” del soprannaturale.
Otto designa l’oggetto di questa esperienza con l’aggettivo “irrazionale” (il sottotitolo dell’opera è “L’irrazionale nell’idea del divino e la sua relazione al razionale”); ma tutta l’opera dimostra che il senso che egli da al termine “irrazionale” non è quello di “contrario alla ragione”, ma quello di “fuori della ragione”, di non traducibile in termini razionali. Il numinoso si manifesta in gradi diversi di purezza: dallo stadio più grezzo che è la reazione inquietante suscitata dalle storie di spiriti e di spettri, allo stadio più puro che è la manifestazione della santità di Dio – il Qadosh biblico -, come nella celebre scena della vocazione di Isaia (Is 6,1 ss).
Se è così, la rievangelizzazione del mondo secolarizzato passa anche attraverso un recupero del senso del sacro. Il terreno di cultura del razionalismo –sua causa ed insieme suo effetto – è la perdita del senso del sacro, è necessario perciò che la Chiesa aiuti gli uomini a rimontare la china e riscoprire la presenza e la bellezza del sacro nel mondo. Charles Péguy ha detto che “la spaventosa penuria del Sacro è il marchio profondo del mondo moderno”. Lo si nota in ogni aspetto della vita, ma in particolare nell’arte, nella letteratura e nel linguaggio di tutti i giorni. Per molti autori, essere definiti “dissacranti” non è più un’offesa, ma un complimento.
La Bibbia viene accusata a volte di aver “desacralizzato” il mondo per aver scacciato ninfe e divinità dai monti, dai mari e dai boschi, e aver fatto di essi semplici creature a servizio dell’uomo. Questo è vero, ma è proprio spogliandole di questa falsa pretesa di essere essi stessi delle divinità, che la Scrittura le ha restituite alla loro genuina natura di “segno” del divino. È l’idolatria delle creature che la Bibbia combatte, non la loro sacralità.
Così “secolarizzato”, il creato ha ancora più potere di provocare l’esperienza del numinoso e del divino. Di una esperienza del genere reca il segno, a mio parere, la celebre dichiarazione di Kant, il rappresentante più illustre del razionalismo filosofico:
Due cose riempiono l’animo mio di ammirazione e venerazione sempre nuova e crescente, quanto più spesso e più a lungo la riflessione si occupa di esse: il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me. […]. La prima comincia dal posto che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed estende la connessione in cui mi trovo a una grandezza interminabile, con mondi e mondi, e sistemi di sistemi; e poi ancora ai tempi illimitati del loro movimento periodico, del loro principio e della loro durata”[11].
Uno scienziato vivente, Francis Collins, da poco nominato accademico pontificio, nel suo libro “Il Linguaggio di Dio”, descrive così il momento del suo ritorno alla fede:
“In un bel mattino di autunno, mentre per la prima volta, passeggiando sulle montagne, mi spingevo all’ovest del Mississippi, la maestà e bellezza della creazione vinsero la mia resistenza. Capii che la ricerca era arrivata al termine. Il mattino seguente, al sorgere del sole, mi inginocchiai sull’erba bagnata e mi arresi a Gesù Cristo” [12].
Le stesse scoperte meravigliose della scienza e della tecnica, anziché portare al disincanto, possono diventare occasioni di stupore e di esperienza del divino. Il momento finale della scoperta del genoma umano viene descritto dallo stesso Francis Collins che fu a capo dell’equipe governativa che portò a tale scoperta, “una esperienza di esaltazione scientifica e al tempo stesso di adorazione religiosa”. Tra le meraviglie del creato, nulla è più meraviglioso dell’uomo e, nell’uomo, della sua intelligenza creata da Dio.
La scienza dispera ormai di toccare un limite estremo nell’esplorazione dell’infinitamente grande che è l’universo e nell’esplorazione dell’infinitamente piccolo che sono le particelle sub-atomiche. Alcuni fanno di queste “sproporzioni” un argomento a favore dell’inesistenza di un Creatore e dell’insignificanza dell’uomo. Per il credente esse sono il segno per eccellenza, non solo dell’esistenza, ma anche degli attributi di Dio: la vastità dell’universo, è segno della sua infinita grandezza e trascendenza, la piccolezza dell’atomo, della sua immanenza e dell’umiltà della sua incarnazione che lo ha portato a farsi bambino nel seno di una madre e minuscolo pezzo di pane nelle mani del sacerdote.
Anche nella vita umana quotidiana non mancano occasioni in cui è possibile fare l’esperienza di un’”altra” dimensione: l’innamoramento, la nascita del primo figlio, una grande gioia. Bisogna aiutare le persone ad aprire gli occhi e a ritrovare la capacità di stupirsi. “Chi si stupisce, regnerà”, dice un detto attribuito a Gesù fuori dei vangeli[13]. Nel romanzo “I fratelli Karamazov”, Dostoevskij riferisce le parole che lo starez Zosima, ancora ufficiale dell’esercito, rivolge ai presenti, nel momento in cui, folgorato dalla grazia, rinuncia a battersi in duello con l’avversario: “Signori, girate intorno lo sguardo ai doni di Dio: questo cielo limpido, quest’aria pura, quest’erba tenera, questi uccellini: la natura è così bella e innocente, mentre noi, noi soli, siamo lontani da Dio e siamo stupidi e non comprendiamo che la vita è un paradiso, giacché basterebbe che lo volessimo comprendere, e subito quello s’instaurerebbe in tutta la sua bellezza, e noi ci abbracceremmo e romperemmo in lacrime”[14]. Questo è genuino senso della sacralità del mondo e della vita!
3. Bisogno di testimoni
Quando l’esperienza del sacro e del divino che ci giunge improvvisa e inattesa da fuori di noi, è accolta e coltivata, diventa esperienza soggettiva vissuta. Si hanno così i “testimoni” di Dio che sono i santi e, in modo tutto particolare, una categoria di essi, i mistici.
I mistici, dice una celebre definizione di Dionigi Areopagita, sono coloro che hanno "patito Dio" [15], cioè che hanno sperimentato e vissuto il divino. Sono, per il resto dell’umanità, come gli esploratori che entrarono per primi, di nascosto, nella Terra Promessa e poi tornarono indietro per riferire ciò che avevano veduto - "una terra dove scorre latte e miele" -, esortando tutto il popolo ad attraversare il Giordano (cf Num 14,6-9). Per mezzo di essi giungono a noi, in questa vita, i primi bagliori della vita eterna.
Quando si leggono i loro scritti, come appaiono lontane e perfino ingenue le più sottili argomentazioni degli atei e dei razionalisti! Nasce, nei confronti di questi ultimi, un senso di stupore e anche di pena, come davanti a qualcuno che parla di cose che manifestamente non conosce. Come chi credesse di scoprire continui errori di grammatica in un interlocutore, e non si accorgesse che questi sta semplicemente parlando un'altra lingua che lui non conosce. Ma non si ha nessuna voglia di mettersi a confutarli, tanto le stesse parole dette in difesa di Dio appaiono, in quel momento, vuote e fuori luogo.
I mistici sono, per eccellenza, coloro che hanno scoperto che Dio "esiste"; anzi, che egli solo esiste davvero e che è infinitamente più reale di ciò che di solito chiamiamo realtà. Fu precisamente da uno di questi incontri che una discepola del filosofo Husserl, ebrea e atea convinta, una notte scoprì il Dio vivente. Parlo di Edith Stein, ora Santa Teresa Benedetta della Croce. Era ospite di amici cristiani e una sera che questi si erano dovuti assentare, rimasta sola in casa e non sapendo cosa fare, prese un libro dalla loro biblioteca e si mise a leggerlo. Era l'autobiografia di santa Tersa d'Avila. Andò avanti a leggere tutta la notte. Giunta alla fine, esclamò semplicemente: "Questa è la verità!". Di buon mattino andò in città a comprare un catechismo cattolico e un messalino e, dopo averli studiati, si recò a una vicina chiesa e domandò al sacerdote di essere battezzata.
Ho fatto anch’io una piccola esperienza del potere che hanno i mistici di far toccare con mano il soprannaturale. Era l’anno in cui si discuteva molto sul libro di un teologo intitolato “Esiste Dio?” (“Existiert Gott?”) ma, giunti alla fine della lettura, ben pochi erano pronti a cambiare il punto interrogativo del titolo in un punto esclamativo. Andando a un congresso mi portai dietro il libro degli scritti della Beata Angela da Foligno che non conoscevo ancora. Ne rimasi letteralmente abbagliato; lo portavo con me alle conferenze, lo riaprivo a ogni intervallo, e alla fine lo richiusi dicendo a me stesso: “Se Dio esiste? Non solo esiste, ma è davvero fuoco divorante!”.
Purtroppo una certa moda letteraria è riuscita a neutralizzare anche la "prova" vivente dell'esistenza di Dio che sono i mistici. Lo ha fatto con un metodo singolarissimo: non riducendo il loro numero, ma aumentandolo, non restringendo il fenomeno, ma dilatandolo a dismisura. Mi riferisco a coloro che in una rassegna dei mistici, in antologie dei loro scritti, o in una storia della mistica, mettono uno accanto all'altro, come appartenenti allo stesso genere di fenomeni, san Giovanni della Croce e Nostradamus, santi ed eccentrici, mistica cristiana e cabala medievale, ermetismo, teosofismo, forme di panteismo e perfino l'alchimia. I mistici veri sono un’altra cosa e la Chiesa ha ragione di essere così rigorosa nel suo giudizio su di loro.
Il teologo Karl Rahner, riprendendo, pare, una frase di Raimondo Pannikar, ha affermato: “Il cristiano di domani, o sarà un mistico, o non sarà”. Intendeva dire che, in futuro, a tener viva la fede sarà la testimonianza di persone che hanno una profonda esperienza di Dio, più che la dimostrazione della sua plausibilità razionale. Paolo VI diceva, in fondo, la stessa cosa quando affermava, nell’Evangelii nuntiandi (nr.41): “L'uomo contemporaneo ascolta più volentieri i testimoni che i maestri, o se ascolta i maestri lo fa perché sono dei testimoni”.
Quando l’apostolo Pietro raccomandava ai cristiani di essere pronti a “dar ragione della loro speranza” (1 Pt 3,15), è certo, dal contesto, che anche lui non intendeva parlare di ragioni speculative o dialettiche, ma delle ragioni pratiche, cioè la loro esperienza di Cristo, unita alla testimonianza apostolica che la garantiva. In un commento a questo testo, il cardinal Newman, parla di “ragioni implicite”, che sono, per il credente, più intimamente persuasive che non le ragioni esplicite e argomentative[16].
4. Un soprassalto di fede a Natale
Arriviamo così alla conclusione pratica che più ci interessa in una meditazione come questa. Di irruzioni improvvise del soprannaturale nella vita, non hanno bisogno soltanto i non credenti e i razionalisti per venire alla fede; ne abbiamo bisogno anche noi credenti per ravvivare la nostra fede. Il pericolo maggiore che corrono le persone religiose è di ridurre la fede a una sequenza di riti e di formule, ripetute magari anche con scrupolo, ma meccanicamente e senza intima partecipazione di tutto l’essere. “Questo popolo si avvicina a me solo con la bocca - si lamenta Dio in Isaia - e mi onora con le labbra, mentre il suo cuore è lontano da me e la venerazione che ha verso di me è un imparaticcio di precetti umani” (Is 29, 13).
Il Natale può essere un’occasione privilegiata per avere questo soprassalto di fede. Esso è la suprema “teofania” di Dio, la più alta “manifestazione del Sacro”. Purtroppo il fenomeno del secolarismo sta spogliando questa festa del suo carattere di “mistero tremendo” - cioè che induce al santo timore e all’adorazione -, per ridurlo al solo aspetto di “mistero affascinante”. Affascinante, quel che è peggio, in senso solo naturale, non soprannaturale: una festa dei valori familiari, dell’inverno, dell’albero, delle renne e di Babbo Natale. È in atto in qualche paese il tentativo di cambiare anche il nome di Natale in quello di “festa della luce”. In pochi casi la secolarizzazione è così visibile come a Natale.
Per me, il carattere “numinoso” del Natale è legato a un ricordo. Assistevo un anno alla Messa di Mezzanotte presieduta da Giovanni Paolo II in San Pietro. Arrivò il momento del canto della Kalenda, cioè la solenne proclamazione della nascita del Salvatore, presente nell’antico Martirologio e reintrodotta nella liturgia natalizia dopo il Vaticano II:
“Molti secoli dalla creazione del mondo…
Tredici secoli dopo l’uscita dall’Egitto…
Nella centonovantacinquesima Olimpiade,
Nell’anno 752 dalla fondazione di Roma…
Nel quarantaduesimo anno dell’impero di Cesare Augusto,
Gesù Cristo, Dio eterno e Figlio dell’eterno Padre, essendo stato concepito per opera dello Spirito Santo, trascorsi nove mesi, nasce a Betlemme di Giudea dalla Vergine Maria, fatto uomo”.
Giunti a queste ultime parole provai quella che viene chiamata “l’unzione della fede”: una improvvisa chiarezza interiore, per cui ricordo che dicevo tra me: “È vero! È tutto vero questo che si canta! Non sono soltanto parole. L’eterno entra nel tempo. L’ultimo avvenimento della serie ha rotto la serie; ha creato un “prima” e un “dopo” irreversibili; il computo del tempo che prima avveniva in relazione a diversi avvenimenti (olimpiade tale, regno del tale), ora avviene in relazione a un unico avvenimento”. Una commozione improvvisa mi attraversò tutta la persona, mentre potevo solo dire: “Grazie, Santissima Trinità, e grazie anche a te, Santa Madre di Dio!”.
Aiuta molto a fare del Natale l’occasione per un soprassalto di fede trovare spazi di silenzio. La liturgia avvolge la nascita di Gesù nel silenzio: “Dum medium silentium tenerent omnia”, mentre tutto intorno era silenzio. “Stille Nacht”, notte di silenzio, viene chiamato il Natale nel più diffuso e caro dei canti natalizi. A Natale dovremmo sentire come rivolto personalmente a noi l’invito del Salmo: “Fermatevi e sappiate che io sono Dio” (Sal 46,11).
La Madre di Dio è il modello insuperabile di questo silenzio natalizio: “Maria – è scritto –, da parte sua, serbava tutte queste cose, meditandole nel suo cuore” (Lc 2, 19). Il silenzio di Maria a Natale è più che un semplice tacere; è meraviglia, è adorazione; è un “religioso silenzio”, un essere sopraffatta dalla realtà. L’interpretazione più vera del silenzio di Maria è quella che si ha nelle antiche icone bizantine, dove la Madre di Dio ci appare immobile, con lo sguardo fisso, gli occhi spalancati, come chi ha visto cose che non si possono ridire a parole. Maria, per prima, ha elevato a Dio quello che san Gregorio Nazianzeno chiama un “inno di silenzio”[17].
Fa veramente il Natale chi è capace di fare oggi, a distanza di secoli, quello che avrebbe fatto, se fosse stato presente quel giorno. Chi fa quello che ci ha insegnato a fare Maria: inginocchiarsi, adorare e tacere!
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[1] J.H. Newman, Oxford University Sermons, London 1900, pp.54-74; trad. Ital. di L. Chitarin, Bologna, Edizioni Studio Domenicano, 2004, pp. 465-481.
[2] Ib.p. XV (trad. ital. Cit. p.726).
[3] Ib., p. 183 (trad. ital. Cit. p.575).
[4] Ibidem.
[5] B.Pascal, Pensieri 267 Br.
[6] S. Agostino, Epist. 130,28 (PL 33, 505).
[7] S. Kierkegaard, Diario VIII A 11.
[8] Newman, op. cit., p. 262 (trad. ital. cit., p. 640 s).
[9] B. Pascal, Pensieri, n.146 (ed. Br. N. 277).
[10] R. Otto, Das Heilige. Über das Irrationale in der Idee des Göttlichen und seine Verhältnis zum Rationalem, 1917. ( Trad. ital. di E. Bonaiuti, Il Sacro, Milano, Feltrinelli 1966).
[11] I. Kant, Critica della ragion pratica, Laterza, Bari, 1974, p. 197.
[12] F. Collins, The Language of God. A Scientist Presents Evidence for Belief, Free Press 2006, pp. 219 e 255.
[13] In Clemente Alessandrino, Stromati, 2, 9).
[14] F. Dostoevskij, I Fratelli Karamazov, parte II, VI,
[15] Dionigi Areopagita, Nomi divini II,9 (PG 3, 648) ("pati divina").
[16] Cf. Newman, “Implicit and Explicit Reason”, in University Sermons, XIII, cit., pp. 251-277
[17] S. Gregorio Nazianzeno, Carmi, XXIX (PG 37, 507).
Raniero Cantalamessa (Colli del Tronto, 22 luglio 1934) è un presbitero, teologo e predicatore italiano dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
Nel 1958 fu ordinato sacerdote nella Basilica di Loreto, dove iniziò il proprio ministero.
Si laureò in Teologia a Friburgo (in Svizzera) e, nel 1969, in Lettere classiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L'interesse per le Lettere classiche era dovuto alla volontà di padroneggiare il greco e il latino per lo studio del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa.Per la sua formazione si rivelarono importanti anche gli scrittori, i pensatori e i poeti moderni:
«La lettura dei romanzi dei russi per me è stata preziosissima, perché aiuta a penetrare nel cuore della gente, a vedere quali sono le preoccupazioni, le passioni, le domande della gente. [...] Io ho anche dei miei pensatori prediletti: uno è Pascal, un altro è Kierkegaard. Poi ho dei poeti prediletti: uno è Péguy, uno è Claudel. [...] Dovrei aggiungere i mistici, perché i mistici sono delle personalità straordinarie.»
Divenne assistente di Giuseppe Lazzati e suo successore come docente ordinario di Storia delle origini cristiane alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, presso la quale sostituì Lazzati anche come Direttore del Dipartimento di scienze religiose.
Dal 1975 al 1981 fu membro della Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1979 abbandonò la docenza per dedicarsi completamente al ministero della Parola: ebbe — come lui l'ha definita — una «seconda chiamata» e diventò, dal 1980, Predicatore della Casa Pontificia, col compito di dettare, ogni venerdì mattina, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa e di alte autorità ecclesiastiche. Portò avanti tale compito per oltre 25 anni con Giovanni Paolo II.
Nell'aprile del 2005, in occasione del conclave che porterà alla elezione di papa Benedetto XVI, è stato uno dei due predicatori che ha rivolto una esortazione ai cardinali riuniti.[6] Col nuovo papa, Cantalamessa ha continuato a svolgere, ogni settimana, la funzione di Predicatore della Casa Pontificia, impegnandosi inoltre anche all'estero per l'organizzazione di esercizi e ritiri; ad esempio, nel gennaio 2010, ha parlato nelle Filippine, per una intera settimana, a 4000 sacerdoti e 100 vescovi.
Dal 1982 — seguendo l'esempio di Padre Mariano — iniziò a comparire sul primo canale Rai proponendo il commento del Vangelo. Dal 1995 al 2009 (con due interruzioni di un anno) ha condotto la rubrica Le ragioni della speranza all'interno del programma di cultura religiosa "A sua immagine", dando così vita a quella che è stata definita «la più grande parrocchia d'Italia», formata da milioni di suoi affezionati telespettatori (anche al di fuori dell'Italia) e da schiere di corrispondenti. Caratteristisco il suo sorridente saluto francescano Pace e bene.
La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
20 dicembre 2010
11 dicembre 2010
Chiariamoci le idee 6: la risposta cristiana al secolarismo
Seconda Predica di Avvento: la risposta cristiana al secolarismo
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 11 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La seconda Predica d'Avvento tenuta questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“VI ANNUNCIAMO LA VITA ETERNA” (1 Gv 1,2)
1. Secolarizzazione e secolarismo
In questa meditazione ci occupiamo del secondo scoglio che incontra l’evangelizzazione nel mondo moderno occidentale, la secolarizzazione. Nel Motu Proprio con cui il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione si dice che esso “è a servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di antica tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione”.
La secolarizzazione è un fenomeno complesso è ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, essa non solo non è contro il Vangelo ma trova in esso una delle sue radici profonde; può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti contrari alla religione e alla fede per il quale si preferisce usare il termine di secolarismo. Il secolarismo sta alla secolarizzazione come lo scientismo sta alla scientificità e il razionalismo alla razionalità.
Occupandoci degli ostacoli o delle sfide che la fede incontra nel mondo moderno, noi ci riferiamo esclusivamente a questa accezione negativa della secolarizzazione. Anche così delimitato, però, la secolarizzazione presenta molte facce a seconda dei campi in cui si manifesta: la teologia, la scienza, l’etica, l’ermeneutica biblica, la cultura in generale, la vita quotidiana. Nella presente meditazione prendo il termine nel suo significato primordiale. Secolarizzazione, come secolarismo, derivano infatti dalla parola “saeculum” che nel linguaggio comune ha finito per indicare il tempo presente (“l’eone attuale”, secondo la Bibbia), in opposizione all’eternità (l’eone futuro, o “i secoli dei secoli”, della Bibbia). In questo senso, secolarismo è un sinonimo di temporalismo, di riduzione del reale alla sola dimensione terrena.
La caduta dell’orizzonte dell’eternità, o della vita eterna, ha sulla fede cristiana l’effetto che ha la sabbia gettata su una fiamma: la soffoca, la spegne. La fede nella vita eterna costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita –esclama san Paolo – siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
2. Ascesa e declino dell’idea di eternità
Richiamiamo per sommi capi la storia della credenza in una vita oltre la morte; ci aiuterà a misurare la novità recata dal Vangelo in questo campo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento tale credenza si afferma solo tardivamente. Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti, e anche allora non presso tutti (i Sadducei, si sa, non condividevano tale credenza).
Questo smentisce clamorosamente la tesi di coloro (Feuerbach, Marx, Freud) che spiegano la credenza in Dio con il desiderio di una ricompensa eterna, come proiezione nell’aldilà delle attese terrene deluse. Israele ha creduto in Dio, molti secoli prima che in una ricompensa eterna nell’aldilà! Non è, dunque, il desiderio di una ricompensa eterna che ha prodotto la fede in Dio, ma è la fede in Dio che ha prodotto la credenza in una ricompensa ultraterrena.
La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo biblico, con la venuta di Cristo. Gesù non fonda la certezza della vita eterna sulla natura dell’uomo, l’immortalità dell’anima, ma sulla “potenza di Dio”, che è un “Dio dei vivi e non dei morti” (Lc 20,27-38). Dopo la Pasqua, a questo fondamento teologico, gli apostoli aggiungeranno quello cristologico: la risurrezione di Cristo da morte. Su di essa l’Apostolo fonda la fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dai morti?... Ora Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 12.20).
Anche nel mondo greco–romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è che la vita vera termina con la morte; dopo di essa c’è solo una parvenza di vita, in un mondo di ombre. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica. Secondo essa, il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima[1].
Questa credenza rimarrà, tuttavia, largamente minoritaria, riservata agli iniziati ai misteri e ai seguaci di particolari scuole filosofiche. Presso la massa persisterà la convinzione antica che la vita vera termina con la morte. Sono note le parole che l’imperatore Adriano rivolge a se stesso prossimo alla morte:
Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t'appresti a ascendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora
guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non rivedremo mai più…[2].
Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena; si capisce anche perché l’idea e i simboli della vita eterna sono così frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.
Ma che è successo all’idea cristiana di una vita eterna per l’anima e per il corpo, dopo che aveva trionfato sull’idea pagana del “buio oltre la morte”? A differenza del momento attuale in cui l’ateismo si esprime soprattutto nella negazione dell’esistenza di un Creatore, nel secolo XIX esso si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà. Raccogliendo l’affermazione di Hegel, secondo cui “i cristiani sprecano in cielo le energie destinate alla terra”, Feuerbach e soprattutto Marx hanno combattuto la credenza in una vita dopo morte, sotto pretesto che essa aliena dall’impegno terreno. All’idea di una sopravvivenza personale in Dio, si sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella specie e nella società del futuro.
A poco a poco, con il sospetto, è caduto sulla parola eternità l'oblio e il silenzio. Il materialismo e il consumismo hanno fatto il resto nelle società opulente, facendo perfino apparire sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi. Tutto questo ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti che si è fatta, su questo punto, timida e reticente. Quando abbiamo sentito l'ultima predica sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel Credo: “Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma senza dare troppo peso a queste parole. Aveva ragione Kierkegaard quando scriveva: “L'aldilà è diventato uno scherzo, un'esigenza così incerta che non solo nessuno più la rispetta, ma anzi neppure più la prospetta, al punto che ci si diverte perfino al pensiero che c'era un tempo in cui quest'idea trasformava l'intera esistenza”[3].
Qual è la conseguenza pratica di questa eclisse dell'idea di eternità? San Paolo riferisce il proposito di coloro che non credono nella risurrezione da morte: “Mangiamo, beviamo, domani moriremo” (l Cor 15,32). Il desiderio naturale di vivere sempre, distorto, diventa desiderio, o frenesia, di vivere bene, cioè piacevolmente, anche a spese degli altri, se necessario. La terra intera diventa quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Caduto l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda.
3. L’eternità: una speranza e una presenza
Anche a proposito del secolarismo, come per lo scientismo, la risposta più efficace non consiste nel combattere l’errore contrario, ma nel far risplendere di nuovo davanti agli uomini la certezza della vita eterna, facendo leva sulla forza intrinseca che possiede la verità quando è accompagnata dalla testimonianza della vita. “A un’idea, scriveva un antico Padre, si può sempre opporre un’altra idea e a una opinione un’altra opinione; ma cosa si potrà opporre a una vita?”.
Dobbiamo far leva anche sulla corrispondenza di tale verità al desiderio più profondo, anche se represso, del cuore umano. A un amico che gli rimproverava, quasi fosse una forma di orgoglio e di presunzione, il suo anelito all'eternità, Miguel de Unamuno, che non era certo un apologeta della fede, rispose in una lettera:
“Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c'è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E troppo facile affermare: ‘Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita’. E quelli che non se ne accontentano?”[4].
Non è chi desidera l'eternità, aggiungeva nella stessa occasione, che mostra di disprezzare il mondo e la vita di quaggiù, ma al contrario chi non la desidera: “Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no”. Sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Cui non datur semper vivere, quid prodest bene vivere?”, “A che giova vivere bene, se non è dato vivere sempre?”[5]. “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”, ha cantato un nostro poeta [6].
Agli uomini del nostro tempo che coltivano in fondo al cuore questo bisogno di eternità, senza forse avere il coraggio di confessarlo agli altri e neppure a se stessi, noi possiamo ripetere ciò che Paolo diceva agli ateniesi: “Ciò che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (cf. Atti 17,23).
La risposta cristiana al secolarismo nel senso che lo intendiamo qui, non si fonda, come per Platone, su un’idea filosofica – l’immortalità dell’anima -, ma su un evento. L'illuminismo aveva posto il celebre problema come si possa attingere l'eternità, mentre si è nel tempo e come si possa dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna[7]. In altre parole: come si possa giustificare la pretesa della fede cristiana di promettere una vita eterna e di minacciare una pena ugualmente eterna, per atti compiuti nel tempo.
L'unica risposta valida a questo problema è quella che si fonda sulla fede nell'incarnazione di Dio. In Cristo, l'eterno è entrato nel tempo, si è manifestato nella carne; davanti a lui è possibile prendere una decisione per l’eternità. È così che l’evangelista Giovanni parla della vita eterna: “Vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1 Gv 1, 2).
Per il credente, l’eternità non è, come si vede, solo una speranza, è anche una presenza. Ne facciamo l'esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui “ possiede già la vita eterna “ (cfr. 1Gv 5,13); ogni volta che riceviamo la comunione, in cui “ci viene dato il pegno della gloria futura” (“futurae gloriae nobis pignus datur”); ogni volta che ascoltiamo le parole del Vangelo che sono “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68). Anche san Tommaso d’Aquino dice che “la grazia è l’inizio della gloria”[8].
Questa presenza dell'eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo. Egli è definito “ la caparra della nostra eredità “ (Ef 1,14; 2Cor 5,5), e ci è stato donato perché, avendo ricevuto le primizie, noi aneliamo alla pienezza. “ Cristo - scrive sant'Agostino - ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto renderci sicuri del compimento della sua promessa. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra lo Spirito che ci ha dato”[9].
4. Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?
Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi […]. Per l’embrione tuttavia la vita futura è assolutamente futura: non giunge a lui nessun raggio di luce, nulla di ciò che è di questa vita. Non così per noi, dal momento che il secolo futuro è stato come riversato e commisto a questo presente […] Perciò già ora è concesso ai santi non solo di disporsi e prepararsi alla vita, ma di vivere e di operare in essa”[10].
Esiste una storiella che illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo?”. La bimba, facendosi coraggio, insisteva: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.
Potremmo utilizzare questa simpatica storiella quando dobbiamo annunciare la vita eterna a persone che hanno smarrito la fede in essa, ma ne conservano la nostalgia e forse aspettano che la Chiesa, come quella bambina, li aiuti a credere in essa.
Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi da che mondo è mondo e gli uomini di oggi non fanno eccezione: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo”. Nella sua “Storia ecclesiastica del popolo inglese”, il Venerabile Beda racconta come la fede cristiana fece il suo ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i missionari venuti da Roma arrivarono nel Northumberland, il re Edwino convocò un consiglio dei dignitari per decidere se permettere loro, o meno, di diffondere il nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e disse:
“Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino, entra da una apertura della parete e subito esce dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla tempesta invernale; ma dopo aver goduto del breve tepore, subito scompare dalla vista, perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa di più sicuro su ciò, dico che la si deve accogliere”[11].
Chissà che la fede cristiana non possa ritornare in Inghilterra e nel continente europeo per la stessa ragione per cui vi fece il suo ingresso: come l’unica che ha una risposta sicura da dare ai grandi interrogativi della vita terrena. L’occasione più propizia per far giungere questo messaggio sono i funerali. In essi le persone sono meno distratte che in altri riti di passaggio (battesimo, matrimonio), si interrogano sul proprio destino. Quando si piange su un caro defunto, si piange anche su di sé.
Ho ascoltato una volta un interessante programma della BBC inglese sui cosiddetti “funerali secolari”, con la registrazione dal vivo dello svolgimento di uno di essi. A un certo punto si sentiva l’officiante che diceva ai presenti: “Non dobbiamo essere tristi. Vivere una buona vita, appagante, per settantotto anni (l’età della defunta) è qualcosa di cui si deve essere grati”. Grati a chi?, mi domandavo. Un tale funerale non fa che rendere più evidente la disfatta totale dell’uomo di fronte alla morte.
Sociologi e uomini di cultura, chiamati a spiegare il fenomeno dei funerali secolari o “umanistici”, vedevano la causa del diffondersi di questa pratica in alcuni paesi del nord Europa, nel fatto che i funerali religiosi implicano nei presenti una fede che essi non si sentono di condividere. La proposta che avanzavano era: la Chiesa, nei funerali, eviti ogni accenno a Dio, alla vita eterna, a Gesù Cristo morto e risorto, e limiti il suo ruolo a quello di “naturale e sperimentato organizzatore dei riti di passaggio”! In altre parole, si rassegni alla secolarizzazione anche della morte!
5. Andremo alla casa del Signore!
Una rinnovata fede nell’eternità non ci serve solo per l’evangelizzazione, cioè per l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima ancora, per imprimere un nuovo slancio al nostro cammino verso la santità. L’affievolirsi dell'idea di eternità agisce anche sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita.
Pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da pesare e dall'altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura, tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il sopravvento, anche un pugno di piume.
Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è l'eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo. Gesù diceva: “Se la tua mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio entrare nella vita con una mano sola o con un occhio solo, anziché con tutti e due essere gettato nel fuoco eterno” (cfr. Mt 18,8-9). Ma noi, avendo perso di vista l'eternità, troviamo già eccessivo che ci si chieda di chiudere gli occhi davanti a uno spettacolo immorale.
San Paolo osa scrivere: “Il momentaneo, leggero peso della tribolazione ci procura un peso smisurato ed eterno di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,17-18). Il peso della tribolazione è “leggero” proprio perché momentaneo, quello della gloria è smisurato proprio perché eterno. Per questo lo stesso Apostolo può dire: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Il cardinal Newman, che abbiamo scelto come maestro speciale in questo Avvento, ci obbliga ad aggiungere una verità mancante nelle riflessioni svolte fin qui sull’eternità. Lo fa con il poemetto “Il sogno di Geronzio”, posto in musica dal grande compositore inglese Edgar Elgar. Un vero capolavoro per profondità di pensieri, afflato lirico e corale drammaticità.
Descrive il sogno di un anziano (questo significa il nome Geronzio) che si sente prossimo alla fine. Ai suoi pensieri sul senso della vita, della morte, sull’abisso del nulla in cui sta precipitando, si sovrappongono i commenti degli astanti, la voce orante della Chiesa: “Parti da questo mondo, anima cristiana“ (“proficiscere, anima christiana”), le voci contrastanti di angeli e demoni che soppesano la sua vita e reclamano la sua anima. Particolarmente bella e profonda la descrizione del momento del trapasso e del risveglio in un altro mondo:
“Mi addormentai; ed ora sono rianimato.
È uno strano ristoro; poiché sento in me
una leggerezza indicibile, ed un senso
di libertà, come se fossi me stesso finalmente,
e mai lo fossi stato prima. Quanta pace!
Non odo più l’incessante battito del tempo,
no, né il mio respiro ansimante, né il polso affannoso;
non un momento differisce da quello che viene dopo”[12].
Le ultime parole che l’anima pronuncia nel poema sono quelle con cui si avvia serena, e anzi impaziente, al Purgatorio:
Là canterò il mio Signore ed il mio Amore assenti:
portatemi via,
perché più presto possa sorgere, ed ascendere lassù.
E vede Lui nella verità del giorno sempiterno”[13].
Per l’imperatore Adriano, la morte era il passaggio dalla realtà alle ombre, per il cristiano John Newman essa è il passaggio dalle ombre alla realtà, “ex umbris et imaginibus in veritatem”, come volle fosse scritto sulla sua tomba.
Qual è, allora, la verità mancante che Newman ci obbliga a non tacere? Che il passaggio dal tempo all’eternità non è rettilineo e uguale per tutti. C’è un giudizio da affrontare e un giudizio che può avere due esiti molto diversi, l’inferno o il paradiso. Quella di Newman è una spiritualità austera, perfino a tratti rigorista, come quella del “Dies irae”, ma quanto salutare in un’epoca incline a prendere tutto alla leggera e a scherzare, come diceva Kierkegaard, con il pensiero dell’eternità!
Indirizziamo dunque con rinnovato slancio i nostri pensieri verso l’eternità, ripetiamo a noi stessi con le parole del poeta: “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”. Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi, detti “salmi delle ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i salmi che cantavano i pellegrini israeliti quando “salivano” in pellegrinaggio verso la città santa, Gerusalemme. Uno di essi comincia così: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni sono diventati ormai i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in cammino verso la Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi. Commentando quelle parole iniziali del salmo, sant’Agostino diceva ai suoi fedeli:
“Corriamo perché andremo alla casa del Signore; corriamo perché tale corsa non stanca; perché arriveremo a una meta dove non esiste stanchezza. Corriamo alla casa del Signore e la nostra anima gioisca per coloro che ci ripetono queste parole. Essi hanno visto prima di noi la patria, l’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto: Correte, affrettatevi, veniteci dietro! “Andiamo alla casa del Signore!”[14].
………………………………………..
[1] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1967, p. 173ss.
[2] Animula vagula, blandula, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.
[3] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 458.
[4] Miguel de Unamuno, “Cartas inéditas de Miguel de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain,” ed. Hernán Benítez, Revista de la Universidad de Buenos Aires, vol. 3, no. 9 (Gennaio-Marzo 1949), pp. 135. 150.
[5] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45, 2 (PL, 35, 1720).
[6] Antonio Fogazzaro, “A Sera,” in Le poesie, Milano, Mondadori, 1935, pp. 194–197.
[7] G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, X, p.36.
[8] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 24, art.3, ad 2.
[9] S. Agostino, Sermo 378,1 (PL, 39, 1673).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I,1-2, ed. a cura di U. Neri, Torino, UTET, 1971, pp.65-67.,
[11] Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica Anglorum, II, 13.
[12] Il sogno di Geronzio, in Newman Poeta, a cura di L. Obertello, Jaka Book, Milano 2010, p.124
[13] Ib, p. 156.
[14] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 121,2 (CCL, 40, p. 1802).
Raniero Cantalamessa (Colli del Tronto, 22 luglio 1934) è un presbitero, teologo e predicatore italiano dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
Nel 1958 fu ordinato sacerdote nella Basilica di Loreto, dove iniziò il proprio ministero.
Si laureò in Teologia a Friburgo (in Svizzera) e, nel 1969, in Lettere classiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L'interesse per le Lettere classiche era dovuto alla volontà di padroneggiare il greco e il latino per lo studio del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa.Per la sua formazione si rivelarono importanti anche gli scrittori, i pensatori e i poeti moderni:
«La lettura dei romanzi dei russi per me è stata preziosissima, perché aiuta a penetrare nel cuore della gente, a vedere quali sono le preoccupazioni, le passioni, le domande della gente. [...] Io ho anche dei miei pensatori prediletti: uno è Pascal, un altro è Kierkegaard. Poi ho dei poeti prediletti: uno è Péguy, uno è Claudel. [...] Dovrei aggiungere i mistici, perché i mistici sono delle personalità straordinarie.»
Divenne assistente di Giuseppe Lazzati e suo successore come docente ordinario di Storia delle origini cristiane alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, presso la quale sostituì Lazzati anche come Direttore del Dipartimento di scienze religiose.
Dal 1975 al 1981 fu membro della Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1979 abbandonò la docenza per dedicarsi completamente al ministero della Parola: ebbe — come lui l'ha definita — una «seconda chiamata» e diventò, dal 1980, Predicatore della Casa Pontificia, col compito di dettare, ogni venerdì mattina, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa e di alte autorità ecclesiastiche. Portò avanti tale compito per oltre 25 anni con Giovanni Paolo II.
Nell'aprile del 2005, in occasione del conclave che porterà alla elezione di papa Benedetto XVI, è stato uno dei due predicatori che ha rivolto una esortazione ai cardinali riuniti.[6] Col nuovo papa, Cantalamessa ha continuato a svolgere, ogni settimana, la funzione di Predicatore della Casa Pontificia, impegnandosi inoltre anche all'estero per l'organizzazione di esercizi e ritiri; ad esempio, nel gennaio 2010, ha parlato nelle Filippine, per una intera settimana, a 4000 sacerdoti e 100 vescovi.
Dal 1982 — seguendo l'esempio di Padre Mariano — iniziò a comparire sul primo canale Rai proponendo il commento del Vangelo. Dal 1995 al 2009 (con due interruzioni di un anno) ha condotto la rubrica Le ragioni della speranza all'interno del programma di cultura religiosa "A sua immagine", dando così vita a quella che è stata definita «la più grande parrocchia d'Italia», formata da milioni di suoi affezionati telespettatori (anche al di fuori dell'Italia) e da schiere di corrispondenti. Caratteristisco il suo sorridente saluto francescano Pace e bene.
Del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 11 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La seconda Predica d'Avvento tenuta questo venerdì da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“VI ANNUNCIAMO LA VITA ETERNA” (1 Gv 1,2)
1. Secolarizzazione e secolarismo
In questa meditazione ci occupiamo del secondo scoglio che incontra l’evangelizzazione nel mondo moderno occidentale, la secolarizzazione. Nel Motu Proprio con cui il papa ha istituito il Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione si dice che esso “è a servizio delle Chiese particolari, specialmente in quei territori di antica tradizione cristiana dove con maggiore evidenza si manifesta il fenomeno della secolarizzazione”.
La secolarizzazione è un fenomeno complesso è ambivalente. Può indicare l’autonomia delle realtà terrene e la separazione tra regno di Dio e regno di Cesare e, in questo senso, essa non solo non è contro il Vangelo ma trova in esso una delle sue radici profonde; può, però, indicare anche tutto un insieme di atteggiamenti contrari alla religione e alla fede per il quale si preferisce usare il termine di secolarismo. Il secolarismo sta alla secolarizzazione come lo scientismo sta alla scientificità e il razionalismo alla razionalità.
Occupandoci degli ostacoli o delle sfide che la fede incontra nel mondo moderno, noi ci riferiamo esclusivamente a questa accezione negativa della secolarizzazione. Anche così delimitato, però, la secolarizzazione presenta molte facce a seconda dei campi in cui si manifesta: la teologia, la scienza, l’etica, l’ermeneutica biblica, la cultura in generale, la vita quotidiana. Nella presente meditazione prendo il termine nel suo significato primordiale. Secolarizzazione, come secolarismo, derivano infatti dalla parola “saeculum” che nel linguaggio comune ha finito per indicare il tempo presente (“l’eone attuale”, secondo la Bibbia), in opposizione all’eternità (l’eone futuro, o “i secoli dei secoli”, della Bibbia). In questo senso, secolarismo è un sinonimo di temporalismo, di riduzione del reale alla sola dimensione terrena.
La caduta dell’orizzonte dell’eternità, o della vita eterna, ha sulla fede cristiana l’effetto che ha la sabbia gettata su una fiamma: la soffoca, la spegne. La fede nella vita eterna costituisce una delle condizioni di possibilità dell’evangelizzazione. “Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita –esclama san Paolo – siamo da commiserare più di tutti gli uomini” (1 Cor 15,19).
2. Ascesa e declino dell’idea di eternità
Richiamiamo per sommi capi la storia della credenza in una vita oltre la morte; ci aiuterà a misurare la novità recata dal Vangelo in questo campo. Nella religione ebraica dell’Antico Testamento tale credenza si afferma solo tardivamente. Soltanto dopo l’esilio, di fronte al fallimento delle attese temporali, si fa strada l’idea della risurrezione della carne e di una ricompensa ultraterrena dei giusti, e anche allora non presso tutti (i Sadducei, si sa, non condividevano tale credenza).
Questo smentisce clamorosamente la tesi di coloro (Feuerbach, Marx, Freud) che spiegano la credenza in Dio con il desiderio di una ricompensa eterna, come proiezione nell’aldilà delle attese terrene deluse. Israele ha creduto in Dio, molti secoli prima che in una ricompensa eterna nell’aldilà! Non è, dunque, il desiderio di una ricompensa eterna che ha prodotto la fede in Dio, ma è la fede in Dio che ha prodotto la credenza in una ricompensa ultraterrena.
La piena rivelazione della vita eterna si ha, nel mondo biblico, con la venuta di Cristo. Gesù non fonda la certezza della vita eterna sulla natura dell’uomo, l’immortalità dell’anima, ma sulla “potenza di Dio”, che è un “Dio dei vivi e non dei morti” (Lc 20,27-38). Dopo la Pasqua, a questo fondamento teologico, gli apostoli aggiungeranno quello cristologico: la risurrezione di Cristo da morte. Su di essa l’Apostolo fonda la fede nella risurrezione della carne e nella vita eterna: “Se si annuncia che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dai morti?... Ora Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti” (1 Cor 15, 12.20).
Anche nel mondo greco–romano si assiste a una evoluzione nella concezione dell’oltretomba. L’idea più antica è che la vita vera termina con la morte; dopo di essa c’è solo una parvenza di vita, in un mondo di ombre. Una novità si registra con la comparsa della religione orfico-pitagorica. Secondo essa, il vero io dell’uomo è l’anima che, liberata dalla prigione (sema) del corpo (soma), può finalmente vivere la sua vera vita. Platone darà a questa scoperta una dignità filosofica, basandola sulla natura spirituale, e dunque immortale, dell’anima[1].
Questa credenza rimarrà, tuttavia, largamente minoritaria, riservata agli iniziati ai misteri e ai seguaci di particolari scuole filosofiche. Presso la massa persisterà la convinzione antica che la vita vera termina con la morte. Sono note le parole che l’imperatore Adriano rivolge a se stesso prossimo alla morte:
Piccola anima smarrita e soave,
compagna e ospite del corpo,
ora t'appresti a ascendere in luoghi
incolori, ardui e spogli,
ove non avrai più gli svaghi consueti.
Un istante ancora
guardiamo insieme le rive familiari,
le cose che certamente non rivedremo mai più…[2].
Si capisce su questo sfondo l’impatto che doveva avere l’annuncio cristiano di una vita dopo la morte infinitamente più piena e più gioiosa di quella terrena; si capisce anche perché l’idea e i simboli della vita eterna sono così frequenti nelle sepolture cristiane delle catacombe.
Ma che è successo all’idea cristiana di una vita eterna per l’anima e per il corpo, dopo che aveva trionfato sull’idea pagana del “buio oltre la morte”? A differenza del momento attuale in cui l’ateismo si esprime soprattutto nella negazione dell’esistenza di un Creatore, nel secolo XIX esso si è espresso di preferenza nella negazione di un aldilà. Raccogliendo l’affermazione di Hegel, secondo cui “i cristiani sprecano in cielo le energie destinate alla terra”, Feuerbach e soprattutto Marx hanno combattuto la credenza in una vita dopo morte, sotto pretesto che essa aliena dall’impegno terreno. All’idea di una sopravvivenza personale in Dio, si sostituisce l’idea di una sopravvivenza nella specie e nella società del futuro.
A poco a poco, con il sospetto, è caduto sulla parola eternità l'oblio e il silenzio. Il materialismo e il consumismo hanno fatto il resto nelle società opulente, facendo perfino apparire sconveniente che si parli ancora di eternità fra persone colte e al passo con i tempi. Tutto questo ha avuto un chiaro contraccolpo sulla fede dei credenti che si è fatta, su questo punto, timida e reticente. Quando abbiamo sentito l'ultima predica sulla vita eterna? Continuiamo a recitare nel Credo: “Et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi”: “Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà”, ma senza dare troppo peso a queste parole. Aveva ragione Kierkegaard quando scriveva: “L'aldilà è diventato uno scherzo, un'esigenza così incerta che non solo nessuno più la rispetta, ma anzi neppure più la prospetta, al punto che ci si diverte perfino al pensiero che c'era un tempo in cui quest'idea trasformava l'intera esistenza”[3].
Qual è la conseguenza pratica di questa eclisse dell'idea di eternità? San Paolo riferisce il proposito di coloro che non credono nella risurrezione da morte: “Mangiamo, beviamo, domani moriremo” (l Cor 15,32). Il desiderio naturale di vivere sempre, distorto, diventa desiderio, o frenesia, di vivere bene, cioè piacevolmente, anche a spese degli altri, se necessario. La terra intera diventa quello che Dante diceva dell’Italia del suo tempo: “l’aiuola che ci fa tanto feroci”. Caduto l’orizzonte dell’eternità, la sofferenza umana appare doppiamente e irrimediabilmente assurda.
3. L’eternità: una speranza e una presenza
Anche a proposito del secolarismo, come per lo scientismo, la risposta più efficace non consiste nel combattere l’errore contrario, ma nel far risplendere di nuovo davanti agli uomini la certezza della vita eterna, facendo leva sulla forza intrinseca che possiede la verità quando è accompagnata dalla testimonianza della vita. “A un’idea, scriveva un antico Padre, si può sempre opporre un’altra idea e a una opinione un’altra opinione; ma cosa si potrà opporre a una vita?”.
Dobbiamo far leva anche sulla corrispondenza di tale verità al desiderio più profondo, anche se represso, del cuore umano. A un amico che gli rimproverava, quasi fosse una forma di orgoglio e di presunzione, il suo anelito all'eternità, Miguel de Unamuno, che non era certo un apologeta della fede, rispose in una lettera:
“Non dico che meritiamo un aldilà, né che la logica ce lo dimostri; dico che ne abbiamo bisogno, lo meritiamo o no, e basta. Dico che ciò che passa non mi soddisfa, che ho sete d'eternità, e che senza questa tutto mi è indifferente. Ne ho bisogno, ne ho bisogno! Senza di essa non c'è più gioia di vivere e la gioia di vivere non ha più nulla da dirmi. E troppo facile affermare: ‘Bisogna vivere, bisogna accontentarsi della vita’. E quelli che non se ne accontentano?”[4].
Non è chi desidera l'eternità, aggiungeva nella stessa occasione, che mostra di disprezzare il mondo e la vita di quaggiù, ma al contrario chi non la desidera: “Amo tanto la vita che perderla mi sembra il peggiore dei mali. Non amano veramente la vita coloro i quali se la godono, giorno per giorno, senza curarsi di sapere se dovranno perderla del tutto o no”. Sant’Agostino diceva la stessa cosa: “Cui non datur semper vivere, quid prodest bene vivere?”, “A che giova vivere bene, se non è dato vivere sempre?”[5]. “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”, ha cantato un nostro poeta [6].
Agli uomini del nostro tempo che coltivano in fondo al cuore questo bisogno di eternità, senza forse avere il coraggio di confessarlo agli altri e neppure a se stessi, noi possiamo ripetere ciò che Paolo diceva agli ateniesi: “Ciò che voi cercate senza conoscerlo, io ve lo annuncio” (cf. Atti 17,23).
La risposta cristiana al secolarismo nel senso che lo intendiamo qui, non si fonda, come per Platone, su un’idea filosofica – l’immortalità dell’anima -, ma su un evento. L'illuminismo aveva posto il celebre problema come si possa attingere l'eternità, mentre si è nel tempo e come si possa dare un punto di partenza storico per una coscienza eterna[7]. In altre parole: come si possa giustificare la pretesa della fede cristiana di promettere una vita eterna e di minacciare una pena ugualmente eterna, per atti compiuti nel tempo.
L'unica risposta valida a questo problema è quella che si fonda sulla fede nell'incarnazione di Dio. In Cristo, l'eterno è entrato nel tempo, si è manifestato nella carne; davanti a lui è possibile prendere una decisione per l’eternità. È così che l’evangelista Giovanni parla della vita eterna: “Vi annunciamo la vita eterna che era presso il Padre e che si manifestò a noi” (1 Gv 1, 2).
Per il credente, l’eternità non è, come si vede, solo una speranza, è anche una presenza. Ne facciamo l'esperienza ogni volta che facciamo un vero atto di fede in Cristo, perché chi crede in lui “ possiede già la vita eterna “ (cfr. 1Gv 5,13); ogni volta che riceviamo la comunione, in cui “ci viene dato il pegno della gloria futura” (“futurae gloriae nobis pignus datur”); ogni volta che ascoltiamo le parole del Vangelo che sono “parole di vita eterna” (cfr. Gv 6,68). Anche san Tommaso d’Aquino dice che “la grazia è l’inizio della gloria”[8].
Questa presenza dell'eternità nel tempo si chiama lo Spirito Santo. Egli è definito “ la caparra della nostra eredità “ (Ef 1,14; 2Cor 5,5), e ci è stato donato perché, avendo ricevuto le primizie, noi aneliamo alla pienezza. “ Cristo - scrive sant'Agostino - ci ha dato la caparra dello Spirito Santo con la quale lui, che comunque non ci potrebbe ingannare, ha voluto renderci sicuri del compimento della sua promessa. Che cosa ha promesso? Ha promesso la vita eterna di cui è caparra lo Spirito che ci ha dato”[9].
4. Chi siamo? Donde veniamo? Dove andiamo?
Tra la vita di fede nel tempo e la vita eterna c’è un rapporto analogo a quello che esiste tra la vita dell’embrione nel seno materno e quella del bambino, una volta venuto alla luce. Scrive il Cabasilas:
“Questo mondo porta in gestazione l’uomo interiore, nuovo, creato secondo Dio, finché egli, qui plasmato, modellato e divenuto perfetto, non sia generato a quel mondo perfetto che non invecchia. Al modo dell’embrione che, mentre è nell’esistenza tenebrosa e fluida, la natura prepara alla vita nella luce così è dei santi […]. Per l’embrione tuttavia la vita futura è assolutamente futura: non giunge a lui nessun raggio di luce, nulla di ciò che è di questa vita. Non così per noi, dal momento che il secolo futuro è stato come riversato e commisto a questo presente […] Perciò già ora è concesso ai santi non solo di disporsi e prepararsi alla vita, ma di vivere e di operare in essa”[10].
Esiste una storiella che illustra questo paragone. C’erano due gemellini, un maschietto e una femminuccia, così intelligenti e precoci che, ancora nel grembo della madre, parlavano già tra di loro. La bambina domandava al fratellino: “Secondo te, ci sarà una vita dopo la nascita?”. Lui rispondeva: “Non essere ridicola. Cosa ti fa pensare che ci sia qualcosa al di fuori di questo spazio angusto e buio nel quale ci troviamo?”. La bimba, facendosi coraggio, insisteva: “Chissà, forse esiste una madre, qualcuno insomma che ci ha messi qui e che si prenderà cura di noi”. E lui: “Vedi forse una madre tu da qualche parte? Quello che vedi è tutto quello che c’è”. Lei di nuovo: “Ma non senti anche tu a volte come una pressione sul petto che aumenta di giorno in giorno e ci spinge in avanti?”. “A pensarci bene, rispondeva lui, è vero; la sento tutto il tempo”. “Vedi, concludeva trionfante la sorellina, questo dolore non può essere per nulla. Io penso che ci sta preparando per qualcosa di più grande di questo piccolo spazio”.
Potremmo utilizzare questa simpatica storiella quando dobbiamo annunciare la vita eterna a persone che hanno smarrito la fede in essa, ma ne conservano la nostalgia e forse aspettano che la Chiesa, come quella bambina, li aiuti a credere in essa.
Ci sono domande che gli uomini non cessano di porsi da che mondo è mondo e gli uomini di oggi non fanno eccezione: “Chi siamo? Da dove veniamo? Dove andiamo”. Nella sua “Storia ecclesiastica del popolo inglese”, il Venerabile Beda racconta come la fede cristiana fece il suo ingresso nel nord dell’Inghilterra. Quando i missionari venuti da Roma arrivarono nel Northumberland, il re Edwino convocò un consiglio dei dignitari per decidere se permettere loro, o meno, di diffondere il nuovo messaggio. Si alzò uno di loro e disse:
“Immagina, o re, questa scena. Tu siedi a cena con i tuoi ministri e condottieri: è inverno, il fuoco arde nel mezzo e riscalda la stanza, mentre fuori mugghia la tempesta e cade la neve. Un uccellino, entra da una apertura della parete e subito esce dall’altra. Mentre è dentro, è al riparo dalla tempesta invernale; ma dopo aver goduto del breve tepore, subito scompare dalla vista, perdendosi nel buio inverno da cui è venuto. Tale ci appare la vita degli uomini sulla terra: noi ignoriamo del tutto ciò che la segue e ciò che la precede. Se questa nuova dottrina ci reca qualcosa di più sicuro su ciò, dico che la si deve accogliere”[11].
Chissà che la fede cristiana non possa ritornare in Inghilterra e nel continente europeo per la stessa ragione per cui vi fece il suo ingresso: come l’unica che ha una risposta sicura da dare ai grandi interrogativi della vita terrena. L’occasione più propizia per far giungere questo messaggio sono i funerali. In essi le persone sono meno distratte che in altri riti di passaggio (battesimo, matrimonio), si interrogano sul proprio destino. Quando si piange su un caro defunto, si piange anche su di sé.
Ho ascoltato una volta un interessante programma della BBC inglese sui cosiddetti “funerali secolari”, con la registrazione dal vivo dello svolgimento di uno di essi. A un certo punto si sentiva l’officiante che diceva ai presenti: “Non dobbiamo essere tristi. Vivere una buona vita, appagante, per settantotto anni (l’età della defunta) è qualcosa di cui si deve essere grati”. Grati a chi?, mi domandavo. Un tale funerale non fa che rendere più evidente la disfatta totale dell’uomo di fronte alla morte.
Sociologi e uomini di cultura, chiamati a spiegare il fenomeno dei funerali secolari o “umanistici”, vedevano la causa del diffondersi di questa pratica in alcuni paesi del nord Europa, nel fatto che i funerali religiosi implicano nei presenti una fede che essi non si sentono di condividere. La proposta che avanzavano era: la Chiesa, nei funerali, eviti ogni accenno a Dio, alla vita eterna, a Gesù Cristo morto e risorto, e limiti il suo ruolo a quello di “naturale e sperimentato organizzatore dei riti di passaggio”! In altre parole, si rassegni alla secolarizzazione anche della morte!
5. Andremo alla casa del Signore!
Una rinnovata fede nell’eternità non ci serve solo per l’evangelizzazione, cioè per l’annuncio da fare agli altri; ci serve, prima ancora, per imprimere un nuovo slancio al nostro cammino verso la santità. L’affievolirsi dell'idea di eternità agisce anche sui credenti, diminuendo in essi la capacità di affrontare con coraggio la sofferenza e le prove della vita.
Pensiamo a un uomo con una bilancia in mano: una di quelle bilance che si reggono con una sola mano e hanno da un lato il piatto su cui mettere le cose da pesare e dall'altro una barra graduata che regge il peso o la misura. Se cade a terra, o si smarrisce la misura, tutto quello che si mette sul piatto fa sollevare in alto la barra e fa inclinare a terra la bilancia. Tutto ha il sopravvento, anche un pugno di piume.
Così siamo noi quando smarriamo il peso, la misura di tutto che è l'eternità: le cose e le sofferenze terrene gettano facilmente la nostra anima a terra. Tutto ci sembra troppo pesante, eccessivo. Gesù diceva: “Se la tua mano ti è di ostacolo, tagliala; se il tuo occhio ti è di ostacolo, cavalo; è meglio entrare nella vita con una mano sola o con un occhio solo, anziché con tutti e due essere gettato nel fuoco eterno” (cfr. Mt 18,8-9). Ma noi, avendo perso di vista l'eternità, troviamo già eccessivo che ci si chieda di chiudere gli occhi davanti a uno spettacolo immorale.
San Paolo osa scrivere: “Il momentaneo, leggero peso della tribolazione ci procura un peso smisurato ed eterno di gloria, perché noi non fissiamo lo sguardo sulle cose visibili, ma su quelle invisibili. Le cose visibili sono d'un momento, quelle invisibili sono eterne” (2 Cor 4,17-18). Il peso della tribolazione è “leggero” proprio perché momentaneo, quello della gloria è smisurato proprio perché eterno. Per questo lo stesso Apostolo può dire: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Rm 8,18).
Il cardinal Newman, che abbiamo scelto come maestro speciale in questo Avvento, ci obbliga ad aggiungere una verità mancante nelle riflessioni svolte fin qui sull’eternità. Lo fa con il poemetto “Il sogno di Geronzio”, posto in musica dal grande compositore inglese Edgar Elgar. Un vero capolavoro per profondità di pensieri, afflato lirico e corale drammaticità.
Descrive il sogno di un anziano (questo significa il nome Geronzio) che si sente prossimo alla fine. Ai suoi pensieri sul senso della vita, della morte, sull’abisso del nulla in cui sta precipitando, si sovrappongono i commenti degli astanti, la voce orante della Chiesa: “Parti da questo mondo, anima cristiana“ (“proficiscere, anima christiana”), le voci contrastanti di angeli e demoni che soppesano la sua vita e reclamano la sua anima. Particolarmente bella e profonda la descrizione del momento del trapasso e del risveglio in un altro mondo:
“Mi addormentai; ed ora sono rianimato.
È uno strano ristoro; poiché sento in me
una leggerezza indicibile, ed un senso
di libertà, come se fossi me stesso finalmente,
e mai lo fossi stato prima. Quanta pace!
Non odo più l’incessante battito del tempo,
no, né il mio respiro ansimante, né il polso affannoso;
non un momento differisce da quello che viene dopo”[12].
Le ultime parole che l’anima pronuncia nel poema sono quelle con cui si avvia serena, e anzi impaziente, al Purgatorio:
Là canterò il mio Signore ed il mio Amore assenti:
portatemi via,
perché più presto possa sorgere, ed ascendere lassù.
E vede Lui nella verità del giorno sempiterno”[13].
Per l’imperatore Adriano, la morte era il passaggio dalla realtà alle ombre, per il cristiano John Newman essa è il passaggio dalle ombre alla realtà, “ex umbris et imaginibus in veritatem”, come volle fosse scritto sulla sua tomba.
Qual è, allora, la verità mancante che Newman ci obbliga a non tacere? Che il passaggio dal tempo all’eternità non è rettilineo e uguale per tutti. C’è un giudizio da affrontare e un giudizio che può avere due esiti molto diversi, l’inferno o il paradiso. Quella di Newman è una spiritualità austera, perfino a tratti rigorista, come quella del “Dies irae”, ma quanto salutare in un’epoca incline a prendere tutto alla leggera e a scherzare, come diceva Kierkegaard, con il pensiero dell’eternità!
Indirizziamo dunque con rinnovato slancio i nostri pensieri verso l’eternità, ripetiamo a noi stessi con le parole del poeta: “Tutto, tranne l’eterno, al mondo è vano”. Nel salterio ebraico c’è un gruppo di salmi, detti “salmi delle ascensioni”, o “cantici di Sion”. Erano i salmi che cantavano i pellegrini israeliti quando “salivano” in pellegrinaggio verso la città santa, Gerusalemme. Uno di essi comincia così: “Quale gioia quando mi dissero: “Andremo alla casa del Signore” (Sal 122, 1). Questi salmi delle ascensioni sono diventati ormai i salmi di coloro che, nella Chiesa, sono in cammino verso la Gerusalemme celeste; sono i nostri salmi. Commentando quelle parole iniziali del salmo, sant’Agostino diceva ai suoi fedeli:
“Corriamo perché andremo alla casa del Signore; corriamo perché tale corsa non stanca; perché arriveremo a una meta dove non esiste stanchezza. Corriamo alla casa del Signore e la nostra anima gioisca per coloro che ci ripetono queste parole. Essi hanno visto prima di noi la patria, l’hanno vista gli apostoli e ci hanno detto: Correte, affrettatevi, veniteci dietro! “Andiamo alla casa del Signore!”[14].
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[1] Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1967, p. 173ss.
[2] Animula vagula, blandula, traduzione di Lidia Storoni Mazzolani.
[3] S. Kierkegaard, Postilla conclusiva, 4, in Opere, a cura di C. Fabro, Firenze 1972, p. 458.
[4] Miguel de Unamuno, “Cartas inéditas de Miguel de Unamuno y Pedro Jiménez Ilundain,” ed. Hernán Benítez, Revista de la Universidad de Buenos Aires, vol. 3, no. 9 (Gennaio-Marzo 1949), pp. 135. 150.
[5] S. Agostino, Trattati sul Vangelo di Giovanni, 45, 2 (PL, 35, 1720).
[6] Antonio Fogazzaro, “A Sera,” in Le poesie, Milano, Mondadori, 1935, pp. 194–197.
[7] G.E. Lessing, Über den Beweis des Geistes und der Kraft, ed. Lachmann, X, p.36.
[8] S. Tommaso d’Aquino, Somma teologica, II-IIae, q. 24, art.3, ad 2.
[9] S. Agostino, Sermo 378,1 (PL, 39, 1673).
[10] N. Cabasilas, Vita in Cristo, I,1-2, ed. a cura di U. Neri, Torino, UTET, 1971, pp.65-67.,
[11] Beda il Venerabile, Historia ecclesiastica Anglorum, II, 13.
[12] Il sogno di Geronzio, in Newman Poeta, a cura di L. Obertello, Jaka Book, Milano 2010, p.124
[13] Ib, p. 156.
[14] S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 121,2 (CCL, 40, p. 1802).
Raniero Cantalamessa (Colli del Tronto, 22 luglio 1934) è un presbitero, teologo e predicatore italiano dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
Nel 1958 fu ordinato sacerdote nella Basilica di Loreto, dove iniziò il proprio ministero.
Si laureò in Teologia a Friburgo (in Svizzera) e, nel 1969, in Lettere classiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L'interesse per le Lettere classiche era dovuto alla volontà di padroneggiare il greco e il latino per lo studio del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa.Per la sua formazione si rivelarono importanti anche gli scrittori, i pensatori e i poeti moderni:
«La lettura dei romanzi dei russi per me è stata preziosissima, perché aiuta a penetrare nel cuore della gente, a vedere quali sono le preoccupazioni, le passioni, le domande della gente. [...] Io ho anche dei miei pensatori prediletti: uno è Pascal, un altro è Kierkegaard. Poi ho dei poeti prediletti: uno è Péguy, uno è Claudel. [...] Dovrei aggiungere i mistici, perché i mistici sono delle personalità straordinarie.»
Divenne assistente di Giuseppe Lazzati e suo successore come docente ordinario di Storia delle origini cristiane alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, presso la quale sostituì Lazzati anche come Direttore del Dipartimento di scienze religiose.
Dal 1975 al 1981 fu membro della Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1979 abbandonò la docenza per dedicarsi completamente al ministero della Parola: ebbe — come lui l'ha definita — una «seconda chiamata» e diventò, dal 1980, Predicatore della Casa Pontificia, col compito di dettare, ogni venerdì mattina, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa e di alte autorità ecclesiastiche. Portò avanti tale compito per oltre 25 anni con Giovanni Paolo II.
Nell'aprile del 2005, in occasione del conclave che porterà alla elezione di papa Benedetto XVI, è stato uno dei due predicatori che ha rivolto una esortazione ai cardinali riuniti.[6] Col nuovo papa, Cantalamessa ha continuato a svolgere, ogni settimana, la funzione di Predicatore della Casa Pontificia, impegnandosi inoltre anche all'estero per l'organizzazione di esercizi e ritiri; ad esempio, nel gennaio 2010, ha parlato nelle Filippine, per una intera settimana, a 4000 sacerdoti e 100 vescovi.
Dal 1982 — seguendo l'esempio di Padre Mariano — iniziò a comparire sul primo canale Rai proponendo il commento del Vangelo. Dal 1995 al 2009 (con due interruzioni di un anno) ha condotto la rubrica Le ragioni della speranza all'interno del programma di cultura religiosa "A sua immagine", dando così vita a quella che è stata definita «la più grande parrocchia d'Italia», formata da milioni di suoi affezionati telespettatori (anche al di fuori dell'Italia) e da schiere di corrispondenti. Caratteristisco il suo sorridente saluto francescano Pace e bene.
5 dicembre 2010
Chiariamoci le idee 5: la risposta cristiana allo scientismo ateo
Prima Predica di Avvento: la risposta cristiana allo scientismo ateo
del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 4 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La prima Predica d'Avvento tenuta da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“QUANDO GUARDO I TUOI CIELI, LA LUNA E LE STELLE,
CHE COS’È MAI L’UOMO?” (Sal 8, 4-5)
1. Le tesi dello scientismo ateo
Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.
L’intento è quello di individuare alcuni nodi o ostacoli di fondo che rendono molti paesi di antica tradizione cristiana “refrattari” al messaggio evangelico, come dice il Santo Padre nel Motu Proprio con cui ha istituito il nuovo Consiglio[1]. I nodi o le sfide che intendo prendere in considerazione e a cui vorrei cercare di dare una risposta di fede sono lo scientismo, il secolarismo e il razionalismo. L’apostolo Paolo li chiamerebbe “i baluardi e le fortezze che si levano contro la conoscenza di Dio” (cf. 2 Cor 10,4).
In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:
“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].
Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:
Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all'uomo, se egli lo vorrà [...]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawkins. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.
Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.
Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice - conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].
Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.
Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.
È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.
2. No allo scientismo, sì alla scienza
Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.
Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:
“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].
La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].
Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.
3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?
Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.
È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].
Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:
“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].
La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].
Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.
Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].
C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.
Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:
Quand'io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l'hai coronato di gloria e d'onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.
La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell' uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L'uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E' evidente che c' è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l' uomo e il resto del creato.
4. La forza della verità
Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].
Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).
L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” - è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16]. Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.
Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].
Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.
Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.
Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].
5. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”
Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.
Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.
Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?
Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].
A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.
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1) Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
2) Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
3) J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
4) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
5) J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
6) J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
7) J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
8) Monod, op. cit. p. 136.
9) P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
10) B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
11) M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
12) In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
13) Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
14) In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
15) Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
16) G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
17) S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
18) Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
19) S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
20) S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
21) J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.
Raniero Cantalamessa (Colli del Tronto, 22 luglio 1934) è un presbitero, teologo e predicatore italiano dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
Nel 1958 fu ordinato sacerdote nella Basilica di Loreto, dove iniziò il proprio ministero.
Si laureò in Teologia a Friburgo (in Svizzera) e, nel 1969, in Lettere classiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L'interesse per le Lettere classiche era dovuto alla volontà di padroneggiare il greco e il latino per lo studio del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa.Per la sua formazione si rivelarono importanti anche gli scrittori, i pensatori e i poeti moderni:
«La lettura dei romanzi dei russi per me è stata preziosissima, perché aiuta a penetrare nel cuore della gente, a vedere quali sono le preoccupazioni, le passioni, le domande della gente. [...] Io ho anche dei miei pensatori prediletti: uno è Pascal, un altro è Kierkegaard. Poi ho dei poeti prediletti: uno è Péguy, uno è Claudel. [...] Dovrei aggiungere i mistici, perché i mistici sono delle personalità straordinarie.»
Divenne assistente di Giuseppe Lazzati e suo successore come docente ordinario di Storia delle origini cristiane alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, presso la quale sostituì Lazzati anche come Direttore del Dipartimento di scienze religiose.
Dal 1975 al 1981 fu membro della Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1979 abbandonò la docenza per dedicarsi completamente al ministero della Parola: ebbe — come lui l'ha definita — una «seconda chiamata» e diventò, dal 1980, Predicatore della Casa Pontificia, col compito di dettare, ogni venerdì mattina, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa e di alte autorità ecclesiastiche. Portò avanti tale compito per oltre 25 anni con Giovanni Paolo II.
Nell'aprile del 2005, in occasione del conclave che porterà alla elezione di papa Benedetto XVI, è stato uno dei due predicatori che ha rivolto una esortazione ai cardinali riuniti.[6] Col nuovo papa, Cantalamessa ha continuato a svolgere, ogni settimana, la funzione di Predicatore della Casa Pontificia, impegnandosi inoltre anche all'estero per l'organizzazione di esercizi e ritiri; ad esempio, nel gennaio 2010, ha parlato nelle Filippine, per una intera settimana, a 4000 sacerdoti e 100 vescovi.
Dal 1982 — seguendo l'esempio di Padre Mariano — iniziò a comparire sul primo canale Rai proponendo il commento del Vangelo. Dal 1995 al 2009 (con due interruzioni di un anno) ha condotto la rubrica Le ragioni della speranza all'interno del programma di cultura religiosa "A sua immagine", dando così vita a quella che è stata definita «la più grande parrocchia d'Italia», formata da milioni di suoi affezionati telespettatori (anche al di fuori dell'Italia) e da schiere di corrispondenti. Caratteristisco il suo sorridente saluto francescano Pace e bene.
del Predicatore della Casa Pontificia, padre Raniero Cantalamessa
ROMA, sabato, 4 dicembre 2010 (ZENIT.org).- La prima Predica d'Avvento tenuta da padre Raniero Cantalamessa, OFM Cap., Predicatore della Casa Pontificia, nella cappella Redemptoris Mater del Palazzo Apostolico Vaticano.
“QUANDO GUARDO I TUOI CIELI, LA LUNA E LE STELLE,
CHE COS’È MAI L’UOMO?” (Sal 8, 4-5)
1. Le tesi dello scientismo ateo
Le tre meditazioni di questo Avvento 2010 vogliono essere un piccolo contributo alla necessità della Chiesa che ha portato il Santo Padre Benedetto XVI a istituire il “Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione” e a scegliere come tema della prossima Assemblea generale ordinaria del Sinodo dei Vescovi il tema “La nuova evangelizzazione per la trasmissione delle fede cristiana”.
L’intento è quello di individuare alcuni nodi o ostacoli di fondo che rendono molti paesi di antica tradizione cristiana “refrattari” al messaggio evangelico, come dice il Santo Padre nel Motu Proprio con cui ha istituito il nuovo Consiglio[1]. I nodi o le sfide che intendo prendere in considerazione e a cui vorrei cercare di dare una risposta di fede sono lo scientismo, il secolarismo e il razionalismo. L’apostolo Paolo li chiamerebbe “i baluardi e le fortezze che si levano contro la conoscenza di Dio” (cf. 2 Cor 10,4).
In questa prima meditazione prendiamo in esame lo scientismo. Per comprendere cosa si intende con questo termine, possiamo partire dalla descrizione che ne ha fatto Giovanni Paolo II:
“Un altro pericolo è lo scientismo; questa concezione filosofica si rifiuta infatti di ammettere come valide forme di conoscenza diverse da quelle che sono proprie delle scienze positive, relegando nei confini della mera immaginazione sia la conoscenza religiosa e la teologia, sia il sapere etico ed estetico”[2].
Possiamo riassumere così le tesi principali di questa corrente di pensiero:
Prima tesi. La scienza, e in particolare la cosmologia, la fisica e biologia, sono l’unica forma oggettiva e seria di conoscenza della realtà. “Le società moderne, ha scritto Monod, sono costruite sulla scienza. Le devono la loro ricchezza, la loro potenza e la certezza che ricchezze e potenze ancora maggiori saranno in un domani accessibili all'uomo, se egli lo vorrà [...]. Provviste di ogni potere, dotate di tutte le ricchezze che la scienza offre loro, le nostre società tentano ancora di vivere e di insegnare sistemi di valori, già minati alla base da questa stessa scienza”[3].
Seconda tesi. Questa forma di conoscenza è incompatibile con la fede che si basa su presupposti che non sono né dimostrabili né falsificabili. In questa linea l’ateo militante R. Dawkins si spinge fino a definire “analfabeti” quegli scienziati che si professano credenti, dimenticando quanti scienziati ben più famosi di lui si sono dichiarati e continuano a dichiararsi credenti.
Terza tesi. La scienza ha dimostrato la falsità, o almeno la non necessità dell’ipotesi di Dio. È l’affermazione a cui hanno dato ampio risalto i media di tutto il mondo nei mesi scorsi, a causa di una affermazione dell’astrofisico inglese Stephen Hawkins. Questi, contrariamente a quanto aveva scritto in precedenza, nel suo ultimo libro The Grand Design, Il Grande disegno, sostiene che le conoscenze raggiunte dalla fisica rendono ormai inutile credere in una divinità creatrice dell’universo: “la creazione spontanea è la ragione per cui esiste qualcosa”.
Quarta tesi. La quasi totalità, o almeno la grande maggioranza degli scienziati sono atei. Questa è l’affermazione dell’ateismo scientifico militante che ha in Richard Dawkins, l’autore del libro God’s Delusion, L’illusione di Dio, il suo più attivo propagatore.
Tutte queste tesi si rivelano false, non in base a un ragionamento a priori o ad argomenti teologici e di fede, ma dall’analisi stessa dei risultati della scienza e delle opinioni di molti tra gli scienziati più illustri del passato e del presente. Uno scienziato del calibro di Max Planck, il fondatore della teoria dei “quanti”, dice, della scienza, quello Agostino, Tommaso d’Aquino, Pascal, Kierkegaard ed altri avevano affermato della ragione: “La scienza –dice - conduce a un punto oltre il quale non ci può più guidare”[4].
Io non insisto nella confutazione delle tesi enunciate che è stata fatta da scienziati e filosofi della scienza, con una competenza che io non ho. Cito, per esempio, la puntuale critica di Roberto Timossi, nel libro L’illusione dell’ateismo. Perché la scienza non nega Dio, che reca la presentazione del Card. Angelo Bagnasco (Edizioni San Paolo 2009). Mi limito a una osservazione elementare. Nella settimana in cui i media diffusero l’affermazione ricordata, secondo cui la scienza ha reso inutile l’ipotesi di un creatore, mi son trovato nella necessità, nell’omelia domenicale, di spiegare a dei cristiani molto semplici, in una cittadina del Reatino, dove è l’errore di fondo degli scienziati atei e perché non dovevano lasciarsi impressionare dallo scalpore suscitato da quell’affermazione. L’ho fatto con un esempio che forse può essere utile ripetere anche qui, in un contesto così diverso.
Ci sono uccelli notturni, come il gufo e la civetta, il cui occhio è fatto per vederci di notte al buio, non di giorno. La luce del sole li accecherebbe. Questi uccelli sanno tutto e si muovono a loro agio nel mondo notturno, ma non sanno nulla del mondo diurno. Adottiamo per un momento il genere delle favole, dove gli animali parlano tra di loro. Supponiamo che un’aquila faccia amicizia con una famiglia di civette e parli loro del sole: di come esso illumina tutto, di come, senza di lui, tutto piomberebbe nel buio e nel gelo, come il loro stesso mondo notturno non esisterebbe senza il sole. Cosa risponderebbe la civetta se non: “Tu racconti fandonie! Mai visto il vostro sole. Noi ci muoviamo benissimo e ci procuriamo il cibo senza di esso; il vostro sole è un’ipotesi inutile e dunque non esiste”.
È esattamente quello che fa lo scienziato ateo quando dice: “Dio non esiste”. Giudica un mondo che non conosce, applica le sue leggi a un oggetto che è fuori della loro portata. Per vedere Dio occorre aprire un occhio diverso, occorre avventurarsi fuori della notte. In questo senso, è ancora valida l’antica affermazione del salmista: “Lo stolto dice: Dio non esiste”.
2. No allo scientismo, sì alla scienza
Il rifiuto dello scientismo non ci deve naturalmente indurre al rifiuto della scienza o alla diffidenza nei confronti di essa. Fare diversamente sarebbe un far torto alla fede, prima ancora che alla scienza. La storia ci ha dolorosamente insegnato dove porta un simile atteggiamento.
Di un atteggiamento aperto e costruttivo verso la scienza ci ha dato un esempio luminoso il neo beato John Henry Newman. Nove anni dopo la pubblicazione dell’opera di Darwin sulla evoluzione delle specie, quando non pochi spiriti intorno a lui si mostravano turbati e perplessi, egli li rassicurava, esprimendo un giudizio che anticipava di un secolo e mezzo quello attuale della Chiesa sulla non incompatibilità di tale teoria con la fede biblica. Vale la pena riascoltare i brani centrali della sua lettera al canonico John Walker:
“Essa [la teoria di Darwin] non mi fa paura […] Non mi sembra filare logicamente che venga negata la creazione per il fatto che il Creatore, milioni di anni fa, abbia imposto leggi alla materia. Non neghiamo né circoscriviamo il Creatore per il fatto che abbia creato l’azione autonoma che ha dato origine all’intelletto umano, dotato quasi di un talento creativo; assai meno allora neghiamo o circoscriviamo il suo potere, se riteniamo che Egli abbia assegnato alla materia leggi tali da plasmare e costruire mediante la propria cieca strumentalità attraverso innumerevoli ère il mondo come lo vediamo[…]. La teoria del signor Darwin non necessariamente deve essere atea, che essa sia vera o meno; può semplicemente star suggerendo un’idea più allargata di Divina Prescienza e Capacità…. A prima vista non vedo come ‘l’evoluzione casuale di esseri organici’ sia incoerente con il disegno divino – È casuale per noi, non per Dio”[5].
La sua grande fede permetteva a Newman di guardare con grande serenità alle scoperte scientifiche presenti o future. “Quando un diluvio di fatti, accertati o presunti, ci si rovescia addosso, mentre infinti altri già cominciano a delinearsi, tutti i credenti, cattolici o no, si sentono sollecitati a esaminare quale significato abbiamo tali fatti”[6]. Egli vedeva in tali scoperte una “una attinenza indiretta con le opinioni religiose”. Un esempio di questa attinenza, io penso, è proprio il fatto che negli stessi anni in cui Darwin elaborava la teoria dell’evoluzione delle specie, egli, indipendentemente, enunciava la sua dottrina dello “sviluppo della dottrina cristiana”. Accennando all’analogia, su questo punto, tra l’ordine naturale e fisico e quello morale egli scriveva: ”Come il Creatore riposò il settimo giorno dopo l’opera compiuta, e tuttavia egli ‘opera ancora’, così egli comunicò una volta per tutte il Credo all’origine, eppure favorisce ancora il suo sviluppo e provvede al suo incremento”[7].
Dell’atteggiamento nuovo e positivo da parte della Chiesa cattolica nei confronti della scienza è espressione concreta l’Accademia Pontificia delle scienze, in cui eminenti scienziati di tutto il mondo, credenti e non credenti, si incontrano per esporre e dibattere liberamente le loro idee su problemi di comune interesse per la scienza e per la fede.
3. L’uomo per il cosmo o il cosmo per l’uomo?
Ma, ripeto, non è mio intendo impegnarmi qui in una critica generale dello scientismo. Quello che mi preme mettere in luce è un aspetto particolare di esso che ha un’incidenza diretta e decisiva sulla evangelizzazione: si tratta della posizione che occupa l’uomo nella visione dello scientismo ateo.
È ormai una gara tra gli scienziati non credenti, soprattutto tra biologi e cosmologi, a chi si spinge più avanti nell’affermare la totale marginalità e insignificanza dell’uomo nell’universo e nello stesso grande mare della vita. “L’antica alleanza è infranta – ha scritto Monod -; l’uomo finalmente sa di essere solo nell’immensità dell’Universo da cui è emerso per caso. Il suo dovere, come il suo destino, non è scritto in nessun luogo”[8]. “Ho sempre pensato –afferma un altro – di essere insignificante. Conoscendo le dimensioni dell’Universo, non faccio che rendermi conto di quanto lo sia davvero… Siamo solo un po’ di fango su un pianeta che appartiene al sole”[9].
Blaise Pascal ha confutato in anticipo questa tesi con un argomento che nessuno ha potuto finora e potrà mai confutare:
“L’uomo è solo una canna, la più fragile della natura; ma una canna che pensa. Non occorre che l’universo intero si armi per annientarlo; un vapore, una goccia d’acqua bastano a ucciderlo. Ma, quand’anche l’universo lo schiacciasse, l’uomo sarebbe pur sempre più nobile di quel che lo uccide, perché sa di morire, e la superiorità che l’universo ha su di lui; mentre l’universo non ne sa nulla”[10].
La visione scientista della realtà, insieme con l’uomo, toglie di colpo dal centro dell’universo anche Cristo. Egli viene ridotto, per usare le parole di M. Blondel, a “un incidente storico, isolato dal cosmo come un episodio posticcio, un intruso o uno spaesato nella schiacciante e ostile immensità dell’Universo”[11].
Questa visione dell’uomo comincia ad avere dei riflessi anche pratici, a livello di cultura e di mentalità. Si spiegano così certi eccessi dell’ecologismo che tendono a equiparare i diritti degli animali e perfino delle piante a quelli dell’uomo. E’ risaputo che ci sono animali accuditi e nutriti molto meglio di milioni di bambini. L’influsso si avverte anche in campo religioso. Vi sono forme diffuse di religiosità in cui il contatto e la sintonia con le energie del cosmo ha preso il posto del contatto con Dio come via di salvezza. Quello che Paolo diceva di Dio: “In lui viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti 17, 28), lo si dice qui del cosmo materiale.
Per certi aspetti, si tratta del ritorno alla visione pre-cristiana che aveva come schema: Dio – cosmo – uomo, e alla quale la Bibbia e il cristianesimo opposero lo schema: Dio – uomo – cosmo. In altre parole, il cosmo è per l’uomo, non l’uomo per il cosmo. Una delle accuse più violente che il pagano Celso rivolge a giudei e cristiani è di affermare che “c’è Dio e, subito dopo lui, noi, dal momento che siamo creati da lui a sua completa somiglianza; tutto ci è subordinato: la terra, l’acqua, l’aria, le stelle; tutto esiste per noi ed è ordinato al nostro servizio” [12].
C’è però anche una profonda differenza: nel pensiero antico, soprattutto greco, l’uomo, seppure subordinato al cosmo, riveste un’altissima dignità, come ha messo in luce l’opera magistrale di Max Pohlenz, “L’uomo greco”[13]; qui invece sembra che si prenda gusto a deprimere l’uomo e spogliarlo di ogni pretesa di superiorità sul resto della natura. Più che di “umanesimo ateo”, almeno da questo punto di vista, di dovrebbe parlare, a mio parere, di anti-umanesimo, o addirittura di disumanesimo ateo.
Veniamo ora alla visione cristiana. Celso non si sbagliava nel farla derivare dalla grande affermazione di Genesi 1, 26 sull’uomo creato “a immagine e somiglianza” di Dio[14]. La visione biblica ha trovato la sua più splendida espressione nel Salmo 8:
Quand'io considero i tuoi cieli, opera delle tue dita,
la luna e le stelle che tu hai disposte,
che cos'è l'uomo perché tu lo ricordi?
Il figlio dell'uomo perché te ne prenda cura?
Eppure tu l'hai fatto solo di poco inferiore a Dio,
e l'hai coronato di gloria e d'onore.
Tu lo hai fatto dominare sulle opere delle tue mani,
hai posto ogni cosa sotto i suoi piedi.
La creazione dell’uomo a immagine di Dio ha delle implicazioni per certi versi sconvolgenti sulla concezione dell' uomo che il dibattito attuale che ci spinge a portare alla luce. Tutto si fonda sulla rivelazione della Trinità recata da Cristo. L'uomo è creato a immagine di Dio, il che vuol dire che egli partecipa all’intima essenza di Dio che è relazione d’amore tra Padre, Figlio e Spirito Santo. Solo l’uomo, in quanto persona capace di relazioni, partecipa alla dimensione personale e relazionale di Dio.
Questo significa che egli, nella sua essenza, anche se ad un livello creaturale, è ciò che, a livello increato, sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, nella loro essenza. La persona umana è “persona” proprio per questo nucleo razionale che la rende capace di accogliere la relazione che Dio vuole stabilire con essa e allo stesso tempo diventa generatore delle relazioni verso gli altri e vero il mondo. E' evidente che c' è un fossato ontologico tra Dio e la creatura umana. Tuttavia, per grazia (mai dimenticare questa precisazione!), questo fossato è colmato, così che esso è meno profondo di quello esistente tra l' uomo e il resto del creato.
4. La forza della verità
Proviamo a vedere come si potrebbe tradurre sul piano dell’evangelizzazione questa visione cristiana del rapporto uomo-cosmo. Anzitutto una premessa. Riassumendo il pensiero del maestro, un discepolo di Dionigi Areopagita ha enunciato questa grande verità: “Non si devono confutare le opinioni degli altri, né si deve scrivere contro una opinione o una religione che sembra non buona. Si deve scrivere solo a favore della verità e non contro gli altri”[15].
Non si può assolutizzare questo principio (a volte può essere utile e necessario confutare delle dottrine false), ma è certo che l’esposizione positiva della verità è spesso più efficace che non la confutazione dell’errore contrario. È importante, credo, tener conto di questo criterio nell’evangelizzazione e in particolare nei confronti dei tre ostacoli menzionati: scientismo, secolarismo e razionalismo. Più efficace che la polemica contro di essi è, nella evangelizzazione, la esposizione irenica della visione cristiana, facendo assegnamento sulla forza intrinseca di essa quando è accompagnata da intima convinzione e viene fatta, come inculcava San Pietro, “con dolcezza e rispetto” (1 Pt 3,16).
L’espressione più alta della dignità e della vocazione dell’uomo secondo la visione cristiana si è cristallizzata nella dottrina della divinizzazione dell’uomo. Questa dottrina non ha avuto lo stesso rilievo nella Chiesa ortodossa e in quella latina. I Padri greci, superando tutte le ipoteche che l’uso pagano aveva accumulato sul concetto di deificazione (theosis), fecero di essa il fulcro della loro spiritualità. La teologia latina ha insistito meno su di essa. “Lo scopo della vita per i cristiani greci – si legge nel “Dictionnaire de Spiritualité” - è la divinizzazione, quello dei cristiani d’occidente è l’acquisizione della santità…Il Verbo si è fatto carne, secondo i greci, per restituire all’uomo la somiglianza con Dio perduta in Adamo e per divinizzarlo. Secondo i latini, egli si è fatto uomo per redimere l’umanità…e per pagare il debito dovuto alla giustizia di Dio”[16]. Potremmo dire, semplificando al massimo, che la teologia latina, dietro Agostino, insiste di più su ciò che Cristo è venuto a togliere – il peccato -, quella greca insiste di più su ciò che egli è venuto a dare agli uomini: l’immagine di Dio, lo Spirito Santo e la vita divina.
Non si deve forzare troppo questa contrapposizione, come a volte si tende a fare da parte di autori ortodossi. La spiritualità latina esprime a volte lo stesso ideale anche se evita il termine divinizzazione che, giova ricordarlo, è estraneo al linguaggio biblico. Nella Liturgia delle ore della notte di Natale riascolteremo la vibrante esortazione di san Leone Magno che esprime la stessa visione della vocazione cristiana: “Riconosci, cristiano, la tua dignità e, reso partecipe della natura divina, non voler tornare all’abiezione di un tempo con una condotta indegna. Ricordati chi è il tuo Capo e di quale Corpo sei membro”[17].
Purtroppo certi autori ortodossi sono rimasti fermi alla polemica del secolo XIV tra Gregorio Palamas e Barlaam e sembrano ignorare la ricca tradizione mistica latina. La dottrina di san Giovanni della Croce, per esempio, secondo cui il cristiano, redento da Cristo e reso figlio nel Figlio, è immerso nel flusso delle operazioni trinitarie e partecipa della vita intima di Dio, non è meno elevata di quella della divinizzazione, anche se espressa in termini diversi. Anche la dottrina sui doni di intelletto e di sapienza dello Spirito Santo, così cara a san Bonaventura e agli autori medievali, era animata dallo stesso afflato mistico.
Non si può tuttavia non riconoscere che la spiritualità ortodossa ha qualcosa da insegnare su questo punto al resto della cristianità, alla teologia protestante ancor più che alla teologia cattolica. Se c’è infatti qualcosa di veramente opposto alla visione ortodossa del cristiano deificato dalla grazia, questo è la concezione protestante, e in particolare luterana, della giustificazione estrinseca e forense, per cui l’uomo redento è “nello stesso tempo giusto e peccatore”, peccatore in sé stesso, giusto davanti a Dio.
Soprattutto possiamo imparare dalla tradizione orientale a non riservare questo ideale sublime della vita cristiana a una elite spirituale chiamata a percorre le vie della mistica, ma a proporla a tutti i battezzati, a farne oggetto di catechesi al popolo, di formazione religiosa nei seminari e nei noviziati. Se ripenso agli anni della mia formazione vi scorgo una insistenza quasi esclusiva su una ascetica che puntava tutto sulla correzione dai vizi e l’acquisto delle virtù. Alla domanda del discepolo sullo scopo ultimo della vita cristiana un santo russo, san Serafino di Sarov, rispondeva senza esitare: “Il vero fine della vita cristiana, è l’acquisizione dello Spirito Santo di Dio. Quanto alla preghiera, il digiuno, le veglie, l’elemosina e ogni altra buona azione fatta nel nome di Cristo, sono solo mezzi per acquisire lo Spirito Santo”[18].
5. “Tutto è stato fatto per mezzo di lui”
Il Natale è l’occasione ideale per riproporre a noi stessi e agli altri questo ideale che è patrimonio comune della cristianità. È dall’incarnazione del Verbo che i Padri greci fanno derivare la possibilità stessa della divinizzazione. Sant’Atanasio non si stanca di ripetere: “Il Verbo si è fatto uomo affinché noi potessimo essere deificati”[19]. “Egli si è incarnato e l’uomo è divenuto Dio, poiché è unito a Dio”, scrive a sua volta san Gregorio Nazianzeno [20]. Con Cristo viene restaurato, o riportato alla luce quell’essere“ a immagine di Dio” che fonda la superiorità dell’uomo sul resto del creato.
Notavo sopra come l’emarginazione dell’uomo porta con sé automaticamente l’emarginazione di Cristo dal cosmo e dalla storia. Anche da questo punto di vista il Natale è l’antitesi più radicale alla visione scientista. In esso sentiremo proclamare solennemente: “Tutto è stato fatto per mezzo di lui e senza di lui nulla è stato fatto di ciò che esiste” (Gv 1,3); “Tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui” (Col 1, 16). La Chiesa ha raccolto questa rivelazione e nel Credo ci fa ripetere: “Per quem omnia facta sunt”: Per mezzo di lui tutto è stato creato.
Riascoltare queste parole mentre intorno a noi non si fa che ripetere: “Il mondo si spiega da solo, senza bisogno dell’ipotesi di un creatore”, oppure “siamo frutto del caso e della necessità”, provoca indubbiamente uno shock, ma è più facile che una conversione e una fede sbocci da uno shock del genere che da una lunga argomentazione apologetica. La domanda cruciale è: saremo capaci, noi che aspiriamo a rievangelizzare il mondo, di dilatare la nostra fede a queste dimensioni da capogiro? Crediamo noi davvero, con tutto il cuore, che “tutto è stato fatto per mezzo di Cristo e in vista di Cristo”?
Nel suo libro di tanti anni fa Introduzione al cristianesimo lei, Santo Padre, scriveva: “Con il secondo articolo del ‘Credo’ siamo davanti all’autentico scandalo del cristianesimo. Esso è costituito dalla confessione che l’uomo-Gesú, un individuo giustiziato verso l’anno 30 in Palestina, sia il ‘Cristo’ (l’unto, l’eletto) di Dio, anzi addirittura il Figlio stesso di Dio, quindi centro focale, il fulcro determinante dell’intera storia umana…Ci è davvero lecito aggrapparci al fragile stelo d’un singolo evento storico? Possiamo correre il rischio di affidare l’intera nostra esistenza, anzi, l’intera storia, a questo filo di paglia d’un qualsiasi avvenimento, galleggiante nello sconfinato oceano della vicenda cosmica?”[21].
A queste domande, Santo Padre, noi rispondiamo senza esitazione come fa lei in quel libro e come non si stanca di ripetere oggi, nella veste di Sommo Pontefice: Sì, è possibile, è liberante ed è gioioso. Non per le nostre forze, ma per il dono inestimabile della fede che abbiamo ricevuto e di cui rendiamo infinte grazie a Dio.
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1) Benedetto XVI, Motu Proprio “Ubicunque et semper”, n.
2) Giovanni Paolo II, Parole sull’uomo, Rizzoli, Milano 2002, p. 443; cf. anche Enc. “Fides et ratio”, n. 88
3) J. Monod, Il caso e la necessità, Mondadori, Milano, 1970, pagg. 136-7.
4) M. Planck, La conoscenza del mondo fisico, p. 155, (cit. da Timossi, op.cit. p. 160)
5) J.H. Newman, Lettera al canonico J. Walker (1868), in The Letters and Diaries, vol. XXIV, Oxford 1973, pp. 77 s. (Trad. ital. Di P. Zanna).
6) J.H. Newman, Apologia pro vita sua, Brescia 1982, p.277
7) J.H. Newman, Lo sviluppo della dottrina cristiana, Bologna 1967, p. 95.
8) Monod, op. cit. p. 136.
9) P. Atkins, citato da Timossi, op. cit. p. 482.
10) B. Pascal, Pensieri, 377 (ed. Brunschwicg, n. 347),
11) M. Blondel et A. Valensin, Correspondance, Aubier, Parigi 1957, p. 47.
12) In Origene, Contra Celsum, IV, 23 (SCh 136, p.238; cf. anche IV, 74 (ib. p. 366)
13) Cf. M. Pohlenz, L’uomo greco, Firenze 1962.
14) In Origene, op. cit., IV, 30 (SCh 136, p. 254).
15) Scolii a Dionigi Areopagita in PG 4, 536; cf. Dionigi Areopagita, Lettera VI (PG, 3, 1077).
16) G. Bardy, in Dct. Spir., III, col. 1389 s.
17) S. Leone Magno, Discorso 1 sul Natale (PL 54, 190 s.).
18) Dialogo con Motovilov, in Irina Gorainoff, Serafino di Sarov, Gribaudi, Torino 1981. p. 156.
19) S. Atanasio, L’incarnazione del Signore, 54 (PG 25, 192B).
20) S. Gregorio Nazianzeno, Discorsi teologici, III, 19 (PG 36, 100A).
21) J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 1969, p.149.
Raniero Cantalamessa (Colli del Tronto, 22 luglio 1934) è un presbitero, teologo e predicatore italiano dell'Ordine dei Frati Minori Cappuccini.
Nel 1958 fu ordinato sacerdote nella Basilica di Loreto, dove iniziò il proprio ministero.
Si laureò in Teologia a Friburgo (in Svizzera) e, nel 1969, in Lettere classiche all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano. L'interesse per le Lettere classiche era dovuto alla volontà di padroneggiare il greco e il latino per lo studio del Nuovo Testamento e dei Padri della Chiesa.Per la sua formazione si rivelarono importanti anche gli scrittori, i pensatori e i poeti moderni:
«La lettura dei romanzi dei russi per me è stata preziosissima, perché aiuta a penetrare nel cuore della gente, a vedere quali sono le preoccupazioni, le passioni, le domande della gente. [...] Io ho anche dei miei pensatori prediletti: uno è Pascal, un altro è Kierkegaard. Poi ho dei poeti prediletti: uno è Péguy, uno è Claudel. [...] Dovrei aggiungere i mistici, perché i mistici sono delle personalità straordinarie.»
Divenne assistente di Giuseppe Lazzati e suo successore come docente ordinario di Storia delle origini cristiane alla facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Milano, presso la quale sostituì Lazzati anche come Direttore del Dipartimento di scienze religiose.
Dal 1975 al 1981 fu membro della Commissione Teologica Internazionale.
Nel 1979 abbandonò la docenza per dedicarsi completamente al ministero della Parola: ebbe — come lui l'ha definita — una «seconda chiamata» e diventò, dal 1980, Predicatore della Casa Pontificia, col compito di dettare, ogni venerdì mattina, in Avvento e in Quaresima, una meditazione in presenza del Papa e di alte autorità ecclesiastiche. Portò avanti tale compito per oltre 25 anni con Giovanni Paolo II.
Nell'aprile del 2005, in occasione del conclave che porterà alla elezione di papa Benedetto XVI, è stato uno dei due predicatori che ha rivolto una esortazione ai cardinali riuniti.[6] Col nuovo papa, Cantalamessa ha continuato a svolgere, ogni settimana, la funzione di Predicatore della Casa Pontificia, impegnandosi inoltre anche all'estero per l'organizzazione di esercizi e ritiri; ad esempio, nel gennaio 2010, ha parlato nelle Filippine, per una intera settimana, a 4000 sacerdoti e 100 vescovi.
Dal 1982 — seguendo l'esempio di Padre Mariano — iniziò a comparire sul primo canale Rai proponendo il commento del Vangelo. Dal 1995 al 2009 (con due interruzioni di un anno) ha condotto la rubrica Le ragioni della speranza all'interno del programma di cultura religiosa "A sua immagine", dando così vita a quella che è stata definita «la più grande parrocchia d'Italia», formata da milioni di suoi affezionati telespettatori (anche al di fuori dell'Italia) e da schiere di corrispondenti. Caratteristisco il suo sorridente saluto francescano Pace e bene.
29 novembre 2010
Dicono di noi 5: C'era la Dacia, ma non l'audacia
Dicono di noi: se sono missionario, non lo sono da solo. Sono missionario perché tanti amici mi sostengono con la loro preghiera, con la loro solidarietà dai mille aspetti, con la simpatia, forse solo con la curiosità di conoscere cosa è una missione in Africa oggi.
Non mi piace quando scrivono di me, è sempre imbarazzante. E il contenuto di questo scritto, più di altri, mi sembra sproporzionato: grandi personaggi della cultura e il piccolo missionario come possono relazionarsi? Lascio a voi il commento. Una cosa mi rallegra, e questa la devo evidenziare. Il giornalista (che non conosco, e che quindi scrive in piena libertà nei miei confronti) con queste sue affermazioni conferma la bontà della raccolta di materiale scolastico per i bambini delle scuole delle missioni della mia zona (nord della Guinea-Bissau). Questo mi è di conforto. Lo è anche per i tanti amici che in tutta Italia (non solo a Foggia) si stanno adoperando per la raccolta di questo materiale. A tutti va il ringraziamento da parte dei miei bambini che possono imparare a leggere e scrivere.
C'era la Dacia, ma non l'audacia
di Enrico Ciccarelli
29 novembre 2010
Ho atteso un po', prima di parlare della laurea honoris causa in Scienze della Formazione conferita a Dacia Maraini lo scorso 18 novembre. Dirò subito che la cosa migliore mi è sembrata proprio la protagonista, che ha svolto un intervento coinvolgente, civile ed appassionato. Una voce limpida quale ci si attendeva, venuta dal tempo in cui c'era, o almeno si ricercava, un rapporto necessario tra professione intellettuale e amor di verità e di giustizia. Un intervento il cui valore fa premio sul triste spettacolo di un pubblico in buona parte "adescato", che ha fornito il colpo d'occhio a fotografi e cameramen per poi lasciare la sala con larghi vuoti proprio quando veniva il meglio; e che permette di dimenticare la comica piaggeria (che è di norma l'altra faccia del livore) di un cronista che ha trasformato una banale trafila burocratica in una specie di epopea risorgimentale, con tanto di mazziniana "tempesta del dubbio" per la povera Franca Pinto Minerva, la preside di Scienze della Formazione raffigurata come intenta a struggersi nell'attesa del fatidico bollo ministeriale.
Un paio di giorni prima che la Maraini fosse a Foggia, il professor Giuseppe Ricciardi, studioso di comunicazione fra i più insigni d'Italia, ha parlato alla libreria "Ubik" su invito della stessa Facoltà che ha laureato la Maraini. Un appuntamento che non ha avuto la cornice di pubblico che avrebbe meritato, ma è stato tuttavia molto interessante. Il professor Ricciardi, a margine della conferenza, ha raccontato dei sapidi aneddoti legati al suo lavoro di redattore della casa editrice Bompiani. Fra questi il divertente episodio di quando Maria Corti (un monumento dell'editoria e della critica letteraria italiana) giunse in ufficio e comunicò tutta fiera di essere stata insignita di una laurea honoris causa da non so più quale Ateneo; proprio mentre la Corti si pavoneggiava giunse Umberto Eco, che smadonnava dicendo "Ma che palle! Mi hanno dato altre tre lauree honoris causa! Non se ne può più!" Un aneddoto che spiega quanto dubbio e controverso sia il destino di tali riconoscimenti. La mia personale opinione è che andrebbero meglio spesi, e che soprattutto non dovrebbero rincorrere l'ovvio, benché sia sicuramente la via più facile per ottenere l'imprimatur ministeriale.
Direi che due cose, nella laurea conferita a Dacia Maraini, sono di tutta evidenza: la prima è che il legame disciplinare è pretestuoso. Non pretendo di sapere con precisione quale sia lo specifico ambito disciplinare di Scienze della Formazione; ma non mi pare che il cursus honorum della Maraini vi abbia qualcosa a che fare. La seconda è che, astraendo dallo specifico titolo, un riconoscimento accademico a questa grande scrittrice italiana è più che meritato. Fin troppo, direi. Perché non credo che questa laurea sia tale da aggiungere qualcosa al prestigio italiano ed internazionale dell'autrice della lunga vita di Marianna Ucria. Laddove le lauree honoris causa dovrebbero in qualche modo segnare un progresso dell'accademia, la sua capacità di inchinarsi agli eretici, di riconoscere il valore di ciò che non è allineato alla sua tradizione, di portare all'onore del mondo e al centro della scena ciò che è abitualmente relegato ai margini o ai fondali.
Il titolo di questa nota parla proprio di questo: c'era la Dacia, ma non l'audacia. È mancata la capacità, forse anche la voglia, di osare, di proporre terreni inconsueti, di marcare una specificità. E siccome è sempre facile criticare ciò che fanno gli altri senza proporre alternative, io un nome da laureare honoris causa in Scienze della Formazione ce l'avrei. Pergamena e tocco li affiderei a don Ivone Cavraro (spero di ricordare correttamente il nome). Chi è mai don Ivone? Un sacerdote foggiano che da qualche anno si occupa di una missione a Bigene, in Guinea Bissau. Don Ivone fa scuola ai poverissimi bambini di quel poverissimo borgo; sia chiaro, io non penso che vada premiato come individuo caritatevole, come angelo che provvede ai bisogni di chi non ha nulla; questo è commendevole e degno, ma merita sostegno ed aiuto, non lauree. Il titolo accademico dovrebbe premiare chi come don Ivone, in quel remoto angolo di mondo, suscita eserciti e alleva soldati vocati alla guerra contro l'ingiustizia: l'istruzione ai poveri, da Barbiana in poi, non è un linimento, ma un incendio. La cultura è una semina di consapevolezza, è l'arma e l'arsenale con cui ci si ribella alla fortuna e ai capricci del caso come alle catene dell'oppressione. La cultura e l'istruzione portano gli esseri umani a una seconda nascita; ed è tanto più vero, è tanto più utile in luoghi dove è frequente la morte per fame o per guerra, la catastrofe annunciata, la sconfitta predestinata. Nella sua missione (per saperne di più cercate il sito dell'associazione Amici di Bissau a Foggia) don Ivone perpetua il gesto di libertà e di resurrezione che appartiene a tutti i Maestri. Se non la merita lui, la laurea in Scienze della Formazione, faccio fatica a immaginare chi potrebbe esserne più degno.
Il giornalista Enrico Ciccarelli, nella foto a sinistra (accanto a Valerio Quirino, durante la presentazione del romanzo “Il più grande sognatore di tutti i tempi”), è direttore di Foggia&Foggia (www.foggiaefoggia.com), vivace e attento strumento di comunicazione in web e “free press” distribuito in 12.000 copie nella città di Foggia.
Non mi piace quando scrivono di me, è sempre imbarazzante. E il contenuto di questo scritto, più di altri, mi sembra sproporzionato: grandi personaggi della cultura e il piccolo missionario come possono relazionarsi? Lascio a voi il commento. Una cosa mi rallegra, e questa la devo evidenziare. Il giornalista (che non conosco, e che quindi scrive in piena libertà nei miei confronti) con queste sue affermazioni conferma la bontà della raccolta di materiale scolastico per i bambini delle scuole delle missioni della mia zona (nord della Guinea-Bissau). Questo mi è di conforto. Lo è anche per i tanti amici che in tutta Italia (non solo a Foggia) si stanno adoperando per la raccolta di questo materiale. A tutti va il ringraziamento da parte dei miei bambini che possono imparare a leggere e scrivere.
C'era la Dacia, ma non l'audacia
di Enrico Ciccarelli
29 novembre 2010
Ho atteso un po', prima di parlare della laurea honoris causa in Scienze della Formazione conferita a Dacia Maraini lo scorso 18 novembre. Dirò subito che la cosa migliore mi è sembrata proprio la protagonista, che ha svolto un intervento coinvolgente, civile ed appassionato. Una voce limpida quale ci si attendeva, venuta dal tempo in cui c'era, o almeno si ricercava, un rapporto necessario tra professione intellettuale e amor di verità e di giustizia. Un intervento il cui valore fa premio sul triste spettacolo di un pubblico in buona parte "adescato", che ha fornito il colpo d'occhio a fotografi e cameramen per poi lasciare la sala con larghi vuoti proprio quando veniva il meglio; e che permette di dimenticare la comica piaggeria (che è di norma l'altra faccia del livore) di un cronista che ha trasformato una banale trafila burocratica in una specie di epopea risorgimentale, con tanto di mazziniana "tempesta del dubbio" per la povera Franca Pinto Minerva, la preside di Scienze della Formazione raffigurata come intenta a struggersi nell'attesa del fatidico bollo ministeriale.
Un paio di giorni prima che la Maraini fosse a Foggia, il professor Giuseppe Ricciardi, studioso di comunicazione fra i più insigni d'Italia, ha parlato alla libreria "Ubik" su invito della stessa Facoltà che ha laureato la Maraini. Un appuntamento che non ha avuto la cornice di pubblico che avrebbe meritato, ma è stato tuttavia molto interessante. Il professor Ricciardi, a margine della conferenza, ha raccontato dei sapidi aneddoti legati al suo lavoro di redattore della casa editrice Bompiani. Fra questi il divertente episodio di quando Maria Corti (un monumento dell'editoria e della critica letteraria italiana) giunse in ufficio e comunicò tutta fiera di essere stata insignita di una laurea honoris causa da non so più quale Ateneo; proprio mentre la Corti si pavoneggiava giunse Umberto Eco, che smadonnava dicendo "Ma che palle! Mi hanno dato altre tre lauree honoris causa! Non se ne può più!" Un aneddoto che spiega quanto dubbio e controverso sia il destino di tali riconoscimenti. La mia personale opinione è che andrebbero meglio spesi, e che soprattutto non dovrebbero rincorrere l'ovvio, benché sia sicuramente la via più facile per ottenere l'imprimatur ministeriale.
Direi che due cose, nella laurea conferita a Dacia Maraini, sono di tutta evidenza: la prima è che il legame disciplinare è pretestuoso. Non pretendo di sapere con precisione quale sia lo specifico ambito disciplinare di Scienze della Formazione; ma non mi pare che il cursus honorum della Maraini vi abbia qualcosa a che fare. La seconda è che, astraendo dallo specifico titolo, un riconoscimento accademico a questa grande scrittrice italiana è più che meritato. Fin troppo, direi. Perché non credo che questa laurea sia tale da aggiungere qualcosa al prestigio italiano ed internazionale dell'autrice della lunga vita di Marianna Ucria. Laddove le lauree honoris causa dovrebbero in qualche modo segnare un progresso dell'accademia, la sua capacità di inchinarsi agli eretici, di riconoscere il valore di ciò che non è allineato alla sua tradizione, di portare all'onore del mondo e al centro della scena ciò che è abitualmente relegato ai margini o ai fondali.
Il titolo di questa nota parla proprio di questo: c'era la Dacia, ma non l'audacia. È mancata la capacità, forse anche la voglia, di osare, di proporre terreni inconsueti, di marcare una specificità. E siccome è sempre facile criticare ciò che fanno gli altri senza proporre alternative, io un nome da laureare honoris causa in Scienze della Formazione ce l'avrei. Pergamena e tocco li affiderei a don Ivone Cavraro (spero di ricordare correttamente il nome). Chi è mai don Ivone? Un sacerdote foggiano che da qualche anno si occupa di una missione a Bigene, in Guinea Bissau. Don Ivone fa scuola ai poverissimi bambini di quel poverissimo borgo; sia chiaro, io non penso che vada premiato come individuo caritatevole, come angelo che provvede ai bisogni di chi non ha nulla; questo è commendevole e degno, ma merita sostegno ed aiuto, non lauree. Il titolo accademico dovrebbe premiare chi come don Ivone, in quel remoto angolo di mondo, suscita eserciti e alleva soldati vocati alla guerra contro l'ingiustizia: l'istruzione ai poveri, da Barbiana in poi, non è un linimento, ma un incendio. La cultura è una semina di consapevolezza, è l'arma e l'arsenale con cui ci si ribella alla fortuna e ai capricci del caso come alle catene dell'oppressione. La cultura e l'istruzione portano gli esseri umani a una seconda nascita; ed è tanto più vero, è tanto più utile in luoghi dove è frequente la morte per fame o per guerra, la catastrofe annunciata, la sconfitta predestinata. Nella sua missione (per saperne di più cercate il sito dell'associazione Amici di Bissau a Foggia) don Ivone perpetua il gesto di libertà e di resurrezione che appartiene a tutti i Maestri. Se non la merita lui, la laurea in Scienze della Formazione, faccio fatica a immaginare chi potrebbe esserne più degno.
Il giornalista Enrico Ciccarelli, nella foto a sinistra (accanto a Valerio Quirino, durante la presentazione del romanzo “Il più grande sognatore di tutti i tempi”), è direttore di Foggia&Foggia (www.foggiaefoggia.com), vivace e attento strumento di comunicazione in web e “free press” distribuito in 12.000 copie nella città di Foggia.
22 novembre 2010
Chiariamoci le idee 4: Il Papa, il preservativo e gli imbecilli
In settimana, quando esce il libro-intervista del Papa, ne parleremo come merita. Oggi invece parliamo di imbecilli. Dalle associazioni gay a qualche cosiddetto tradizionalista, tutti a dire che il Papa ha cambiato la tradizionale dottrina cattolica sugli anticoncezionali. Titoli a nove colonne sulle prime pagine. Esultanza dell’ONU. Commentatori che ci spiegano come il Papa abbia ammesso che è meglio che le prostitute si proteggano con il preservativo da gravidanze indesiderate: e però, se si comincia con le prostitute, come non estendere il principio ad altre donne povere e non in grado di allevare figli, e poi via via a tutti?
Peccato, però, che – come spesso capita – i commentatori si siano lasciati andare a commentare sulla base di lanci d’agenzia, senza leggere la pagina integrale sul tema dell’intervista di Benedetto XVI, che pure fa parte delle anticipazioni trasmesse ai giornalisti. Il Papa, in tema di lotta all’AIDS, afferma che la «fissazione assoluta sul preservativo implica una banalizzazione della sessualità», e che «la lotta contro la banalizzazione della sessualità è anche parte della lotta per garantire che la sessualità sia considerata come un valore positivo». Nel paragrafo successivo – traducendo correttamente dall’originale tedesco – Benedetto XVI continua: «Ci può essere un fondamento nel caso di alcuni individui, come quando un prostituto usi il preservativo (wenn etwa ein Prostituierter ein Kondom verwendet), e questo può essere un primo passo nella direzione di una moralizzazione, una prima assunzione di responsabilità, sulla strada del recupero della consapevolezza che non tutto è consentito e che non si può fare ciò che si vuole. Ma non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV. Questo può basarsi solo su di una umanizzazione della sessualità».
Non so se il testo italiano che uscirà tradurrà correttamente «un prostituto», come da originale tedesco, o riporterà – come in alcune anticipazioni giornalistiche italiane - «una prostituta». «Prostituto», al maschile, è cattivo italiano ma è l’unica tradizione di «Prostituierter», e se si mette la parola al femminile l’intera frase del Papa non ha più senso. Infatti le prostitute donne ovviamente non «usano» il preservativo: al massimo lo fanno usare ai loro clienti. Il Papa ha in mente proprio la prostituzione maschile, dove spesso – come riporta la letteratura scientifica in materia – i clienti insistono perché i «prostituti» non usino il preservativo, e dove molti «prostituti» - clamoroso il caso di Haiti, a lungo un paradiso del turismo omosessuale – soffrono di AIDS e infettano centinaia di clienti, molti dei quali muoiono. Qualcuno potrebbe dire che «prostituto» si applica anche al gigolò eterosessuale che si accompagna a pagamento con donne: ma l’argomento sarebbe capzioso perché è tra i «prostituti» omosessuali che l’AIDS è notoriamente epidemico.
Stabilito dunque che le gravidanze non c’entrano, perché dalla prostituzione omosessuale è un po’ difficile che nascano bambini, il Papa non dice nulla di rivoluzionario. Un «prostituto» che ha un rapporto mercenario con un omosessuale – per la verità, chiunque abbia un rapporto sessuale con una persona dello stesso sesso – commette dal punto di vista cattolico un peccato mortale. Se però, consapevole di avere l’AIDS, infetta il suo cliente sapendo d’infettarlo, oltre al peccato mortale contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché si tratta di omicidio, almeno tentato. Commettere un peccato mortale o due non è la stessa cosa, e anche nei peccati mortali. c’è una gradazione. L’immoralità è un peccato grave, ma l’immoralità unita all’omicidio lo è di più.
Un «prostituto» omosessuale affetto da AIDS che infetta sistematicamente i suoi clienti è un peccatore insieme immorale e omicida. Se colto da scrupoli decide di fare quello che – a torto o a ragione (il problema dell’efficacia del preservativo nel rapporto omosessuale non è più morale ma scientifico) – gli sembra possa ridurre il rischio di commettere un omicidio non è improvvisamente diventato una brava persona, ma ha compiuto «un primo passo» - certo insufficiente e parzialissimo – verso la resipicenza. Di Barbablù (Gilles de Rais, 1404-1440) si dice che attirasse i bambini, avesse rapporti sessuali con loro e poi li uccidesse. Se a un certo punto avesse deciso di continuare a fare brutte cose con i bambini ma poi, anziché ucciderli, li avesse lasciati andare, questo «primo passo» non sarebbe stato assolutamente sufficiente a farlo diventare una persona morale. Ma possiamo dire che sarebbe stato assolutamente irrilevante? Certamente i genitori di quei bambini avrebbero preferito riaverli indietro vivi.
Dunque se un «prostituto» assassino a un certo punto, restando «prostituto», decide di non essere più assassino, questo «può essere un primo passo». «Ma – come dice il Papa - questo non è davvero il modo di affrontare il male dell'infezione da HIV». Bisognerebbe piuttosto smettere di fare i «prostituti», e di trovare clienti. Dove stanno la novità e lo scandalo se non nella malizia di qualche commentatore? Al proposito, vince il premio per il titolo più imbecille il primo lancio della Associated Press, versione in lingua inglese (poi per fortuna corretto, ma lo trovate ancora indicizzato su Yahoo con questo titolo): «Il Papa: la prostituzione maschile è ammissibile, purché si usi il preservativo».
di Massimo Introvigne
22 novembre 2010
Massimo Introvigne prega di non scrivergli a proposito della dichiarazione di Peter Seewald, intervistatore del Papa, secondo cui tra "prostituto" (maschio) e "prostituta" (femmina) non c'è differenza. M'intervistano tutti i giorni e una lunga esperienza mi dice che l'intervistatore non è particolarmente autorevole come interprete di quello che gli ha detto l'intervistato (che in questo caso ha anche rivisto le risposte...)
23 novembre 2010
Viene pubblicata oggi, 21 dicembre 2010, su L’Osservatore Romano una Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede sulla banalizzazione della sessualità, a proposito di alcune letture del libro-intervista di Papa Benedetto XVI "Luce del mondo".
Nota della Congregazione per la Dottrina della Fede
Sulla banalizzazione della sessualità
A proposito di alcune letture di "Luce del mondo"
In occasione della pubblicazione del libro-intervista di Benedetto XVI, Luce del mondo, sono state diffuse diverse interpretazioni non corrette, che hanno generato confusione sulla posizione della Chiesa cattolica riguardo ad alcune questioni di morale sessuale. Il pensiero del Papa non di rado è stato strumentalizzato per scopi e interessi estranei al senso delle sue parole, che risulta evidente qualora si leggano interamente i capitoli dove si accenna alla sessualità umana. L’interesse del Santo Padre appare chiaro: ritrovare la grandezza del progetto di Dio sulla sessualità, evitandone la banalizzazione oggi diffusa.
Alcune interpretazioni hanno presentato le parole del Papa come affermazioni in contraddizione con la tradizione morale della Chiesa, ipotesi che taluni hanno salutato come una positiva svolta e altri hanno appreso con preoccupazione, come se si trattasse di una rottura con la dottrina sulla contraccezione e con l’atteggiamento ecclesiale nella lotta contro l’Aids. In realtà, le parole del Papa, che accennano in particolare ad un comportamento gravemente disordinato quale è la prostituzione (cfr. Luce del mondo, prima ristampa, novembre 2010, pp. 170-171), non sono una modifica della dottrina morale né della prassi pastorale della Chiesa.
Come risulta dalla lettura della pagina in questione, il Santo Padre non parla della morale coniugale e nemmeno della norma morale sulla contraccezione. Tale norma, tradizionale nella Chiesa, è stata ripresa in termini assai precisi da Paolo VI nel n. 14 dell’enciclica Humanae vitae, quando ha scritto che è "esclusa ogni azione che, o in previsione dell’atto coniugale, o nel suo compimento, o nello sviluppo delle sue conseguenze naturali, si proponga, come scopo o come mezzo, di impedire la procreazione". L’idea che dalle parole di Benedetto XVI si possa dedurre che in alcuni casi sia lecito ricorrere all’uso del profilattico per evitare gravidanze indesiderate è del tutto arbitraria e non risponde né alle sue parole né al suo pensiero. A questo riguardo il Papa propone invece vie umanamente e eticamente percorribili, per le quali i pastori sono chiamati a fare "di più e meglio" (Luce del mondo, p. 206), quelle cioè che rispettano integralmente il nesso inscindibile di significato unitivo e procreativo in ogni atto coniugale, mediante l’eventuale ricorso ai metodi di regolazione naturale della fecondità in vista di una procreazione responsabile.
Quanto poi alla pagina in questione, il Santo Padre si riferiva al caso completamente diverso della prostituzione, comportamento che la morale cristiana da sempre ha considerato gravemente immorale (cfr. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 27; Catechismo della Chiesa cattolica, n. 2355). La raccomandazione di tutta la tradizione cristiana – e non solo di quella – nei confronti della prostituzione si può riassumere nelle parole di san Paolo: "Fuggite la fornicazione" (1 Corinzi, 6, 18). La prostituzione va dunque combattuta e gli enti assistenziali della Chiesa, della società civile e dello Stato devono adoperarsi per liberare le persone coinvolte.
A questo riguardo occorre rilevare che la situazione creatasi a causa dell’attuale diffusione dell’Aids in molte aree del mondo ha reso il problema della prostituzione ancora più drammatico. Chi sa di essere infetto dall’Hiv e quindi di poter trasmettere l’infezione, oltre al peccato grave contro il sesto comandamento ne commette anche uno contro il quinto, perché consapevolmente mette a serio rischio la vita di un’altra persona, con ripercussioni anche sulla salute pubblica. In proposito il Santo Padre afferma chiaramente che i profilattici non costituiscono "la soluzione autentica e morale" del problema dell’Aids e anche che "concentrarsi solo sul profilattico vuol dire banalizzare la sessualità", perché non si vuole affrontare lo smarrimento umano che sta alla base della trasmissione della pandemia. È innegabile peraltro che chi ricorre al profilattico per diminuire il rischio per la vita di un’altra persona intende ridurre il male connesso al suo agire sbagliato. In questo senso il Santo Padre rileva che il ricorso al profilattico "nell’intenzione di diminuire il pericolo di contagio, può rappresentare tuttavia un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana". Si tratta di un’osservazione del tutto compatibile con l’altra affermazione del Santo Padre: "questo non è il modo vero e proprio per affrontare il male dell’Hiv".
Alcuni hanno interpretato le parole di Benedetto XVI ricorrendo alla teoria del cosiddetto "male minore". Questa teoria, tuttavia, è suscettibile di interpretazioni fuorvianti di matrice proporzionalista (cfr. Giovanni Paolo II, enciclica Veritatis splendor, nn. 75-77). Un’azione che è un male per il suo oggetto, anche se un male minore, non può essere lecitamente voluta. Il Santo Padre non ha detto che la prostituzione col ricorso al profilattico possa essere lecitamente scelta come male minore, come qualcuno ha sostenuto. La Chiesa insegna che la prostituzione è immorale e deve essere combattuta. Se qualcuno, ciononostante, praticando la prostituzione e inoltre essendo infetto dall’Hiv, si adopera per diminuire il pericolo di contagio anche mediante il ricorso al profilattico, ciò può costituire un primo passo nel rispetto della vita degli altri, anche se la malizia della prostituzione rimane in tutta la sua gravità. Tali valutazioni sono in linea con quanto la tradizione teologico-morale della Chiesa ha sostenuto anche in passato.
In conclusione, nella lotta contro l’Aids i membri e le istituzioni della Chiesa cattolica sappiano che occorre stare vicini alle persone, curando gli ammalati e formando tutti perché possano vivere l’astinenza prima del matrimonio e la fedeltà all’interno del patto coniugale. Al riguardo occorre anche denunciare quei comportamenti che banalizzano la sessualità, perché, come dice il Papa, proprio questi rappresentano la pericolosa ragione per cui tante persone nella sessualità non vedono più l’espressione del loro amore. "Perciò anche la lotta contro la banalizzazione della sessualità è parte del grande sforzo affinché la sessualità venga valutata positivamente e possa esercitare il suo effetto positivo sull’essere umano nella sua totalità" (Luce del mondo, p. 170).
Massimo Introvigne (Roma, 14 giugno 1955) è un sociologo, filosofo e scrittore italiano. È il fondatore e direttore del Centro Studi sulle Nuove Religioni (CESNUR), una rete internazionale di studiosi di nuovi movimenti religiosi.
Introvigne è membro della sezione di Sociologia della Religione dell'Associazione Italiana di Sociologia[1] ed è autore di una quarantina di libri, tra i quali L'Enciclopedia delle religioni in Italia, e centinaia di articoli nel campo della sociologia della religioni.
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