Diario di una missione 16: Comunione
Cari amici, il capitolo 16 del mio diario non è mio: è stato scritto da don Marco Camiletti, giovane sacerdote della diocesi di Foggia-Bovino. Mi piace proporre a tutti il “suo” diario di questa sua seconda visita a Bigene, accompagnato dai seminaristi Francesco e Sergio. Sono stati giorni intensi, belli, pieni di comunione tra noi e con le persone incontrate in questa terra d’Africa. Giorni di “comunione” piena. Buona lettura, e un grande grazie a questi amici che hanno riempito “foggia” con la loro gioiosa presenza.
Ho scritto questo “diario” sotto la spinta di don Ivo. Mi sono pentito di non averlo fatto già la scorsa volta, nel viaggio dello scorso anno, e questa volta mi sono impegnato. Sono solo racconti di quello che si può vivere in questo tipo di esperienza. Ho volutamente rimarcato i fatti, proprio per far vedere che effettivamente non si va a fare qualcosa di straordinario lì. Mi rendo conto che senza un contatto stretto con le persone della diocesi di Foggia-Bovino e di quanti sostengono la missione, questa missione sarebbe mancante di una parte essenziale. La prima cosa è l’annuncio del Vangelo, ma insieme a questo certamente va fatta un’opera che faccia emergere la dignità umana in tutti i suoi aspetti, per rendere viva la “Buona Novella”.
14 agosto, ore 8.15
Ci ritroviamo in Seminario. Francesco e Sergio arrivano mentre io sto provando a pesare la mia valigia. Ho messo tutto quello che ci entrava, nonostante ciò qualche cosa è rimasta fuori. Per fortuna Sergio ha la valigia semivuota (l'ha pesata a casa, solo 13 kg, il limite è 20kg). La riempiamo ed avanzano ancora alcune cose: 2 salami, 1 caciocavallo. Beh, il bagaglio a mano è ancora da completare...
Una bella Messa della domenica per iniziare questo viaggio e si parte. Siamo ospitati per il pranzo dalle suore Oblate di villa Assunta, a Roma, poi partiamo per l'aeroporto di Fiumicino.
Al gate scopriamo che la mia valigia pesa 27 kg. Panico!!! Cosa si fa adesso? L'unico sistema è di ripartire il peso fra le 3 valigie, ma anche le altre 2 sono abbastanza piene. L'hostess ci viene in aiuto, fa un’unica pesata delle 3 valigie: totale 65 kg. Tra sconti vari, del peso, ce la facciamo, il carico è salvo. Ma le sorprese non finiscono qui. L'aereo per Lisbona è in ritardo di 30 minuti. Ora, a tutti quelli che in futuro hanno intenzione di fare questa esperienza dico una cosa banale, ma essenziale: lasciatevi consigliare bene da chi è più esperto, prima di fare il biglietto. Don Ivo mi aveva avvisato, ma io non ci ho pensato più di tanto: "Non prendere l'aereo del pomeriggio da Roma, perché se fa ritardo puoi perdere la coincidenza". Va beh, 30 minuti di ritardo, ce la possiamo fare. Dopo 30 minuti di attesa all'aeroporto di Roma, inizia a salire la tensione. Il gate è ancora chiuso e non sembra esserci movimento tale da far capire che si partirà a breve. Mi informo e tutti mi rassicurano: "La coincidenza? Ce la fai, non ti preoccupare." Per tutto il volo Roma-Lisbona mi mostro tranquillo, ma mi rendo conto che le possibilità sono poche. L'aereo atterra a Lisbona, parte il solito applauso dei passeggeri, ma io sto pensando al gate dove devo arrivare per fermare l'altro aereo. Il tempo limite del check-in è già scaduto, mancano 20 minuti alla partenza dell'aereo ed io sono ancora sul pullman che mi sta portando all'aeroporto. Panico, ma non c'è tempo neanche per quello, lascio le mie valigie a Francesco e mi precipito a bloccare l'aereo che deve portarci a Bissau. Non possiamo perderlo, anche perché significa dover restare a Lisbona per 2 giorni: a fare cosa? E quanto tempo perderemmo! Corro all'impazzata, certo il mio peso non mi aiuta, quando non ce la faccio più cammino a passo svelto. Gate 43b. Questo è il mio obiettivo. 43b, e quando inizio a correre sono al 10. Non arrivo più. 5 minuti e lo vedo in lontananza, non posso cedere adesso... Arrivo, e oltre a non avere fiato, non ho ossigeno al cervello. Siamo a Lisbona, devo parlare portoghese, e chi lo sa? Tra un respiro affannoso e un altro provo a dire, in un semi-inglese, che devono fermare tutto, ci sono due persone che stanno arrivando, l'aereo non può partire. Le due signore al check-in mi guardano con compassione e mi dicono: "Tranquillo, l'aereo ha 35 minuti di ritardo". Facciamo il check-in e prendiamo il pullman che ci porta all’aereo. Ma è proprio accanto a quello da cui siamo scesi mezz’ora fa! Tutta ‘sta corsa e poi ci fate ritornare qui. Beh, alla fine ce l'abbiamo fatta. Sull'aereo la tensione scende. Ormai ci siamo.
Atterrati a Bissau raggiungiamo don Ivo che, mezzo assonnato, ci aspettava già da tempo e andiamo al rullo che trasporta le valigie. Scorrono le prime, le seconde, le terze. Le valigie sul rullo sono finite. Arriva anche don Ivo con il carrello. Chiediamo e ci dicono di aspettare, dovrebbe arrivare un altro carico di valigie. Niente da fare. C'è un po’ di tristezza, ma più di tutto amarezza, perché dobbiamo aspettare a Bissau tre giorni: il prossimo volo arriverà mercoledì notte, e chissà se ci saranno le nostre valigie.
Ormai sono le 3.15 di notte. Sfiniti, arriviamo in Curia sotto una leggera pioggia. Al buio (la corrente viene sospesa alle 23) entro nella mia camera, accendo il rimasuglio di una candela giusto per capire dov'è il letto … avrei bisogno di una doccia, ma si farà domani.
15 agosto
Poco prima di partire da Foggia ho fatto riaprire le valigie ai miei compagni di viaggio: è necessario mettere nel bagaglio a mano un cambio, non si sa mai. Chissà perché questo consiglio l'ho seguìto…
Dopo il risveglio, e un po’ di tempo per capire che ore sono veramente (il fuso orario della Guinea indica un’ora meno rispetto all’Italia, ma poiché qui c'è solo l’ora solare, in periodo di ora legale le ore di differenza diventano due), doccia e colazione e partiamo, destinazione Bambaran. A Bambaran c'è un orfanotrofio dove i ragazzi di Solidaunia stanno facendo servizio. Carichiamo a bordo 3 ragazzi e ci dirigiamo a Cumura, ospedale nato per la lebbra. I 3 ragazzi vengono con noi perché hanno preso la congiuntivite. Occhi gonfi, ma viso sorridente. Una volta arrivati ci rivolgiamo al dottore di Cumura, un instancabile francescano, che dedica 5 minuti del suo preziosissimo tempo per visitare i ragazzi di Foggia. Don Ivo, invece, ci spiega cos'è la lebbra, come la vivono qui in Guinea Bissau e l'importanza di questo centro che ormai non è più solo lebbrosario, ma è diventato un ospedale a tutti gli effetti. Certo io l’avevo già visitato, ma fa sempre un certo effetto vedere quanto bisogno di aiuto c'è qui, ma ancora più effetto fa vedere quanto veramente si è fatto e si continua a fare nel silenzio di una vita spesa per gli altri nel quotidiano. Passiamo alla vicina clinica (non bisogna pensare però con i nostri parametri) per le donne malate di Aids, e in particolare per quelle incinte o che hanno partorito da poco. È sempre toccante vedere questi letti condivisi dalle madri con i loro piccoli.
Sono molto contento perché ad un certo punto don Ivo, Corinna ed io entriamo in una stanza e incontriamo la suora responsabile. Don Ivo le parla di Corinna, prossima alla laurea in medicina, che desidererebbe fare un’esperienza qui. Suor Valeria è ben lieta di accoglierla e le propone un posto a vita! I missionari ci provano sempre, ma fanno bene, perché anche così si possono aprire brecce nei cuori di chi questo desiderio ce l'ha, ma ancora non lo sa o ha tanti dubbi. Naturalmente la maggior parte delle volte sono battute, ma qualcosa dentro la lasciano.
Fine della visita al centro. Scappiamo a Bor, un centro pediatrico. Qui entriamo in qualche stanza, dove incontriamo bambini con la malaria e problemi intestinali, in particolare un bambino con macchie chiare sul petto, per una forte ustione subita a causa di un incendio. Lo troviamo steso nel letto, ma appena usciti dalla sua stanza lo vediamo in piedi che ci viene a salutare. Purtroppo le caramelle sono ancora nella valigia a Lisbona.
Il pranzo è a Bambaran con il Vescovo, tutte le suore Oblate che operano in Guinea Bissau, i ragazzi di Foggia che prestano servizio qui e una decina di bambini che vivono all’orfanotrofio. Appena arrivati ci corre incontro una delle bambine più piccole: noi non la conosciamo, ma è come se noi fossimo le persone che lei sta aspettando da tanto tempo. Il suo nome è Bonita (che significa Bella), un nome proprio adatto. I bambini sono educatissimi. Dopo un bans in italiano, fatto da noi come preghiera per il pranzo, loro fanno la preghiera "seria" in criolo. Dopo il pranzo Irma Ausiliadora (suora brasiliana) delizia i bambini, ma anche noi, travestendosi per fare dei balli molto divertenti. Dopo un po’ di riposo celebriamo la Messa, presieduta da me, proprio a Bambaran. La mia prima Messa in Africa. Sono anche particolarmente emozionato perché, essendo il giorno dell'Assunta, il Vangelo è la continuazione del Vangelo della mia ordinazione sacerdotale. Prima della cena possiamo giocare un po’ con i bambini, che sono adorabili. Poi subito a nanna. Il riposo serve proprio, abbiamo ore di sonno arretrate, anche se in fondo non siamo stanchi nonostante la giornata ricca che mi lascia l'impressione di essere qui da una vita.
16 Agosto
Sveglia, colazione e Lodi. È bello condividere la preghiera, parte essenziale del nostro viaggio. Si va in centro. Motivo: visitare la Cattedrale, che troviamo chiusa; comprare vestiti del posto, siamo a corto di cambio, anche se penso che li compreremmo lo stesso, sono così belli, colorati, ed aggiungo anche comodi. Ci lasciamo anche prendere dalla curiosità di vedere l'oceano e percorriamo una banchina del porto, trasformata in una specie di mercato. Molto caos, tanta gente, ma dovunque ti giri trovi anche tante cose da guardare. Per la Messa ed il pranzo andiamo a N’Dame, centro di spiritualità poco fuori di Bissau, gestito dalle suore Oblate che ci accolgono con tanta gentilezza. Durante il pranzo scoppia un temporale abbastanza intenso, che oltre a bagnarci tutti ci fa sperimentare il primo viaggio tra le pozzanghere. Sì, perché quando piove la terra argillosa della Guinea-Bissau diventa fanghiglia e la strada difficile da percorrere. Sembra strano, nonostante i mille disagi che fa vivere, la pioggia è attesa sempre con tanta speranza da tutti, perché è motivo di benedizione per i campi tutti ed in particolare per quelli di riso. La coltivazione del riso, infatti, in tutto il periodo delle piogge (giugno-settembre circa) è l'attività più importante, poiché deve portare più cibo possibile. Tornati nel pomeriggio a casa, segezia (il fuoristrada di don Ivo) va in riparazione (niente di serio, ma una regolatina ai freni va fatta) e noi andiamo, tutti fradici per la pioggia, alle docce. Ci ritroviamo, Francesco, Sergio ed io, agghindati con i nuovi completi colorati. Cena in Curia, in compagnia di padre Giancarlo e una suora del Senegal che sta frequentando la scuola di criolo. Francesco sta rispolverando con successo tutte le sue conoscenze di francese per comunicare con la suora senegalese.
17 agosto, ore 6.30
Mi sveglio ed il primo pensiero va alle valigie. Non costituiscono un tormento, possiamo stare anche senza, ed infatti abbiamo già deciso che questa notte andremo all'aeroporto a controllare se arrivano con l'aereo delle 2.00 AM, ma in ogni caso, domani mattina si partirà per Bigene. Non vedo l'ora.
7.30. Messa in portoghese, presieduta da padre Giancarlo, con 6 suore del corso di criolo. Dopo la Messa una breve visita alla scuola "Giovanni XXIII", vicino la Curia, e al Seminario Minore, e poi un po’ di compere per la casa di Bigene. Questo fa intendere che il viaggio verso "foggia" (questo è il nome della casa di Bigene) non è lontano. Infatti nel pomeriggio facciamo del riposo forzato per vivere al meglio la levata che ci aspetta questa notte (per l’aeroporto). Mi sento molto limitato qui a Bissau, anche nel contatto con la gente del posto, e non vedo l'ora di incontrare altri volti familiari (in particolare il mio prof di criolo Joaquim) e di rivedere luoghi fantastici. Una caratteristica: fa particolarmente caldo, anzi c'è molta umidità e ci vorrebbe una bella pioggia rinfrescante.
Mi sveglio e … cosa succede fuori... ma piove! Beh, ottenere certe cose in Guinea Bissau, in questa stagione, è troppo facile.
Ore 21. Continua ancora la pioggia, senza sosta da oggi pomeriggio, ma noi siamo concentrati sulla partenza di domani e sul possibile recupero delle valigie. Molti ci dicono di non sperarci tanto, io come sempre sono da una parte fiducioso e dall'altra aperto a qualsiasi evento. Fatto è che fra tre ore andiamo all'aeroporto, e sperare non solo non fa male, ma anzi aiuta forse anche le valigie ad arrivare.
18 agosto, ore 1.15
La sveglia suona, con fatica ci alziamo e andiamo all'aeroporto. L'aereo arriva alle 2.30, c'è da aspettare un po'. Speriamo non sia a vuoto.
Ore 2.10. Arriva l'aereo. Fanno entrare solo don Ivo. Noi tre aspettiamo fuori. Ma lui è l'unico di noi che non conosce neanche una valigia. Dopo 5 minuti fanno entrare solo due di noi. Va bene, resto solo io fuori. L'attesa è particolarmente stressante. Dopo altri 10 minuti si affaccia don Ivo, mi cerca, quando incrocia il mio sguardo sorride e mi dice che la mia valigia c'è, molto probabile ci siano anche le altre due. Rientra e dopo un po’ escono tutti, con le mani impegnate, le valigie ci sono tutte e tre. Beh, oggi si parte con un pensiero in meno ed anche più liberi, visto che non dobbiamo tornare a Bissau (4 ore di macchina) per le valigie.
Ore 3.38. Buona notte!
Ore 7.00. Sveglia e colazione, tutti pronti per partire. Viaggia con noi un ragazzo che torna a Bigene. Viaggio molto tranquillo. Facciamo sosta alla casa dei Giuseppini di Bula dove si tengono dei corsi di formazione professionale; al ponte che ha eliminato il piccolo traghetto che prima trasportava le macchine da una sponda all'altra (tempo di attesa anche 4 ore); dalle suore ad Ingoré dove lasciamo delle medicine. Infine, attraversando i vari villaggi sempre più accoglienti, arriviamo a Bigene. Subito scappiamo dalle suore per il pranzo. Qui suor Rosa riceve i tanti doni che la comunità di Deliceto le ha fatto recapitare, molte prelibatezze tipiche, che speriamo avremo occasione di gustare con lei. Beh, eccoci arrivati a "foggia". Gli operai sono al lavoro per completare la casa dei volontari e noi, svuotando le valigie, consegniamo tutti i doni provenienti da Foggia e Segezia per don Ivo. Abbiamo riempito un tavolo e anche il frigo. Sono molto emozionato nel ritrovarmi qui, ma la cosa che mi rende pienamente felice è che riconosco un luogo intimamente familiare. Per fortuna alle 18.30 c'è la Messa e poi l'adorazione eucaristica. Quale modo migliore per poter incontrare la comunità tutta riunita e ringraziare il Signore insieme per l'amicizia e la fraternità che si rinnova ancora. Anzi adesso in maniera più forte, perché da sacerdote ho anche il compito di rappresentare la chiesa di Foggia-Bovino intimamente legata con la comunità della Guinea Bissau, ed in particolar modo con Bigene. Sono anche in trepidante attesa di rincontrare il mio prof di criolo e guida del viaggio dell'anno scorso: Joaquim.
Ore 21.30. Tutto bene la Messa e l'adorazione. Ci uniamo alla preghiera dei giovani che si trovano in Spagna per la Giornata Mondiale della Gioventù, visto che la maggior parte dell’assemblea a Bigene è formata da giovani. Torniamo a "foggia", pioviggina, don Ivo fa guidare a me il "carro" (fuoristrada) e dopo aver lasciato le suore a casa, faccio la manovra e ... il fuoristrada si impantana. Senza neanche aver il tempo di pensare cosa fare, quattro uomini che vedono la scena si avvicinano e ci aiutano spingendo e facendoci uscire dal fango. Faccio nuovamente manovra ... Di nuovo, ancora un aiuto e riusciamo a ripartire. Accompagniamo Joaquim con la moglie e la figlia vicino alla loro casa (non vogliono rischiare di farci impantanare nuovamente) e ritorniamo a "Foggia". Prepariamo la cena; un piccolo incontro e poi subito a nanna. La giornata è stata faticosa.
19 agosto, mattino
Tra poco dobbiamo andare dalle suore per la Messa. Ampia scelta sulla lingua, alla fine optiamo per il portoghese. Colazione dalle suore e poi a casa “Foggia”. Don Ivo caccia (termine foggiano: “tira fuori”) un po’ di materiale dal container. Ci sono le tende da montare. Armati di trapano, cacciavite e matita installiamo le prime tende. Stranamente tutto bene, nessun intoppo.
Ore 13. Fermiamo il nostro lavoro, le suore ci chiamano, è pronto. Le altre tende le istalleremo domani mattina, anche perché oggi pomeriggio iniziamo la scuola di criolo con Joaquim.
Ore 16. Arriva Joaquim e incomincia la scuola di criolo. Noto con piacere che alcune parole sono già entrate nella mia mente l’anno scorso, ma naturalmente il lavoro non è finito, anzi inizia proprio adesso. Non solo occorre riprenderle, ma memorizzarle. Oltre ad avere la capacità di saperle riconoscere all’interno di un discorso, il massimo sarebbe essere in grado, non di ripetere una frase già preimpostata, ma di creare una frase propria. Come mai tutta questa importanza al criolo? Qui è fondamentale per poter in qualche modo comunicare con chi ti sta intorno, per poter intessere relazioni che vanno oltre la conoscenza di un nome.
20 agosto
La giornata scorre veloce come la pioggia. Proprio incessante in questi giorni. Ma la lasciamo scorrere, perché per ora le nostre giornate sono impegnate con qualche lavoro a casa (non fa mai male partecipare alla realizzazione di quella che è e che sarà una casa che ospita missionari) e dalla scuola di criolo che aumenta di giorno in giorno le sue difficoltà.
Questa mattina, mentre montiamo le ultime tende, prima del pranzo con le suore, che sono state invitate da don Ivo, viene un catechista, Albino; motivo della sua visita, incontrare gli ospiti di don Ivo. Viene solo per noi, per poterci salutare e noi lo ricambieremo (pioggia permettendo) con una visita al suo villaggio. Sento sempre più di adattarmi troppo facilmente alla vita qui, anche se so che questo è un periodo di vacanza e calma. Mi piace poter riparare gli occhiali di Joaquim, che si erano rotti da tempo e che per lui sono essenziali. Manca una piccola vite. Che ci vuole? Mica facile trovare la vite della dimensione giusta. Provo tutte quelle che mi capitano innanzi, ed alla fine ecco quella giusta. Questo per capire che le più piccole difficoltà possono rendere la vita molto difficile in Guinea Bissau, ma se armati di un po’ di pazienza e tanta fantasia tutto si risolve.
A sera recitiamo anche un rosario con i ragazzi della parrocchia in chiesa.
Che dire, don Ivo si è preso la congiuntivite. Domani ci sarà la Messa e don Ivo ha chiesto a me di fare una breve omelia, che suor Rosa tradurrà in criolo. La Messa sarà quella dell’Assunta, che qui si festeggia di domenica. Sono particolarmente teso perché so che devo essere molto semplice per farmi capire e per non rendere impossibile la traduzione a suor Rosa, ma so che la gente mi aspetta. Ieri sera, mentre eravamo a cena, abbiamo sentito un annuncio dato per radio, una radio locale: parlava degli ospiti di don Ivo e dell’incontro alla Messa di domenica.
21 Agosto
Oggi è domenica. Un giorno molto particolare, la Messa riunisce molte persone in chiesa, a volte anche da altri villaggi. Don Ivo ha la congiuntivite, molto forte, tanto che dobbiamo organizzare bene la giornata. Dopo la Messa a Bigene dovremmo andare a Barro (villaggio distante meno di 12 km), ma don Ivo non credo possa guidare su queste strade in questa condizione: apre poco gli occhi, la luce gli dà fastidio. Proviamo a chiamare l’autista delle suore perché ci accompagni lui. Non c’è, è fuori. Non possiamo lasciare deluso il villaggio che ci aspetta, vorrà dire che guiderò io (ma andiamo piano piano).
Ore 9.00. Messa nella parrocchia Sacro Cuore di Bigene. Don Ivo ci tiene che sia io a fare l’omelia. Non pensate sia cosa facile. Qui si festeggia l’Assunzione di Maria e mi è stato chiesto di essere molto semplice e di parlare di cose concrete. I canti della Messa sono come al solito molto coinvolgenti, tanto che si fa fatica a fermare il piede che batte a tempo. Traduce la mia omelia Suor Rosa. Parlo di Maria, del suo saper ascoltare la Parola di Dio, del suo impegno nel metterla in pratica e di quanto Dio l’abbia benedetta. Non sono molto lungo, considerato che per ogni frase mia Suor Rosa fa la rispettiva traduzione. Non so sinceramente quanto mi hanno capito, quanto sono stato efficace nell’esprimere certi concetti, ma è il dubbio che mi rimane sempre dopo ogni omelia, figuratevi qui dove le differenze culturali e di lingua rendono il tutto ancor più complicato.
ore 10.30. Dobbiamo partire per Barro, ma per fortuna Keba, l’autista delle suore, ha fatto in tempo a tornare. Beh, almeno posso godermi i panorami meravigliosi che incontriamo tra un villaggio e l’altro. Ancora più meravigliosi sono i bambini quando entriamo nei villaggi. Prima scrutano con curiosità, poi salutano e rincorrono il fuoristrada cantando la canzoncina che don Ivo ha insegnato loro (“oh alele…”). Che gioia, capace di riempire i nostri cuori ed i nostri visi con un gran sorriso.
0re 11.30. Arriviamo a Barro, ma la gente del villaggio non ci aspetta nella sala (4 mura con un tetto) dove solitamente don Ivo fa la catechesi, sono tutti sotto un grandissimo albero. Alla sala degli incontri è caduta una parete, causa le forti piogge di questi giorni, eppure l’avevano costruita da poco meno di un anno. Per me non ci sono problemi, fuori si sta più freschi, ma se arriva la pioggia è un grande rischio.
Alla Messa va tutto bene. I giovani intonano dei canti, e quando non conoscono un canto adatto per quella parte di celebrazione intonano canti in lingua “Balanta” (la loro etnia), che naturalmente noi non solo non conosciamo, ma anche non capiamo per niente, ma loro lo fanno con una delicatezza, che fa sembrare tutto normale. Alla fine della Messa don Ivo ci fa presentare e poi rivolge al villaggio una domanda: “Siete contenti della possibilità di poter vivere la catechesi?”. Dopo un po’ di consultazione, si alza un uomo che oltre a ringraziare per la presenza degli ospiti, sempre graditi, risponde con un netto sì alla domanda. Don Ivo indaga: “Perché siete contenti?” “Perché vogliamo camminare nel cammino del Signore che ci ama!”. Quale risposta più completa poteva dare quest’uomo? E non è frutto di quelle risposte preconfezionate che sentiamo solitamente noi. E’ una risposta frutto di una consapevolezza acquisita.
Ci mettiamo in viaggio verso casa. Il fuoristrada è pieno di ragazzi che sono venuti dal villaggio vicino di Liman, proprio per la Messa. Visto il peso e la strada poco regolare, i ragazzi in un punto sono costretti a scendere per risalire 100 metri dopo. Li lasciamo con il loro capo villaggio a destinazione e proseguiamo verso Bigene, destinazione casa delle suore, dove ci aspetta il pranzo della domenica. Ad un certo punto sentiamo il rumore come di un palloncino che si sgonfia molto velocemente. Abbiamo bucato. Keba ripara la ruota molto velocemente, frutto probabilmente dell’esperienza. Con un leggerissimo ritardo siamo a casa delle suore, pronti per il pranzo.
Nel pomeriggio don Ivo con la forte congiuntivite riposa, mentre noi abbiamo in programma un giro con le suore presso alcune case di Bigene, ma mentre ci stiamo avviando un forte acquazzone ferma tutto. Arriviamo dalle suore, ma di andare in giro non se ne parla. Allora facciamo con loro una lunga chiacchierata in cui forte è il confronto sul senso della missione, su come si vive la missione proprio a Bigene, sui frutti e sulle esperienze (le suore sono qui da quasi 20 anni). La nostra chiacchierata è interrotta di tanto in tanto dalla visita di qualche persona che ha qualcosa da chiedere alle suore ed in modo particolare da un gruppo di cinque uomini. Sono i professori di Bigene che domani devono partire per la formazione che si fa nel periodo estivo a Farim, paese distante 40 Km. Senza accorgercene si è fatto tardi, chissà come starà don Ivo a casa. Ritorniamo e con piacere vediamo che ha riposato, ma ha ancora gli occhi gonfi.
22 Agosto
Al risveglio mi accorgo che anch’io ho preso la congiuntivite. Già durante la serata precedente mi bruciavano gli occhi, ma durante la notte mi sono svegliato alcune volte (cosa strana) ed allora ho approfittato per fare gli impacchi con acqua e bicarbonato che già don Ivo faceva per la sua congiuntivite. Per mia per fortuna è molto lieve a confronto di quella di don Ivo, che gli ha portato anche della febbre. Quindi la mattinata passa svolgendo piccoli lavoretti per la casa; fatti da soli sarebbero molto faticosi e sicuramente noiosi, ma insieme agli altri sono vissuti tranquillamente. Ripariamo lo stendino che il giorno prima proprio noi avevamo rotto, e inseriamo i piedini a degli scaffali che don Ivo aveva montato in precedenza, piedini che mi avevano dato in Italia prima della partenza. Piccole cose, ma la missione passa anche da queste piccole faccende di casa, per rendere più vivibile, accogliente e duratura la casa del Padre ed in futuro anche l’altra casa, che stanno costruendo proprio vicino a quella di don Ivo, dedicata ai volontari che in seguito vorranno venire a Bigene.
Nel pomeriggio ancora scuola di criolo con Joaquim, a cui don Ivo chiede di spiegarci anche alcune cose della cultura della Guinea Bissau. Ad un certo punto siamo interrotti da una telefonata: è il PAM. Chiedo a Joaquim chi sia. Beh, non è una persona, è una organizzazione mondiale che fornisce cibo per i paesi poveri. Sono al centro nutrizionale ed hanno da scaricare del materiale. Andiamo con Joaquim per dargli una mano e scarichiamo 139 sacchi da 25 kg di cereali, prodotti in Italia ma donati dal Giappone.
23 Agosto
Le condizioni di salute di entrambi sembrano migliorare, siamo pronti per una giornata importante. Oggi è anche l'onomastico di suor Rosa, per festeggiare portiamo a colazione alcuni biscotti.
Ore 9.00. Siamo al centro nutrizionale. A dire il vero le donne che attendono sono poche, ma Joaquim ci spiega che oggi c'è il mercato ed alcune donne passano prima di lì. Al centro nutrizionale oggi è il giorno dei malnutriti e degli orfani. I bambini sono tutti bellissimi e c'è sempre la solita particolarità: qui è l'uomo bianco a far paura e non l'uomo nero. Ma alcuni, i più piccoli, giocano con noi senza problemi. Mentre diamo una mano al centro, si presentano dei ragazzini che portano un bambino piccolo (avrà meno di 6 anni) che ha la maglietta e la testa insanguinata. La ferita alla testa è molto più piccola di quello che potevo immaginare, per fortuna. Il piccolo rimane immobile dove lo piazza Joaquim, non dice una parola, non fa neanche un movimento con la testa, neanche quando Joaquim, per vedere meglio la ferita, con un rasoio “usa e getta” gli taglia un po’ di capelli, e soprattutto neanche quando per disinfettarlo gli mette l'alcool sulla ferita. Non posso neanche immaginare il dolore, ma il piccolo fa solo un gesto con le mani che stringe forte, ma solo per un istante. Continuiamo con i piccolissimi. Quasi tutti sotto i 12 mesi. Non ci sono casi molto gravi (può significare anche pericolo di vita), ma tutti sono non ben nutriti. Capitano anche 2 bambini che presentano una anomalia che fa arrabbiare molto Joaquim: rispetto all'ultima visita di qualche mese fa, questi 2 bambini sono dimagriti. Joaquim si informa sul motivo. Sono stati malati ed hanno avuto la diarrea, in questo caso avrebbero dovuto portarli al centro nutrizionale per farli visitare, ma non l'hanno fatto. Joaquim rimprovera le mamme, ma è un tono deciso solo perché vuole che le mamme capiscano fino in fondo la gravità della situazione. Certo non l'hanno fatto per poco interesse per i propri figli, bisognerebbe entrare nella cultura e capire che qui non è normale andare all'ospedale, e non solo perché non è vicino a casa.
Ore 11.45. Andiamo a fare un giro per il mercato di Bigene. Qui si fa una volta a settimana. Vengono venditori dal Senegal, che non è molto distante da qui. Molte bancarelle sono a terra e si vendono tante cose: corde, pesce sotto sale, sapone, medicinali vari e di varia provenienza (da non prendere assolutamente), stoffe, vestiti tipici, ciabatte e scarpe in gomma, pentole ed utensili per cucinare, ecc. Siamo senza don Ivo e sappiamo bene che quando chiediamo un prezzo loro spareranno cifre assurde (assurde per loro, per noi sono anche buoni prezzi), bisogna un po’ sapersela cavare e contrattare un po'. Durante il giro al mercato gruppetti di bambini ci seguono. Beh, non è da tutti i giorni vedere tre bianchi che vanno in giro per il mercato. Finite un po’ di compere, ci fermiamo ad una bancarella un po’ distante dalle altre, sulla strada principale. Non è una vera e propria bancarella, è un velo di plastica su cui sono disposti dei mucchietti di peperoncini. Chiediamo quanto ne costa uno. Una ragazzina sotto i 13 anni, anche un po’ imbarazzata, ci risponde, ma noi, poco esperti della lingua, non capiamo bene. Ci aiuta un ragazzo e ci dice 25 franchi a mucchietto. Fate un calcolo: 1 € = 655 franchi. Risultato? 3,85 centesimi di € a mucchietto. Considerando che ne ha una decina circa, con la giornata migliore il guadagno si aggira intorno a 38 centesimi di €. Non ci servono i peperoncini, ma ne compriamo 2 mucchietti ugualmente. Nel cammino di ritorno a casa ci saluta un amico di Bigene, e dei bambini facendosi coraggio si avvicinano. Una parola, chiedi come si chiamano, un sorriso e ad un tratto hai le mani piene di manine. Fanno un tratto di strada con noi, ma gli altri bambini, vedendo che questi ci stanno vicini, si avvicinano anche loro. Dobbiamo lasciare le loro manine perché don Ivo ci aspetta a casa per il pranzo.
Ore 15.30. Ci chiama suor Rosa che ci chiede una mano per poter portare del materiale scolastico nella scuola. Sono ben contento, perché so da dove proviene quel materiale. Riconosco i pacchi, lo stile della chiusura, alcune scritture che indicano il contenuto. Portiamo quadernoni, quaderni tagliati (immagino ora sul volto degli "Amici di Bigene" e di chi ha collaborato a questa iniziativa un gran sorriso stampato), pennarelli, un pacco di 440 gomme in pacchi da 40, squadre, quaderni misti ed altro materiale. Poi di corsa a casa, ci aspetta il corso di criolo. Molto interessante il corso di criolo, perché Joaquim ci spiega alcune cose della cultura della Guinea Bissau che ancor di più ci danno la possibilità di entrare in stretto contatto con quello che è il modo di vivere e di pensare.
Ore 20:00. Suor Rosa ci ha invitato per mangiare la pizza. Mangiare la pizza in Africa è molto strano, ma il fatto di poter vivere la fraternità con i missionari e le missionarie anche nel cibo è un qualcosa che mi fa sentire molto unito a questa realtà. Don Ivo però rimane a casa, sente un po’ di febbre, e la faticosa giornata di domani a cui sta pensando molto gli fa prendere la saggia e faticosa decisione di rinunciare alla pizza, ma soprattutto ad una bella serata in compagnia.
24 Agosto
Partiamo presto al mattino e finalmente il tempo ci aiuta. Non c'è pioggia e siamo diretti a Barro. Qui carichiamo sul fuoristrada tre uomini e alcuni giovani e ci dirigiamo verso l'interno dove ci sono dei villaggi che neanche don Ivo conosce. Ci andiamo a presentare e vediamo come è lì la situazione: se ci sono scuole, se hanno mai ricevuto la catechesi, se conoscono il centro nutrizionale di Bigene.
Arriviamo al primo villaggio: Saiam Balanta. Don Ivo chiede di parlare con il capo villaggio, e un uomo ci porta al centro del villaggio, sotto un grande albero dove appeso c'è un cerchione di una ruota tutto arrugginito. L'uomo lo batte con una mazza di ferro e in 5 minuti portano panche e seggiolini; molti di loro si vanno a cambiare perché erano a lavorare nei campi e ci ritroviamo tutti seduti in due cerchi concentrici. Gli uomini grandi, noi e gli amici di Barro al centro, le donne con i bambini piccoli in braccio ed i ragazzi nel secondo cerchio. Don Ivo si presenta e ci presenta, e poi scopriamo che in questo villaggio hanno già ricevuto una catechesi 8 anni fa, poi finita per mancanza di catechisti, che non hanno la scuola ed i ragazzi per andare a scuola devono fare 3 km a piedi, che sono felici di questa nostra visita inaspettata. Don Ivo allora chiede se vogliono fare una preghiera insieme con noi per ringraziare il Signore, e scopriamo che molti sanno fare il segno di Croce e alcuni ricordano perfino la preghiera del Padre Nostro. Don Ivo non chiede se vogliono iniziare nuovamente la catechesi, desidera che diventi, anche con un po’ di tempo, una loro richiesta. Chiediamo quindi di poter fare una foto tutti insieme. I bambini piccoli sono un po’ spaventati dalla nostra presenza, non capita spesso la visita di uomini bianchi in questo piccolo e ospitale villaggio, che non si trova neanche sulla strada principale. Allora, dopo la foto, parte don Ivo con la sua canzone travolgente, che qui non conoscono, per vivere un momento di allegria con i più piccoli. Dopo due minuti tutti hanno imparato la canzone, per i gesti basta seguire don Ivo che riesce a coinvolgere anche i grandi e le donne. Incontro fantastico, non solo per il presente, ma anche sicuramente per le possibili prospettive future. Prima di riprendere il cammino, un uomo ci chiede se possiamo dare una mano per avere la scuola nel villaggio. Don Ivo si assicura che sia una richiesta di tutto il villaggio e poi si informa sulla preparazione scolastica degli abitanti del villaggio. C'è un uomo che dice di aver fatto fino alla nona classe, quindi con la dovuta preparazione e con il tempo potrebbe formarsi una prima classe, almeno per iniziare. Carichi di questo incontro ci muoviamo verso il secondo villaggio. Passiamo zone in cui la natura è incredibilmente bella, purtroppo neanche una bella foto potrebbe mostrare quanto stupende possano essere certe sfumature di colore o la maestosità di certi alberi. Arriviamo. Qui purtroppo l'accoglienza è scarsa e la possibilità di parlare con gli abitanti poca, perché quasi tutti sono a lavorare o nella foresta o nei campi. Anche la struttura del villaggio e delle case è diversa, siamo vicini al confine e si sente l’influenza della cultura del confinante Senegal. Anche nel terzo villaggio sono tutti a lavorare. Completiamo il nostro giro passando per un villaggio dove sono tutti musulmani. Lasciamo i nostri accompagnatori a Barro e rientriamo a Bigene, è ormai ora di pranzo.
Ore 15.30. Ci rimettiamo in viaggio per raggiungere il villaggio di Bambea, anche se il tempo è molto incerto. Passiamo a prendere suor Rosa e partiamo. A dire il vero il villaggio non è molto lontano. Appena incontriamo le prime case, incontriamo due ragazzi molto, ma molto bizzarri. Uno sta masticando qualcosa che ogni tanto prende da una borsetta appesa al collo, ha i capelli con un taglio tutto particolare, la faccia come sporca di farina, non ha la maglietta ed ha una specie di pantaloncino, ma portato veramente basso. Alle braccia ha tipo delle corde arrotolate e degli strani bracciali molto vistosi, alle gambe delle calze e sopra delle fasce di plastica come ornamento. L'altro ha in più un paio di occhiali di plastica per bambini, senza lenti, color viola, ed in mano ha un corno con un tubo in plastica come terminale per amplificare il suono. Ci vengono incontro ed iniziano a parlare con don Ivo, ma in modo molto strano. Fanno dei versi e ridono sempre. Dopo averli caricati sul fuoristrada don Ivo ci fa capire che li conosce, sono due ragazzi del villaggio in cui stiamo andando che stanno facendo una parte di un rito per passare all'età adulta. Loro devono fare gli “scemi”, magari anche parlare una lingua che non esiste e scherzare sempre. Arrivati al centro di questo piccolo villaggio, troviamo un altro ragazzo che sta facendo lo stesso rito. Scherzano veramente tanto e probabilmente, se non sapessi il motivo per cui fanno così, li crederei pazzi. Ma alla fine sono molto divertenti. Ci disponiamo ed inizia la catechesi con la preghiera guidata dalla suora. Nei villaggi non tutti parlano o capiscono il criolo, quindi c'è sempre uno del villaggio che fa la traduzione nella lingua del posto. Si legge un passo del Vangelo, la tempesta sedata, e don Ivo inizia a parlare e a fare qualche domanda. In questa maniera emerge anche la notizia, che noi già sapevamo, di alcuni banditi che al confine con il Senegal depredano chi incontrano. I tre ragazzi "pazzi" sono in prima fila attenti. Dopo la catechesi suor Rosa, parlando con i singoli, si informa anche su quanti hanno gli occhi rossi, causa virus congiuntivite, e spiega ad una ragazza in che quantità mischiare acqua e bicarbonato per poter disinfettare gli occhi. È la stessa cura che ho fatto io. Si ritorna a Bigene giusto in tempo, inizia un acquazzone. Cena dalle suore e poi tutti a dormire, è stata una giornata intensa.
25 agosto, ore 9:00
Arriviamo a Barro dove visitiamo l'ospedale (ambulatorio, secondo i nostri parametri, ma difficile chiamarlo anche così). Il funzionamento di queste strutture pubbliche dipende tutto da chi è stato mandato: se l'infermiere che viene mandato è un uomo di buona volontà, qualcosa si fa e non è poi così poco, ma se l'infermiere che viene mandato non vuol fare niente... Non c'è nessuno che lo controlla, lui è solo in tutta la struttura e non c'è neanche nessuno che lo aiuta. Lavora solo e senza i mezzi adatti. Qui a Barro le cose funzionano, anche tanto, l'infermiere fa anche una colletta nei villaggi dove opera per tener funzionante un’autoambulanza donata dal Senegal.
Dopo andiamo verso Barro Porto, un villaggio che dovrebbe affacciarsi sul fiume che è a sud della strada principale. Dopo 2 km siamo costretti a lasciare il fuoristrada per non rischiare di infossarlo. Entriamo in una zona con un panorama incredibile. Ci fermiamo ad osservare un passero cardinale, chiamato così per il suo colore rosso acceso. Poi proseguiamo su una specie di passerella tra le acque. In realtà l'acqua che ci sta intorno è salata, è il mare che dalla costa risale fino a qui. Lo si può intuire anche dalla scarsa vegetazione e dalla mancanza di terre coltivate. C'è una sorta di bassa marea e quindi appare quasi della sabbia, ma argillosa, molto bagnata. Come ci cammino sopra capisco che è tutto fango, sembrano quasi sabbie mobili. Proseguiamo il cammino per un po’ e ci ritroviamo accerchiati da mangrovie, delle piante che crescono proprio dove c'è l'acqua salata; ce ne sono veramente tante e le radici si ramificano al punto tale che non si vede cosa c'è oltre. Anche gli animaletti che si muovono nell'acqua sono particolari, delle lucertoline con solo le zampe davanti e con dietro una coda più muscolosa per nuotare. Troviamo anche dei granchi. Arrivati ad un certo punto la strada si fa sempre più bagnata e le piccole pozzanghere diventano sempre più grandi, tanto che non si possono più saltare, bisogna entrarci. Non sono profonde, ci bagneremmo solo le scarpe, ma sappiamo che nelle pozze di acqua a volte si annidano dei parassiti capaci di infilarsi sotto la pelle o sotto le unghie e fare la casa lì. È capitato anche ad una suora. La prospettiva non è rassicurante, ma decidiamo di superare le prime pozzanghere lo stesso. Effettivamente la domanda che viene ad alcuni di noi non è proprio sbagliata: "Ma dove si trova questo villaggio dove siamo diretti?" C'è davanti a noi un corridoio le cui pareti sono formate da queste piante ed oltre si vede solo acqua. Ma ora siamo troppo impegnati a guadare le pozzanghere che diventano sempre più lunghe e sempre più profonde. Arriviamo al limite di questo percorso. Davanti a noi tanta acqua e a 50 metri di distanza due ragazzi che sono fermi. Aspettano la canoa che li porterà al villaggio. Decidiamo che non possiamo andare oltre, non solo perché non sappiamo tra quanto tempo passerà la canoa, ma anche perché è abbastanza tardi e dobbiamo farne di cammino prima di ritornare al fuoristrada. Mentre percorriamo la via del ritorno raccolgo alcune conchiglie, vecchie case di paguri. Dopo un po’ di strada percorsa, vediamo apparire dietro di noi una motocicletta, segno che la canoa è arrivata ed ha scaricato questa moto. Siamo dispiaciuti, potevamo almeno vedere la canoa, ma le nuvole si fanno minacciose. Forse non è stato così male tornare indietro.
Ore 16.00. Lezione di criolo. A don Ivo non pare il caso di andare avanti con le lezioni, perché il prossimo ciclo sono i tempi verbali, che non sono un argomento molto facile e che non avremo il tempo di finire. Quindi facciamo una bella ripassata di tutto quello fatto finora e poi ci lanciamo in qualche scheda per imparare termini. Ci fermiamo in maniera particolare su quella della frutta, e ci rendiamo conto che qui ci sono molte varietà di frutta che non solo non conosciamo noi, ma che neanche don Ivo conosce. Joaquim ha anche delle difficoltà a spiegarcene alcune. Ci farà preparare da Neia, la cuoca che cucina da don Ivo, alcuni piatti con alcuni tipi di frutta, gli altri ce li farà vedere al mercato.
Ore 18.30. In parrocchia c'è la Messa seguita dall'adorazione eucaristica. Piove, anche molto e da molto tempo, a terra è tutto fango. Arrivati in chiesa vediamo dei secchi con delle pezze a terra. Penso: "Proprio oggi che piove hanno lavato!?". Invece, purtroppo, in chiesa piove. Nessuno ha mai fatto nessuna manutenzione al tetto, e non si sa se è problema di qualche buco nel tetto o di qualche lamiera che non combacia bene.
26 agosto
Ci alziamo molto presto. Oggi andiamo a Farim da padre Carlo e ci resteremo la notte. Prepariamo alcune cose da portare alla missione di Farim, tra cui anche il sapone partito da Foggia. Mettiamo il gasolio al fuoristrada, prepariamo una sorta di valigia e ci avviamo. Davanti al cancello esterno della casa di don Ivo troviamo suor Rosa, che verrà con il suo fuoristrada a Farim, a prendere gli insegnanti di Bigene mandati agli incontri per la formazione di portoghese. È una splendida giornata di sole che promette proprio bene. Ci aspettano 40 km di viaggio su queste strade. Ci fermiamo ad un villaggio a salutare il capovillaggio ed alcuni bambini. Usciamo dalla zona della parrocchia di Bigene ed entriamo nel territorio di Farim. Molto lontano da Bigene don Ivo si ferma in un villaggio dove tutti i bambini, al passare del fuoristrada, intonano la sua canzone. Ci spiega che qui una volta si è fermato, più di un anno fa, perché i bambini occupavano la strada, ed ha insegnato loro il canto. Beh, dopo tutto questo tempo i bambini si ricordavano ancora della canzone e di don Ivo. Arriviamo finalmente a Farim, consegniamo i pacchi a don Carlo e lui ci porta a vedere i nostri professori al corso di formazione. C'è un professore della Guinea, che ha vissuto molti anni in Portogallo e conosce bene la lingua. Nella scuole si insegna il portoghese ed in portoghese, che è la lingua ufficiale, ma molti professori non sanno bene il portoghese perché la lingua parlata e più usata è il criolo, nuova lingua venutasi a creare dall'incontro tra il portoghese, lingua dei colonizzatori, e le lingue locali. Vengono al corso perché, se loro non parlano il portoghese, come fanno ad insegnarlo ai bambini?
Nel pomeriggio andiamo a trovare le suore di questa missione, che vengono dall'Angola. Una suora non c'è, sta tornando da Madrid dove ha accompagnato 25 giovani della Guinea Bissau alla Giornata Mondiale della Gioventù; un’altra è anziana ma possiede una grande saggezza: ai professori del corso ha parlato dicendo che è importante per loro frequentare questo corso, ma l'insegnamento non è solo questione di intelligenza, se non si dà con il cuore non sarà mai fatto bene. Tornando a casa di padre Carlo scoppia un grande acquazzone che ci costringe a casa. Alle 20 recitiamo il rosario nella chiesa di Farim e poi celebriamo Messa solo per noi, in criolo, con letture in italiano. Tornati a casa incontriamo Corinna e Laura (due ragazze che già avevamo incontrato a Bambaran), che son venute a passare il fine settimana a Farim.
27 agosto
Celebriamo le Lodi e la Messa nella chiesa di Farim, ci sono alcuni giovani e le suore. Poi a piedi, passando per il mercato, andiamo verso il porto dove ci aspetta una canoa per fare un giro sul fiume. Come il solito, il fiume non è proprio un fiume, ma il mare che risale fino a qui. Pensare che siamo distanti dalla costa almeno 100 km. La canoa è stata fatta tagliando un grande tronco di albero e scavandolo. Non è molto stabile, al minimo movimento di ognuno oscilla, l'acqua non è proprio limpida, ma solo per il fango che la pioggia di ieri ha alzato. Siamo con gli occhi aperti cercando i caimani che abitano da queste parti, ma non è così facile incontrarli. Finiamo il giro in canoa, molto particolare, e facciamo un giro per il mercato, dove acquistiamo alcune stoffe. Farim è più grande di Bigene e durante il periodo della colonizzazione era un’importante città coloniale. Dopo il pranzo ripartiamo subito per non rischiare di prendere la pioggia, e per arrivare a Bigene con ancora luce in modo da attivare i pannelli e caricare le batterie di casa. Don Ivo decide di farmi guidare. Sono 40 km ma sono tutte buche. Tempo di percorrenza circa 3 ore. Stato di stanchezza altissimo. Non puoi distrarti molto mentre guidi, non vedi il panorama, stai sempre in tensione: cambio, acceleratore, freno e sterzo sempre in movimento. Tra le altre cose, per fortuna c'è il sole che ci accompagna tutto il tempo, ma la sete si fa sentire. Risultato: all'arrivo ho bevuto 1 litro di acqua, che ho immediatamente eliminato con il sudore in pochi minuti. Doccia obbligatoria ed un po’ di relax prima di andare in chiesa per il rosario. Mentre andiamo in parrocchia a piedi assistiamo ad uno spettacolo incredibile. Siamo circondati da un temporale, bagliori di lampi e fulmini a perdita d'occhio… È quasi buio, qui non ci sono montagne, non c'è illuminazione per strada. Ogni tanto flash potentissimi illuminano a giorno il nostro cammino. Finito il rosario inizia un acquazzone, veramente violento. Mentre aspettiamo che spiova facciamo le prove dei canti della domenica, e i ragazzi preparano per noi dei balli che eseguiranno nella Messa. Niente di esagerato, le ragazze della parrocchia fanno dei passi a ritmo del canto per accompagnare l'ingresso, l'offertorio e la conclusione. In una pausa della pioggia ci incamminiamo verso casa, ma in poco tempo è caduta molta acqua e ci sono delle pozzanghere grandi. Noi siamo in quattro, muniti di una sola piccola torcia.
28 agosto
Tutto bene a Messa: i balli, i canti, la chiesa piena di giovani e ragazzi. Alla fine don Ivo ci chiede di fare un saluto ufficiale visto che fra 3 giorni andiamo via. Non trovo le parole, non è questione di emozione per chi mi ascolta, sono felice di essere ancora qui, ma il pensiero di dover andar via, la consapevolezza del poco tempo che ci resta a Bigene ed in Guinea Bissau... sono affranto. Poi ci sono i ringraziamenti di Alfredo, catechista, a nome di tutta la parrocchia. Scappiamo a Barro. È tardi e lì ci aspettano per la Messa. Durante il viaggio carichiamo molti ragazzi di Liman. Arrivati, è già tutto pronto e tutti, seduti sotto l'albero, aspettano solo noi. I canti anche se mancano gli strumenti sono soavi, guidati da una ragazza che ha il pancione. Durante la Messa accade qualcosa di straordinario che don Ivo vuole richiamare all’attenzione di tutti. Si sente da lontano il pianto di una bambina, che man mano si fa sempre più vicino. Ad un tratto riusciamo a vedere questa bambina, avrà avuto 3 anni, che piangendo sta camminando da sola, come se tutto quello che sta attorno a lei non esistesse. Continua a camminare ed a piangere. Si capisce che ha una meta, ma non sappiamo quale. Passa davanti a tutti, sfila, ancora piangendo, anche davanti all’altare ed arriva alla sua meta. La mamma è la ragazza col pancione che intona i canti. Nel momento esatto in cui la mamma la prende in braccio, il pianto finisce. È così immediato l’effetto da colpire l’attenzione di tutti. Proprio così deve essere il nostro rapporto con Dio, un affidarsi ed un sentirsi protetti in un abbraccio che in meno di un attimo toglie ogni turbamento. Arrivano anche qui i ringraziamenti, ma la cosa che mi rasserena e mi lascia senza pensieri è il ringraziamento che fa uno del villaggio, l'infermiere di Barro, a nome di tutti: "Se dovete partire è per il vostro lavoro e sicuramente Dio vuole così, ma questo non esclude che Dio voglia che voi torniate e noi saremo sempre contenti di accogliervi". Nella semplicità c'è in alcune persone la capacità di saper esprimere la forza di una fede che affonda profondamente le sue radici nel rapporto con gli eventi della vita e la consapevolezza che presente passato e futuro sono nelle mani del Signore che saprà fare bene. Pranzo di domenica sempre dalle suore, dove acquistiamo anche le famose tovaglie che fanno qui. Pomeriggio a completare alcuni lavori in casa. Mentre Sergio e Francesco appendono le icone donate dal vescovo di Foggia-Bovino alla casa della missione di Bigene, io e Domingos montiamo una mensola e attacchiamo una scritta davanti la porta di casa. La scritta è il nome che don Ivo ha dato alla casa: "foggia". Poi attacchiamo alle pareti anche le foto dei vari gruppi che sono stati ospiti qui; non sono molti, ma ci si aspetta che adesso, con la nuova casa, ci possano essere molte più opportunità.
29 agosto
Partiamo alla volta di Bucaur, un villaggio che si trova vicino al confine con il Senegal ed ha vissuto in questo periodo una situazione molto particolare. Arrivati, abbiamo un po’ di tempo prima che le persone si radunino per incontrarci. È l'occasione buona per giocare con i bambini. Francesco propone anche dei bans in italiano, e tutti i bambini anche se non capiscono le parole ripetono tutto, gesti e parole. Poi ci incontriamo in quella che loro chiamano chiesa, qui non ancora completata. È una stanza vuota con le finestre. Quando viene il padre, loro portano le loro sedie ed i loro sgabelli e la sala si riempie. Qui parliamo in maniera approfondita del problema. Ci sono alcuni ribelli indipendentisti che chiedono la separazione del sud Senegal dal nord. Qui il confine dista veramente pochi metri. È successo che questi rivoluzionari siano entrati in alcuni villaggi e con la minaccia di uccidere abbiano preso soldi e cibo per loro, distruggendo persino molte cose. Alcuni di questi villaggi hanno abbandonato tutto e si sono spostati temporaneamente nei villaggi vicini della Guinea Bissau. Qui il confine non c'è, si passa dalla Guinea Bissau al Senegal senza accorgersene. La mattina questi rifugiati andavano a lavorare le proprie terre e la sera andavano a dormire nei villaggi vicini. Il tutto è tornato alla normalità proprio ieri. È anche capitato che alcuni di questo gruppo di guerriglieri si sia appostato nelle strade di confine e abbia rubato tutto, ma proprio tutto (alcuni sono rimasti anche senza vestiti) a chiunque passa. Sembrano proprio dei briganti senza scrupoli più che guerriglieri.
Nel pomeriggio ci rechiamo in un villaggio dove ci hanno detto che avremmo trovato i seggiolini fatti di legno di mango, che loro usano e che noi cerchiamo da tempo. Li troviamo e sono veramente belli, anche se questi nuovi hanno ancora un colore chiaro, in quanto il legno è ancora fresco.
30 agosto
Ultimo giorno qui a Bigene, domani si parte ed allora la giornata di oggi è dedicata a dei compiti che ho da fare per l'Italia. Mentre mi incammino verso la scuola armato di carta penna e metro, Francesco e Sergio raggiungono suor Rosa che li porterà a fare qualche giro per le case di Bigene. Sono da solo alla scuola e prendo le misure perché con il nuovo progetto, che è già iniziato, vogliamo portare la corrente elettrica prodotta dai pannelli solari, che sono stati donati alla missione e sono istallati e funzionanti sul tetto della casa, anche alla scuola, al centro nutrizionale e alla chiesa. Servono le misure per capire anche che tipo di impianto elettrico c'è e cosa invece in futuro possiamo portare per migliorarne l'efficienza. Le aule sono carine, niente di particolare, e i bagni mi ricordano quelli del Piccolo Seminario di Foggia, a misura di bambino. C'è anche la cucina, perché qui i ragazzi che vengono a scuola fanno un pasto. Passo poi al centro nutrizionale, dove Joaquim ha già finito il suo lavoro, perché in questi giorni finisce il ramadan e molti musulmani si stanno preparando alla festa. Il tempo di montare un appendiabiti a casa "foggia" ed è già tempo di pranzo. Le misure della chiesa le andiamo a prendere nel pomeriggio. Qui in futuro vorremmo far arrivare anche della pittura per ridare colore alle pareti; in questi giorni pioveva dentro, quindi forse dovremmo organizzarci anche per far aggiustare il tetto. Altra idea che c'è da tempo: rifare il recinto della chiesa che in certi punti non c'è più ed entrano gli animali. Francesco prende anche le misure della campana, che c'è con il suo campanile, ma è spaccata quindi dà un suono sordo. Vuole vedere se riesce a farne fare una nuova. Il pomeriggio passa con qualche chiacchierata con alcuni, riusciamo a capire e a farci capire in qualche modo. La cena è dalle suore, che hanno preparato la pizza per noi ed un dolce molto buono. Ultima notte a Bigene … un cielo stellato illumina il cielo e la notte tutta.
31 Agosto
Sveglia, Messa e colazione dalle suore, poi a chiudere le valigie e si parte. Sono in molti che vengono a Bissau con noi. Viene anche suor Rosa ed io guido il fuoristrada delle suore. Il fuoristrada di don Ivo buca una gomma. Ci fermiamo ad Ingorè per lasciare il materiale scolastico dell'ultima spedizione e poi a Bissau. Salutiamo Joaquim con tutta la sua famiglia che hanno fatto il viaggio con noi ed andiamo in Curia per il pranzo. A cena con noi c’è il vescovo di Bissau. Gli rivolgiamo tante domande, anche perché oltre ad essere un uomo di cultura è anche molto saggio e ci sa spiegare alcuni passaggi storici e culturali che altri del posto hanno fatto fatica a spiegarci. Riposo e partenza di notte.
Il viaggio è finito, ma l’esperienza continua. Non vedo l’ora di tornare a casa per poter raccontare a tanti questa mia esperienza. Non può essere un viaggio che finisce con la partenza del ritorno, non è una vacanza, non è una gita, è una esperienza di fede che mi ha lasciato segnato. Solo così si può parlare di gemellaggio tra le diocesi, solo così ha senso che un prete della diocesi di Foggia-Bovino venga “donato” temporaneamente ad un’altra diocesi, perché non sia solo la sua esperienza, ma l’esperienza di una intera diocesi. Io, che ho avuto la possibilità di visitare, vedere, toccare con mano e vivere di persona questa esperienza, ora ho il compito di portarla nella mia diocesi di Foggia-Bovino e di condividerla con chi non ha questa possibilità, perché ugualmente ci sia la possibilità di essere di aiuto gli uni per gli altri. Certo in Guinea-Bissau mancano molte cose materiali, ma quante altre culturali ci sarebbero da importare. Nessuno è migliore dell’altro, ma insieme possiamo migliorarci entrambi.
Concludo, anche se tante altre cose avrei da raccontare. Chiunque desidera una mia testimonianza, può contattarmi al 3277076
La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
30 ottobre 2011
22 ottobre 2011
Camminare con la Chiesa 10: Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2011
«COME IL PADRE HA MANDATO ME, ANCH’IO MANDO VOI» (Gv 20,21)
In occasione del Giubileo del 2000, il Venerabile Giovanni Paolo II, all’inizio di un nuovo millennio dell’era cristiana, ha ribadito con forza la necessità di rinnovare l’impegno di portare a tutti l’annuncio del Vangelo «con lo stesso slancio dei cristiani della prima ora» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 58). È il servizio più prezioso che la Chiesa può rendere all’umanità e ad ogni singola persona alla ricerca delle ragioni profonde per vivere in pienezza la propria esistenza. Perciò quello stesso invito risuona ogni anno nella celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale. L’incessante annuncio del Vangelo, infatti, vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione - e animati dallo slancio missionario: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2).
Andate e annunciate
Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19). La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo. Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus. Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada (Lc 24,33-34). Il Papa Giovanni Paolo II esortava ad essere “vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: “Abbiamo visto il Signore!”» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).
A tutti
Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes, 5).
Questo compito non ha perso la sua urgenza. Anzi, «la missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento … Uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 1). Non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo e non hanno ancora ascoltato il suo Messaggio di salvezza.
Non solo; ma si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede. È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal Messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali.
Corresponsabilità di tutti
La missione universale coinvolge tutti, tutto e sempre. Il Vangelo non è un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo dono-impegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati, i quali sono «stirpe eletta, … gente santa, popolo che Dio si è acquistato” (1Pt 2,9), perché proclami le sue opere meravigliose.
Ne sono coinvolte pure tutte le attività. L’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali: la dimensione missionaria della Chiesa è essenziale, e pertanto va tenuta sempre presente. E’ importante che sia i singoli battezzati e sia le comunità ecclesiali siano interessati non in modo sporadico e saltuario alla missione, ma in modo costante, come forma della vita cristiana. La stessa Giornata Missionaria non è un momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa.
Evangelizzazione globale
L’evangelizzazione è un processo complesso e comprende vari elementi. Tra questi, un’attenzione peculiare da parte dell’animazione missionaria è stata sempre data alla solidarietà. Questo è anche uno degli obiettivi della Giornata Missionaria Mondiale, che, attraverso le Pontificie Opere Missionarie, sollecita l’aiuto per lo svolgimento dei compiti di evangelizzazione nei territori di missione. Si tratta di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l'istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa. Annunciando il Vangelo, essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il Servo di Dio Paolo VI, che nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 31.34); non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale “percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità” (Mt 9,35).
Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti. In essa noi portiamo, seppure in vasi di creta, la nostra vocazione cristiana, il tesoro inestimabile del Vangelo, la testimonianza viva di Gesù morto e risorto, incontrato e creduto nella Chiesa.
La Giornata Missionaria ravvivi in ciascuno il desiderio e la gioia di “andare” incontro all’umanità portando a tutti Cristo. Nel suo nome vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, in particolare a quanti maggiormente faticano e soffrono per il Vangelo.
Dal Vaticano, 6 gennaio 2011, Solennità dell’Epifania del Signore
In occasione del Giubileo del 2000, il Venerabile Giovanni Paolo II, all’inizio di un nuovo millennio dell’era cristiana, ha ribadito con forza la necessità di rinnovare l’impegno di portare a tutti l’annuncio del Vangelo «con lo stesso slancio dei cristiani della prima ora» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 58). È il servizio più prezioso che la Chiesa può rendere all’umanità e ad ogni singola persona alla ricerca delle ragioni profonde per vivere in pienezza la propria esistenza. Perciò quello stesso invito risuona ogni anno nella celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale. L’incessante annuncio del Vangelo, infatti, vivifica anche la Chiesa, il suo fervore, il suo spirito apostolico, rinnova i suoi metodi pastorali perché siano sempre più appropriati alle nuove situazioni - anche quelle che richiedono una nuova evangelizzazione - e animati dallo slancio missionario: «La missione rinnova la Chiesa, rinvigorisce la fede e l’identità cristiana, dà nuovo entusiasmo e nuove motivazioni. La fede si rafforza donandola! La nuova evangelizzazione dei popoli cristiani troverà ispirazione e sostegno nell’impegno per la missione universale» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 2).
Andate e annunciate
Questo obiettivo viene continuamente ravvivato dalla celebrazione della liturgia, specialmente dell’Eucaristia, che si conclude sempre riecheggiando il mandato di Gesù risorto agli Apostoli: “Andate…” (Mt 28,19). La liturgia è sempre una chiamata ‘dal mondo’ e un nuovo invio ‘nel mondo’ per testimoniare ciò che si è sperimentato: la potenza salvifica della Parola di Dio, la potenza salvifica del Mistero Pasquale di Cristo. Tutti coloro che hanno incontrato il Signore risorto hanno sentito il bisogno di darne l’annuncio ad altri, come fecero i due discepoli di Emmaus. Essi, dopo aver riconosciuto il Signore nello spezzare il pane, «partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme dove trovarono riuniti gli Undici» e riferirono ciò che era accaduto loro lungo la strada (Lc 24,33-34). Il Papa Giovanni Paolo II esortava ad essere “vigili e pronti a riconoscere il suo volto e correre dai nostri fratelli a portare il grande annunzio: “Abbiamo visto il Signore!”» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 59).
A tutti
Destinatari dell’annuncio del Vangelo sono tutti i popoli. La Chiesa, «per sua natura è missionaria, in quanto essa trae origine dalla missione del Figlio e dalla missione dello Spirito Santo, secondo il disegno di Dio Padre» (Conc. Ecum. Vat. II, Decr. Ad gentes, 2). Questa è «la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità più profonda. Essa esiste per evangelizzare» (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 14). Di conseguenza, non può mai chiudersi in se stessa. Si radica in determinati luoghi per andare oltre. La sua azione, in adesione alla parola di Cristo e sotto l’influsso della sua grazia e della sua carità, si fa pienamente e attualmente presente a tutti gli uomini e a tutti i popoli per condurli alla fede in Cristo (cfr Ad gentes, 5).
Questo compito non ha perso la sua urgenza. Anzi, «la missione di Cristo redentore, affidata alla Chiesa, è ancora ben lontana dal suo compimento … Uno sguardo d’insieme all’umanità dimostra che tale missione è ancora agli inizi e che dobbiamo impegnarci con tutte le forze al suo servizio» (Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris missio, 1). Non possiamo rimanere tranquilli al pensiero che, dopo duemila anni, ci sono ancora popoli che non conoscono Cristo e non hanno ancora ascoltato il suo Messaggio di salvezza.
Non solo; ma si allarga la schiera di coloro che, pur avendo ricevuto l’annuncio del Vangelo, lo hanno dimenticato e abbandonato, non si riconoscono più nella Chiesa; e molti ambienti, anche in società tradizionalmente cristiane, sono oggi refrattari ad aprirsi alla parola della fede. È in atto un cambiamento culturale, alimentato anche dalla globalizzazione, da movimenti di pensiero e dall’imperante relativismo, un cambiamento che porta ad una mentalità e ad uno stile di vita che prescindono dal Messaggio evangelico, come se Dio non esistesse, e che esaltano la ricerca del benessere, del guadagno facile, della carriera e del successo come scopo della vita, anche a scapito dei valori morali.
Corresponsabilità di tutti
La missione universale coinvolge tutti, tutto e sempre. Il Vangelo non è un bene esclusivo di chi lo ha ricevuto, ma è un dono da condividere, una bella notizia da comunicare. E questo dono-impegno è affidato non soltanto ad alcuni, bensì a tutti i battezzati, i quali sono «stirpe eletta, … gente santa, popolo che Dio si è acquistato” (1Pt 2,9), perché proclami le sue opere meravigliose.
Ne sono coinvolte pure tutte le attività. L’attenzione e la cooperazione all’opera evangelizzatrice della Chiesa nel mondo non possono essere limitate ad alcuni momenti e occasioni particolari, e non possono neppure essere considerate come una delle tante attività pastorali: la dimensione missionaria della Chiesa è essenziale, e pertanto va tenuta sempre presente. E’ importante che sia i singoli battezzati e sia le comunità ecclesiali siano interessati non in modo sporadico e saltuario alla missione, ma in modo costante, come forma della vita cristiana. La stessa Giornata Missionaria non è un momento isolato nel corso dell’anno, ma è una preziosa occasione per fermarsi a riflettere se e come rispondiamo alla vocazione missionaria; una risposta essenziale per la vita della Chiesa.
Evangelizzazione globale
L’evangelizzazione è un processo complesso e comprende vari elementi. Tra questi, un’attenzione peculiare da parte dell’animazione missionaria è stata sempre data alla solidarietà. Questo è anche uno degli obiettivi della Giornata Missionaria Mondiale, che, attraverso le Pontificie Opere Missionarie, sollecita l’aiuto per lo svolgimento dei compiti di evangelizzazione nei territori di missione. Si tratta di sostenere istituzioni necessarie per stabilire e consolidare la Chiesa mediante i catechisti, i seminari, i sacerdoti; e anche di dare il proprio contributo al miglioramento delle condizioni di vita delle persone in Paesi nei quali più gravi sono i fenomeni di povertà, malnutrizione soprattutto infantile, malattie, carenza di servizi sanitari e per l'istruzione. Anche questo rientra nella missione della Chiesa. Annunciando il Vangelo, essa si prende a cuore la vita umana in senso pieno. Non è accettabile, ribadiva il Servo di Dio Paolo VI, che nell’evangelizzazione si trascurino i temi riguardanti la promozione umana, la giustizia, la liberazione da ogni forma di oppressione, ovviamente nel rispetto dell’autonomia della sfera politica. Disinteressarsi dei problemi temporali dell’umanità significherebbe «dimenticare la lezione che viene dal Vangelo sull’amore del prossimo sofferente e bisognoso» (Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 31.34); non sarebbe in sintonia con il comportamento di Gesù, il quale “percorreva tutte le città e i villaggi, insegnando nelle loro sinagoghe, annunciando il vangelo del Regno e guarendo ogni malattia e infermità” (Mt 9,35).
Così, attraverso la partecipazione corresponsabile alla missione della Chiesa, il cristiano diventa costruttore della comunione, della pace, della solidarietà che Cristo ci ha donato, e collabora alla realizzazione del piano salvifico di Dio per tutta l’umanità. Le sfide che questa incontra, chiamano i cristiani a camminare insieme agli altri, e la missione è parte integrante di questo cammino con tutti. In essa noi portiamo, seppure in vasi di creta, la nostra vocazione cristiana, il tesoro inestimabile del Vangelo, la testimonianza viva di Gesù morto e risorto, incontrato e creduto nella Chiesa.
La Giornata Missionaria ravvivi in ciascuno il desiderio e la gioia di “andare” incontro all’umanità portando a tutti Cristo. Nel suo nome vi imparto di cuore la Benedizione Apostolica, in particolare a quanti maggiormente faticano e soffrono per il Vangelo.
Dal Vaticano, 6 gennaio 2011, Solennità dell’Epifania del Signore
18 ottobre 2011
Testimonianza Missionaria 7: "Padre Fausto Tentorio, missionario PIME nelle Filippine"
Ucciso Fausto, l’amico dei tribali
Ucciso davanti alla sua chiesa in una remota area dell’isola di Mindanao. Padre Fausto Tentorio è l’ultimo a cadere fra gli esponenti di una Chiesa e di una missione che continua nell’impegno al fianco degli ultimi. Uomini drammaticamente testimoni e vittime di una situazione di violenza e insicurezza endemica che nelle Filippine sembra sfuggire a ogni regola.
Due uomini in motocicletta con il casco, uno scende con in mano una pistola e spara in rapida successione alcuni colpi. Il bersaglio cade colpito al capo e alla schiena. Questa, secondo le prime testimonianze, la ricostruzione dell’omicidio. Uno dei tanti nelle Filippine senza pace e spesso senza legge, ma a cadere sotto i colpi dell’assassino questa volta non è un imprenditore durante un tentativo di sequestro, oppure un oppositore politico, un attivista sociale o un giornalista. Questa volta è toccato a padre Fasto Tentorio, 59enne missionario del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), brianzolo di nascita ma da trent’anni nell’arcipelago asiatico.
Ieri mattina, dopo la Messa nella sua parrocchia di Arakan, in un’area montana della provincia di North Cotabato, sull’isola di Mindanao, padre Tentorio stava per salire sulla sua auto per recarsi come ogni lunedì alla riunione del presbiterio di Kidapawan, quando è stato avvicinato dal killer che gli ha sparato con una pistola. I fedeli che si trovavano all’interno della struttura parrocchiale hanno sentito gli spari e sono usciti in tempo per vedere un uomo col casco scappare verso una moto che si è allontanata. Inutile la corsa di trenta chilometri di strada di montagna all’ospedale di Antipas dove il missionario è arrivato già cadavere.
Contro il parere dello stesso vescovo di Kidapawan, la diocesi che include vaste aree di difficile accesso anche per gli operatori ecclesiali, tra cui Arakan, gli stessi parrocchiani di padre Tentorio ne hanno riportato indietro la salma per la veglia funebre. A sera pure i ribelli del Fronte islamico di liberazione del Moro hanno condannato l’agguato.
Il missionario italiano era nelle Filippine dal 1978, dal 1985 nella «sua» missione dell’Arakan dove, ricorda il superiore del Pime nelle Filippine, padre Giulio Mariani, «da più di 30 anni faceva un lavoro magnifico, era amato da tutti». Non privo di rischi personali, però. Come specificato da padre Mariani, nel 2003 il missionario del Pime era sfuggito a un tentativo di sequestro: «Ha sempre lavorato nella zona abitata da emarginati, tribali filippini, musulmani. Era molto apprezzato. Forse ha pestato i piedi a qualcuno, ma non sappiamo ancora. La sua era una missione delicata perché quando hai a che fare con emarginazione e povertà sei destinato a dare fastidio».
AVVENIRE, 17 OTTOBRE 2011
La semplicità evangelica che arriva fino al martirio
«Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione». In queste parole di “Porta fidei” – la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della Fede – c’è il ritratto di padre Fausto Tentorio, il missionario del Pime ucciso domenica, nell’ormai tristemente famosa isola filippina di Mindanao.
Qualcuno ci vedrà semplici coincidenze, ma a noi piace osservare che la sua morte è avvenuta a poche ore dalla pubblicazione del documento col quale il Papa rilancia con forza l’urgenza dell’evangelizzazione a 360 gradi e a una settimana esatta dalla Giornata missionaria mondiale, che si celebra domenica prossima.
Conoscevo padre Fausto Tentorio. L’ultima volta l’ho incontrato due anni fa a Kidapawan, presso la sede della diocesi cui apparteneva. Con quella faccia da eterno ragazzo, pur alle prese con un’inesorabile calvizie (che amava nascondere sotto coloratissime bandane), mi aveva raccontato della quotidianità della sua missione, dei lunghi e faticosi viaggi in moto e jeep su strade a dir poco precarie; mi aveva detto delle visite ai villaggi sperduti, del tentativo di organizzare i "suoi" tribali manobo per difenderne i diritti. Si appassionava, parlando di loro, lui che – per il resto – era piuttosto schivo nel raccontare di sé.
Se c’è un tratto, infatti, che colpiva di padre Fausto è proprio la «semplicità evangelica» di cui parla Benedetto XVI. Da buon brianzolo, era un uomo concreto: non amava mettersi in mostra, per lui l’importante era mostrare, con le opere più che con le parole, che un’autentica liberazione dall’oppressione è possibile, per chi si mette alla scuola del Vangelo.
Aveva trovato nell’Arakan Valley, una località sperduta di Mindanao, il luogo dove testimoniare la sua passione per Cristo e dove provare a costruire una risposta evangelicamente alternativa all’economia dello sfruttamento e dell’ingordigia.
Dopo lunghi anni di servizio gomito a gomito con i tribali del luogo, era riuscito a formare e organizzare le piccole comunità manobo, disperse tra colline e montagne. Sapeva bene che tale impegno significava dare fastidio. Il suo anziano confratello Peter Geremia – che per anni si è dedicato alla causa dei tribali, sfidando anche autorità e tribunali – nel passargli il testimone l’aveva messo in guardia: perseguire la giustizia, in un contesto arroventato come quello, vuol dire fronteggiare interessi nemmeno troppo occulti, poteri davvero forti. E soprattutto passare, inevitabilmente, per guastafeste. Perché chi vorrebbe portar via le terre ancestrali ai loro legittimi possessori non va molto per il sottile, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo.
Padre Tentorio ne era ben consapevole: qualche anno fa era sfuggito alle minacce di un gruppo armato, nascondendosi. Così come sapeva che, nelle cattolicissime Filippine, numerosi missionari (confratelli del Pime e non solo) hanno pagato con la vita, negli ultimi anni, la loro testimonianza di fede autentica e carità disinteressata. Non era un eroe in cerca di gloria, ma nemmeno un ingenuo ignaro di quale angolo difficile del pianeta gli fosse stato assegnato.
E tuttavia la vita di padre Fausto si è conclusa nel segno del martirio. Un martirio inutile, agli occhi di qualcuno. Chi ha fede, però, sa che quel sangue non è stato versato invano, ma ha suggellato, lì a Kidapawan come sempre altrove, l’amicizia esigente tra Cristo e il suo popolo.
Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011
Padre Benedetti: «Paghiamo questo prezzo per testimoniare il Vangelo»
«Con l’uccisione di padre Fausto, il Pime ancora una volta paga, a prezzo del sangue, la testimonianza dei suoi missionari nei diversi ambiti in cui è impegnato nelle Filippine. Oggi è la volta del lavoro in difesa dei tribali e dei loro diritti. In passato è stato il dialogo con l’islam (costato la vita a padre Salvatore Carzedda nel 1992), in precedenza il lavoro nelle comunità cristiane di base, colpito duramente con l’eliminazione di padre Tullio Favali nel 1985».
Padre Luciano Benedetti, classe 1944, originario di Faenza, da pochi mesi rientrato in Italia, ha dedicato quasi totalmente il suo impegno missionario alle Filippine, anch’egli nelle file del Pime. Nel 1998 è stato rapito per 68 giorni da un «commando» di fondamentalisti musulmani.
Conosceva bene padre Fausto?
Sì, eravamo amici. In seminario avevamo dormito nella stessa camera. Poi nel 1978 la partenza insieme, alla volta delle Filippine, dove le nostre strade si sono divise. Padre Fausto, infatti, nel 1982 si è recato a Kidapawan, insieme ad altri del Pime, per aprire una nuova missione nell’Arakan Valley: una zona abitata da tribali, con alcune comunità cristiane molto isolate e, dal punto di vista naturalistico, incontaminata.
Quello per i tribali e la loro «causa» è sempre stato l’impegno prioritario di padre Fausto?
Sì. Quando era a Columbio nel 1984 per imparare la lingua, ha passato i primi sei mesi in un villaggio tribale e lì hanno sparato due proiettili contro casa sua. Perché? Quando cominci a interessarti dei bisogni dei tribali e ti prendi a cuore la loro situazione, crei problemi, diventi un troublemaker («rompiscatole»).
Il Pime è arrivato nelle Filippine nel 1968. Fin dai primi anni si è rivelata una missione tutt’altro che facile. Negli ultimi anni, poi, s’è aggiunto l’estremismo islamico...
Già nel 1977 tre missionari del Pime, attivi a Manila, sono stati espulsi a motivo del loro impegno sociale. Negli anni successivi molti confratelli hanno vissuto l’esperienza delle minacce di morte o di rapimento. Io stesso sono stato rapito e nel 2007 lo stesso è accaduto a padre Giancarlo Bossi. Padre Fausto, nel 2003 era già stato oggetto di un tentativo di rapimento (fortunatamente senza conseguenze). Forse proprio in quell’occasione è nato il progetto di eliminarlo. Due anni fa una lettera di minaccia lo aveva costretto a far ritorno per alcuni mesi in Italia per precauzione. Poi era ripartito, la situazione sembrava normalizzata: l’ho incontrato a un ritiro nell’agosto di quest’anno e in quell’occasione non ha mostrato preoccupazioni particolari.
Padre Benedetti, scorrendo la lista degli uccisi o rapiti nelle Filippine qualcuno potrebbe pensare ai missionari come a sprovveduti che mettono a repentaglio la vita in zone che sanno essere pericolose oppure come «eroi» che vanno a caccia del martirio. È così?
No, nessuno vuol fare l’eroe. Ci siamo posti ripetutamente il problema della sicurezza e adottiamo una serie di precauzioni. Certo, quando si finisce nel mirino queste potrebbero non bastare. In ogni caso, tutte le volte che qualcuno di noi capisce che si sta raggiungendo il «livello di guardia» cambiamo aria, ci spostiamo. Per tutelare la gente del posto, oltre che la missione nel suo complesso. Il problema è che il nostro lavoro ci costringe spesso ad operare da soli, in luoghi isolati.
Perché il Pime è rimasto e rimarrà, nonostante tutto, nelle Filippine?
Perché ce lo chiede la missione. Testimoniare il Vangelo comporta affrontare dei rischi. Abbiamo fatto una promessa anche alla nostra gente e dobbiamo essere fedeli al popolo che ci è stato affidato.
Dove sarà sepolto padre Fausto?
Non lo so. So dove lui vorrebbe essere tumulato: in una località suggestiva, a circa 6-700 metri d’altezza, nella «sua» Arakan Valley. L’aveva confidato ai suoi amici.
Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011
Il bene non fa rumore ma merita di essere riconosciuto
Era del Nord Italia, esattamente della provincia di Lecco, il missionario padre Fausto Tentorio, ucciso nell’isola filippina di Mindanao. Là faceva tutto il bene che poteva. Un sicario (non il popolo, non la gente, che l’amava) gli ha fatto tutto il male che poteva. Lo citiamo per nome, perché in questo momento il suo nome sta su tutti i giornali, impossibile nasconderlo.
Ma dal Nord Italia partono tanti missionari sconosciuti, che fanno notizia solo se muoiono, religiosi o laici: vanno per il mondo, dove il mondo ha più bisogno, fanno quel che possono fare, senza nulla in cambio, se non la soddisfazione di annunciare il Vangelo e spendere bene il tempo e la vita. Sto dicendo: il Nord Italia, e specialmente il Lombardo-Veneto, quello che va spesso sulle cronache per notizie di egoismo, razzismo, ostilità agli immigrati, indifferenza. Gli episodi sono tanti, conditi magari da dichiarazioni di amministratori che fanno accapponar la pelle, e la nazione finisce per conoscere solo questo aspetto del Nord, ignora tanti altri aspetti, più grandiosi, che passano inosservati perché questo è il loro modo di realizzarsi. Non roviniamo gli autori di questi episodi chiamandoli per nome e infliggendogli una pubblicità che non gradiscono, ma parliamo di quel che fanno, per ricordare a tutti che dal Nord Italia parte anche tanto bene, verso il Mondo. Diciamolo, una volta per tutte.
Padre Tentorio è stato ucciso dopo aver celebrato una Messa. Come se la Messa fosse un furto o una rapina. Chi l’ha ucciso è giunto in motocicletta, nascosto dal casco. Dalla Sicilia al Terzo Mondo (e anche questo distrugge gli stereotipi) la criminalità adotta lo stesso stile, c’è una tecnica dell’omicidio per odio, che l’uomo impara senza studiarla, la scopre in sé. L’assassino è scappato da solo, in moto. La vittima è stata soccorsa da tutti, fino all’ospedale, a 30 chilometri. Il killer avrà un premio, se ha agito per compenso. E sparirà nel nulla. Il morto sarà ricordato per sempre.
Dal Nord partono continuamente religiosi e laici, vanno in India, in Africa, in Asia, a fare gratis quel che possono fare. Insegnanti, medici, costruttori. Nella mia città, Padova, c’è un centro da cui centinaia di medici vanno in Africa a curare, vaccinare, assistere nei parti, portare antibiotici, operare chirurgicamente. Quando partono, nessuno ne dà notizia; quando tornano, nessuno se n’accorge. Con gli anni, sono migliaia. Ne ho conosciuto alcuni. Il ricordo più alto della loro vita sta nella parola "abo", padre, con cui le bambine malate del Centro Africa li chiamano quando li vedono apparire. Qui vicino a me c’è una casa che ospita i comboniani al ritorno dall’Africa, ne ho conosciuto uno rientrato a ottant’anni, non aveva niente, aveva passato 60 anni a insegnare e costruire scuole e ospedali dall’Egitto al Sudafrica. Qui vicino c’è un collegio dove rientravano a curarsi due missionari, catturati in una rivolta africana, stavano per essere uccisi, si erano già confessati l’un con l’altro, quando uno dei rapitori li riconobbe e li lasciò andare. Un viaggio alla morte, andata e ritorno.
Nella città vicina, Vicenza, ho conosciuto un salesiano, che adesso ha superato gli ottant’anni, ha sempre vissuto in India, a insegnare gratis. Le madri facevano a gara perché i loro figli andassero nella sua classe. Malato più volte, più volte l’estrema unzione, ma è ancora lì, monumento vivente. Qui c’è un’associazione che manda i suoi in zone di guerra. Ne ho conosciuti che sono stati catturati, posti al muro, han sentito l’otturatore che spingeva la palla in canna, son vivi per miracolo. Ogni tanto càpitano in queste città missionari nel Terzo (e Quarto) Mondo, chiedono aiuti per ampliare un ospedale, alzare una scuola, salvare dalla malaria: restano qui una settimana, raccolgono quel che possono, e spariscono nel cuore delle tenebre. Parlate male del Nord, quando se lo merita. Anch’io lo faccio. Ma quando merita sguardi acuti e parole buone, non lesiniamoli. Per il Sud è la stessa cosa. Smettiamola con le caricature, guardiamo la realtà.
Ferdinando Camon
AVVENIRE, 19 ottobre 2011
Missionario ucciso, la «tristezza» del Papa
"La testimonianza di padre Fausto Tentorio è stata quella di un buon sacerdote, ardentemente credente, che per molti anni si è posto al servizio del popolo filippino in modo coraggioso e instancabile". È quanto si legge nel messaggio che il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inviato a nome di Papa Benedetto XVI all'arcivescovo Giuseppe Pinto, nunzio apostolico nelle Filippine, dopo l'uccisione del missionario italiano nell'isola di Mindanao. Il testo è riportato dall'Osservatore Romano. In un comunicato diffuso a Manila, monsignor Nereo Odchimar, vescovo di Tandag, in qualità di presidente della Conferenza episcopale delle Filippine, ha espresso, a nome di tutti i presuli del Paese, "tristezza e costernazione per l'uccisione di padre Fausto Tentorio" e ha esortato le autorità "a svolgere rapide indagini per identificare e porre in arresto quanti hanno partecipato al crimine". Inoltre ha esortato gli organi competenti "a predisporre le necessarie misure di sicurezza per quanti operano nell'ambito della Chiesa e, in particolare, per quei sacerdoti missionari che hanno lasciato il loro Paese per mettersi al completo servizio della nostra gente".
Il 25 ottobre i funerali a Mindanao
Sarà un’unità speciale della polizia filippina a indagare sull’omicidio a colpi di pistola di padre Fausto Tentorio nella sua parrocchia di Arakan, sull’isola di Mindanao. Il responsabile, il sovrintendente Lester Camba, ha spiegato che gli investigatori stanno cercando soprattutto testimoni. Al momento, sulle ragioni che hanno guidato lunedì la mano del killer a sparare al 59enne missionario italiano del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime) restano solo ipotesi.
Ieri nella capitale Manila, alcuni membri del movimento di sinistra Bayan (Popolo) hanno manifestato davanti al dipartimento della Giustizia per chiedere alle autorità indagini immediate e concrete. Il leader del gruppo, Carol Araullo, ha detto di essere convinto che padre Fausto Tentorio sia stato ucciso perché era «un alleato fedele» dei contadini e delle popolazioni indigene.
Era «un personaggio scomodo perché insegnava agli indigeni i loro diritti, accresceva la loro consapevolezza civile, li rendeva coscienti delle loro responsabilità e possibilità. Quest’opera aveva un riflesso soprattutto nelle dispute sulle terre che grandi compagnie minerarie o grandi latifondisti volevano espropriare agli indigeni», ha spiegato all’agenzia Fides il missionario spagnolo Angel Calvo, da 30 anni a Mindanao. A costare la vita al missionario italiano sarebbe stato quindi l’avere intralciato il controllo di «interessi di potenti e di lobby» sulle aree tribali. La Chiesa cattolica e i missionari a Mindanao, da sempre, appoggiano le rivendicazioni delle minoranze tribali della regione (lumad), richiamando al rispetto di leggi sovente inattuate, come quella sulla tutela delle aree protette nazionali e la legge sui diritti ancestrali dei popoli indigeni.
A confermare questa attenzione è stato diffuso ieri un messaggio dell’arcivescovo di Manila, monsignor Broderick Pabillo: «Il governo del presidente Benigno Aquino deve assumersi parte della responsabilità per la tragica morte di padre Fausto Tentorio – ha scritto Pabillo nel sito della Conferenza episcopale filippina – perché ha fallito nel fermare la cultura di impunità che è alla base di questi omicidi».
A portare la denuncia delle attività minerarie e altri progetti di industrializzazione, centrali a carbone o agricoltura su vasta scala nelle terre ancestrali, lo scorso aprile era stata una conferenza di oltre 100 leader tribali di Mindanao. Un raduno che aveva sottolineato come iniziative «di sviluppo» davano, in realtà, ampi profitti a imprese straniere, «distruggendo l’ambiente, la cultura e la vita dei lumad». Alla conferenza erano presenti anche i leader dei gruppi Ata-Manobo e Manobo, cui padre Tentorio aveva dedicato buona parte del suo apostolato a Mindanao. I funerali del sacerdote ucciso si svolgeranno il 25 ottobre, nella sede episcopale di Kidapawan.
Stefano Vecchia
Avvenire, 19 ottobre 2011
Ucciso davanti alla sua chiesa in una remota area dell’isola di Mindanao. Padre Fausto Tentorio è l’ultimo a cadere fra gli esponenti di una Chiesa e di una missione che continua nell’impegno al fianco degli ultimi. Uomini drammaticamente testimoni e vittime di una situazione di violenza e insicurezza endemica che nelle Filippine sembra sfuggire a ogni regola.
Due uomini in motocicletta con il casco, uno scende con in mano una pistola e spara in rapida successione alcuni colpi. Il bersaglio cade colpito al capo e alla schiena. Questa, secondo le prime testimonianze, la ricostruzione dell’omicidio. Uno dei tanti nelle Filippine senza pace e spesso senza legge, ma a cadere sotto i colpi dell’assassino questa volta non è un imprenditore durante un tentativo di sequestro, oppure un oppositore politico, un attivista sociale o un giornalista. Questa volta è toccato a padre Fasto Tentorio, 59enne missionario del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), brianzolo di nascita ma da trent’anni nell’arcipelago asiatico.
Ieri mattina, dopo la Messa nella sua parrocchia di Arakan, in un’area montana della provincia di North Cotabato, sull’isola di Mindanao, padre Tentorio stava per salire sulla sua auto per recarsi come ogni lunedì alla riunione del presbiterio di Kidapawan, quando è stato avvicinato dal killer che gli ha sparato con una pistola. I fedeli che si trovavano all’interno della struttura parrocchiale hanno sentito gli spari e sono usciti in tempo per vedere un uomo col casco scappare verso una moto che si è allontanata. Inutile la corsa di trenta chilometri di strada di montagna all’ospedale di Antipas dove il missionario è arrivato già cadavere.
Contro il parere dello stesso vescovo di Kidapawan, la diocesi che include vaste aree di difficile accesso anche per gli operatori ecclesiali, tra cui Arakan, gli stessi parrocchiani di padre Tentorio ne hanno riportato indietro la salma per la veglia funebre. A sera pure i ribelli del Fronte islamico di liberazione del Moro hanno condannato l’agguato.
Il missionario italiano era nelle Filippine dal 1978, dal 1985 nella «sua» missione dell’Arakan dove, ricorda il superiore del Pime nelle Filippine, padre Giulio Mariani, «da più di 30 anni faceva un lavoro magnifico, era amato da tutti». Non privo di rischi personali, però. Come specificato da padre Mariani, nel 2003 il missionario del Pime era sfuggito a un tentativo di sequestro: «Ha sempre lavorato nella zona abitata da emarginati, tribali filippini, musulmani. Era molto apprezzato. Forse ha pestato i piedi a qualcuno, ma non sappiamo ancora. La sua era una missione delicata perché quando hai a che fare con emarginazione e povertà sei destinato a dare fastidio».
AVVENIRE, 17 OTTOBRE 2011
La semplicità evangelica che arriva fino al martirio
«Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione». In queste parole di “Porta fidei” – la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della Fede – c’è il ritratto di padre Fausto Tentorio, il missionario del Pime ucciso domenica, nell’ormai tristemente famosa isola filippina di Mindanao.
Qualcuno ci vedrà semplici coincidenze, ma a noi piace osservare che la sua morte è avvenuta a poche ore dalla pubblicazione del documento col quale il Papa rilancia con forza l’urgenza dell’evangelizzazione a 360 gradi e a una settimana esatta dalla Giornata missionaria mondiale, che si celebra domenica prossima.
Conoscevo padre Fausto Tentorio. L’ultima volta l’ho incontrato due anni fa a Kidapawan, presso la sede della diocesi cui apparteneva. Con quella faccia da eterno ragazzo, pur alle prese con un’inesorabile calvizie (che amava nascondere sotto coloratissime bandane), mi aveva raccontato della quotidianità della sua missione, dei lunghi e faticosi viaggi in moto e jeep su strade a dir poco precarie; mi aveva detto delle visite ai villaggi sperduti, del tentativo di organizzare i "suoi" tribali manobo per difenderne i diritti. Si appassionava, parlando di loro, lui che – per il resto – era piuttosto schivo nel raccontare di sé.
Se c’è un tratto, infatti, che colpiva di padre Fausto è proprio la «semplicità evangelica» di cui parla Benedetto XVI. Da buon brianzolo, era un uomo concreto: non amava mettersi in mostra, per lui l’importante era mostrare, con le opere più che con le parole, che un’autentica liberazione dall’oppressione è possibile, per chi si mette alla scuola del Vangelo.
Aveva trovato nell’Arakan Valley, una località sperduta di Mindanao, il luogo dove testimoniare la sua passione per Cristo e dove provare a costruire una risposta evangelicamente alternativa all’economia dello sfruttamento e dell’ingordigia.
Dopo lunghi anni di servizio gomito a gomito con i tribali del luogo, era riuscito a formare e organizzare le piccole comunità manobo, disperse tra colline e montagne. Sapeva bene che tale impegno significava dare fastidio. Il suo anziano confratello Peter Geremia – che per anni si è dedicato alla causa dei tribali, sfidando anche autorità e tribunali – nel passargli il testimone l’aveva messo in guardia: perseguire la giustizia, in un contesto arroventato come quello, vuol dire fronteggiare interessi nemmeno troppo occulti, poteri davvero forti. E soprattutto passare, inevitabilmente, per guastafeste. Perché chi vorrebbe portar via le terre ancestrali ai loro legittimi possessori non va molto per il sottile, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo.
Padre Tentorio ne era ben consapevole: qualche anno fa era sfuggito alle minacce di un gruppo armato, nascondendosi. Così come sapeva che, nelle cattolicissime Filippine, numerosi missionari (confratelli del Pime e non solo) hanno pagato con la vita, negli ultimi anni, la loro testimonianza di fede autentica e carità disinteressata. Non era un eroe in cerca di gloria, ma nemmeno un ingenuo ignaro di quale angolo difficile del pianeta gli fosse stato assegnato.
E tuttavia la vita di padre Fausto si è conclusa nel segno del martirio. Un martirio inutile, agli occhi di qualcuno. Chi ha fede, però, sa che quel sangue non è stato versato invano, ma ha suggellato, lì a Kidapawan come sempre altrove, l’amicizia esigente tra Cristo e il suo popolo.
Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011
Padre Benedetti: «Paghiamo questo prezzo per testimoniare il Vangelo»
«Con l’uccisione di padre Fausto, il Pime ancora una volta paga, a prezzo del sangue, la testimonianza dei suoi missionari nei diversi ambiti in cui è impegnato nelle Filippine. Oggi è la volta del lavoro in difesa dei tribali e dei loro diritti. In passato è stato il dialogo con l’islam (costato la vita a padre Salvatore Carzedda nel 1992), in precedenza il lavoro nelle comunità cristiane di base, colpito duramente con l’eliminazione di padre Tullio Favali nel 1985».
Padre Luciano Benedetti, classe 1944, originario di Faenza, da pochi mesi rientrato in Italia, ha dedicato quasi totalmente il suo impegno missionario alle Filippine, anch’egli nelle file del Pime. Nel 1998 è stato rapito per 68 giorni da un «commando» di fondamentalisti musulmani.
Conosceva bene padre Fausto?
Sì, eravamo amici. In seminario avevamo dormito nella stessa camera. Poi nel 1978 la partenza insieme, alla volta delle Filippine, dove le nostre strade si sono divise. Padre Fausto, infatti, nel 1982 si è recato a Kidapawan, insieme ad altri del Pime, per aprire una nuova missione nell’Arakan Valley: una zona abitata da tribali, con alcune comunità cristiane molto isolate e, dal punto di vista naturalistico, incontaminata.
Quello per i tribali e la loro «causa» è sempre stato l’impegno prioritario di padre Fausto?
Sì. Quando era a Columbio nel 1984 per imparare la lingua, ha passato i primi sei mesi in un villaggio tribale e lì hanno sparato due proiettili contro casa sua. Perché? Quando cominci a interessarti dei bisogni dei tribali e ti prendi a cuore la loro situazione, crei problemi, diventi un troublemaker («rompiscatole»).
Il Pime è arrivato nelle Filippine nel 1968. Fin dai primi anni si è rivelata una missione tutt’altro che facile. Negli ultimi anni, poi, s’è aggiunto l’estremismo islamico...
Già nel 1977 tre missionari del Pime, attivi a Manila, sono stati espulsi a motivo del loro impegno sociale. Negli anni successivi molti confratelli hanno vissuto l’esperienza delle minacce di morte o di rapimento. Io stesso sono stato rapito e nel 2007 lo stesso è accaduto a padre Giancarlo Bossi. Padre Fausto, nel 2003 era già stato oggetto di un tentativo di rapimento (fortunatamente senza conseguenze). Forse proprio in quell’occasione è nato il progetto di eliminarlo. Due anni fa una lettera di minaccia lo aveva costretto a far ritorno per alcuni mesi in Italia per precauzione. Poi era ripartito, la situazione sembrava normalizzata: l’ho incontrato a un ritiro nell’agosto di quest’anno e in quell’occasione non ha mostrato preoccupazioni particolari.
Padre Benedetti, scorrendo la lista degli uccisi o rapiti nelle Filippine qualcuno potrebbe pensare ai missionari come a sprovveduti che mettono a repentaglio la vita in zone che sanno essere pericolose oppure come «eroi» che vanno a caccia del martirio. È così?
No, nessuno vuol fare l’eroe. Ci siamo posti ripetutamente il problema della sicurezza e adottiamo una serie di precauzioni. Certo, quando si finisce nel mirino queste potrebbero non bastare. In ogni caso, tutte le volte che qualcuno di noi capisce che si sta raggiungendo il «livello di guardia» cambiamo aria, ci spostiamo. Per tutelare la gente del posto, oltre che la missione nel suo complesso. Il problema è che il nostro lavoro ci costringe spesso ad operare da soli, in luoghi isolati.
Perché il Pime è rimasto e rimarrà, nonostante tutto, nelle Filippine?
Perché ce lo chiede la missione. Testimoniare il Vangelo comporta affrontare dei rischi. Abbiamo fatto una promessa anche alla nostra gente e dobbiamo essere fedeli al popolo che ci è stato affidato.
Dove sarà sepolto padre Fausto?
Non lo so. So dove lui vorrebbe essere tumulato: in una località suggestiva, a circa 6-700 metri d’altezza, nella «sua» Arakan Valley. L’aveva confidato ai suoi amici.
Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011
Il bene non fa rumore ma merita di essere riconosciuto
Era del Nord Italia, esattamente della provincia di Lecco, il missionario padre Fausto Tentorio, ucciso nell’isola filippina di Mindanao. Là faceva tutto il bene che poteva. Un sicario (non il popolo, non la gente, che l’amava) gli ha fatto tutto il male che poteva. Lo citiamo per nome, perché in questo momento il suo nome sta su tutti i giornali, impossibile nasconderlo.
Ma dal Nord Italia partono tanti missionari sconosciuti, che fanno notizia solo se muoiono, religiosi o laici: vanno per il mondo, dove il mondo ha più bisogno, fanno quel che possono fare, senza nulla in cambio, se non la soddisfazione di annunciare il Vangelo e spendere bene il tempo e la vita. Sto dicendo: il Nord Italia, e specialmente il Lombardo-Veneto, quello che va spesso sulle cronache per notizie di egoismo, razzismo, ostilità agli immigrati, indifferenza. Gli episodi sono tanti, conditi magari da dichiarazioni di amministratori che fanno accapponar la pelle, e la nazione finisce per conoscere solo questo aspetto del Nord, ignora tanti altri aspetti, più grandiosi, che passano inosservati perché questo è il loro modo di realizzarsi. Non roviniamo gli autori di questi episodi chiamandoli per nome e infliggendogli una pubblicità che non gradiscono, ma parliamo di quel che fanno, per ricordare a tutti che dal Nord Italia parte anche tanto bene, verso il Mondo. Diciamolo, una volta per tutte.
Padre Tentorio è stato ucciso dopo aver celebrato una Messa. Come se la Messa fosse un furto o una rapina. Chi l’ha ucciso è giunto in motocicletta, nascosto dal casco. Dalla Sicilia al Terzo Mondo (e anche questo distrugge gli stereotipi) la criminalità adotta lo stesso stile, c’è una tecnica dell’omicidio per odio, che l’uomo impara senza studiarla, la scopre in sé. L’assassino è scappato da solo, in moto. La vittima è stata soccorsa da tutti, fino all’ospedale, a 30 chilometri. Il killer avrà un premio, se ha agito per compenso. E sparirà nel nulla. Il morto sarà ricordato per sempre.
Dal Nord partono continuamente religiosi e laici, vanno in India, in Africa, in Asia, a fare gratis quel che possono fare. Insegnanti, medici, costruttori. Nella mia città, Padova, c’è un centro da cui centinaia di medici vanno in Africa a curare, vaccinare, assistere nei parti, portare antibiotici, operare chirurgicamente. Quando partono, nessuno ne dà notizia; quando tornano, nessuno se n’accorge. Con gli anni, sono migliaia. Ne ho conosciuto alcuni. Il ricordo più alto della loro vita sta nella parola "abo", padre, con cui le bambine malate del Centro Africa li chiamano quando li vedono apparire. Qui vicino a me c’è una casa che ospita i comboniani al ritorno dall’Africa, ne ho conosciuto uno rientrato a ottant’anni, non aveva niente, aveva passato 60 anni a insegnare e costruire scuole e ospedali dall’Egitto al Sudafrica. Qui vicino c’è un collegio dove rientravano a curarsi due missionari, catturati in una rivolta africana, stavano per essere uccisi, si erano già confessati l’un con l’altro, quando uno dei rapitori li riconobbe e li lasciò andare. Un viaggio alla morte, andata e ritorno.
Nella città vicina, Vicenza, ho conosciuto un salesiano, che adesso ha superato gli ottant’anni, ha sempre vissuto in India, a insegnare gratis. Le madri facevano a gara perché i loro figli andassero nella sua classe. Malato più volte, più volte l’estrema unzione, ma è ancora lì, monumento vivente. Qui c’è un’associazione che manda i suoi in zone di guerra. Ne ho conosciuti che sono stati catturati, posti al muro, han sentito l’otturatore che spingeva la palla in canna, son vivi per miracolo. Ogni tanto càpitano in queste città missionari nel Terzo (e Quarto) Mondo, chiedono aiuti per ampliare un ospedale, alzare una scuola, salvare dalla malaria: restano qui una settimana, raccolgono quel che possono, e spariscono nel cuore delle tenebre. Parlate male del Nord, quando se lo merita. Anch’io lo faccio. Ma quando merita sguardi acuti e parole buone, non lesiniamoli. Per il Sud è la stessa cosa. Smettiamola con le caricature, guardiamo la realtà.
Ferdinando Camon
AVVENIRE, 19 ottobre 2011
Missionario ucciso, la «tristezza» del Papa
"La testimonianza di padre Fausto Tentorio è stata quella di un buon sacerdote, ardentemente credente, che per molti anni si è posto al servizio del popolo filippino in modo coraggioso e instancabile". È quanto si legge nel messaggio che il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inviato a nome di Papa Benedetto XVI all'arcivescovo Giuseppe Pinto, nunzio apostolico nelle Filippine, dopo l'uccisione del missionario italiano nell'isola di Mindanao. Il testo è riportato dall'Osservatore Romano. In un comunicato diffuso a Manila, monsignor Nereo Odchimar, vescovo di Tandag, in qualità di presidente della Conferenza episcopale delle Filippine, ha espresso, a nome di tutti i presuli del Paese, "tristezza e costernazione per l'uccisione di padre Fausto Tentorio" e ha esortato le autorità "a svolgere rapide indagini per identificare e porre in arresto quanti hanno partecipato al crimine". Inoltre ha esortato gli organi competenti "a predisporre le necessarie misure di sicurezza per quanti operano nell'ambito della Chiesa e, in particolare, per quei sacerdoti missionari che hanno lasciato il loro Paese per mettersi al completo servizio della nostra gente".
Il 25 ottobre i funerali a Mindanao
Sarà un’unità speciale della polizia filippina a indagare sull’omicidio a colpi di pistola di padre Fausto Tentorio nella sua parrocchia di Arakan, sull’isola di Mindanao. Il responsabile, il sovrintendente Lester Camba, ha spiegato che gli investigatori stanno cercando soprattutto testimoni. Al momento, sulle ragioni che hanno guidato lunedì la mano del killer a sparare al 59enne missionario italiano del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime) restano solo ipotesi.
Ieri nella capitale Manila, alcuni membri del movimento di sinistra Bayan (Popolo) hanno manifestato davanti al dipartimento della Giustizia per chiedere alle autorità indagini immediate e concrete. Il leader del gruppo, Carol Araullo, ha detto di essere convinto che padre Fausto Tentorio sia stato ucciso perché era «un alleato fedele» dei contadini e delle popolazioni indigene.
Era «un personaggio scomodo perché insegnava agli indigeni i loro diritti, accresceva la loro consapevolezza civile, li rendeva coscienti delle loro responsabilità e possibilità. Quest’opera aveva un riflesso soprattutto nelle dispute sulle terre che grandi compagnie minerarie o grandi latifondisti volevano espropriare agli indigeni», ha spiegato all’agenzia Fides il missionario spagnolo Angel Calvo, da 30 anni a Mindanao. A costare la vita al missionario italiano sarebbe stato quindi l’avere intralciato il controllo di «interessi di potenti e di lobby» sulle aree tribali. La Chiesa cattolica e i missionari a Mindanao, da sempre, appoggiano le rivendicazioni delle minoranze tribali della regione (lumad), richiamando al rispetto di leggi sovente inattuate, come quella sulla tutela delle aree protette nazionali e la legge sui diritti ancestrali dei popoli indigeni.
A confermare questa attenzione è stato diffuso ieri un messaggio dell’arcivescovo di Manila, monsignor Broderick Pabillo: «Il governo del presidente Benigno Aquino deve assumersi parte della responsabilità per la tragica morte di padre Fausto Tentorio – ha scritto Pabillo nel sito della Conferenza episcopale filippina – perché ha fallito nel fermare la cultura di impunità che è alla base di questi omicidi».
A portare la denuncia delle attività minerarie e altri progetti di industrializzazione, centrali a carbone o agricoltura su vasta scala nelle terre ancestrali, lo scorso aprile era stata una conferenza di oltre 100 leader tribali di Mindanao. Un raduno che aveva sottolineato come iniziative «di sviluppo» davano, in realtà, ampi profitti a imprese straniere, «distruggendo l’ambiente, la cultura e la vita dei lumad». Alla conferenza erano presenti anche i leader dei gruppi Ata-Manobo e Manobo, cui padre Tentorio aveva dedicato buona parte del suo apostolato a Mindanao. I funerali del sacerdote ucciso si svolgeranno il 25 ottobre, nella sede episcopale di Kidapawan.
Stefano Vecchia
Avvenire, 19 ottobre 2011
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