La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

18 ottobre 2011

Testimonianza Missionaria 7: "Padre Fausto Tentorio, missionario PIME nelle Filippine"

Ucciso Fausto, l’amico dei tribali


Ucciso davanti alla sua chiesa in una remota area dell’isola di Mindanao. Padre Fausto Tentorio è l’ultimo a cadere fra gli esponenti di una Chiesa e di una missione che continua nell’impegno al fianco degli ultimi. Uomini drammaticamente testimoni e vittime di una situazione di violenza e insicurezza endemica che nelle Filippine sembra sfuggire a ogni regola.
Due uomini in motocicletta con il casco, uno scende con in mano una pistola e spara in rapida successione alcuni colpi. Il bersaglio cade colpito al capo e alla schiena. Questa, secondo le prime testimonianze, la ricostruzione dell’omicidio. Uno dei tanti nelle Filippine senza pace e spesso senza legge, ma a cadere sotto i colpi dell’assassino questa volta non è un imprenditore durante un tentativo di sequestro, oppure un oppositore politico, un attivista sociale o un giornalista. Questa volta è toccato a padre Fasto Tentorio, 59enne missionario del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime), brianzolo di nascita ma da trent’anni nell’arcipelago asiatico.
Ieri mattina, dopo la Messa nella sua parrocchia di Arakan, in un’area montana della provincia di North Cotabato, sull’isola di Mindanao, padre Tentorio stava per salire sulla sua auto per recarsi come ogni lunedì alla riunione del presbiterio di Kidapawan, quando è stato avvicinato dal killer che gli ha sparato con una pistola. I fedeli che si trovavano all’interno della struttura parrocchiale hanno sentito gli spari e sono usciti in tempo per vedere un uomo col casco scappare verso una moto che si è allontanata. Inutile la corsa di trenta chilometri di strada di montagna all’ospedale di Antipas dove il missionario è arrivato già cadavere.
Contro il parere dello stesso vescovo di Kidapawan, la diocesi che include vaste aree di difficile accesso anche per gli operatori ecclesiali, tra cui Arakan, gli stessi parrocchiani di padre Tentorio ne hanno riportato indietro la salma per la veglia funebre. A sera pure i ribelli del Fronte islamico di liberazione del Moro hanno condannato l’agguato.
Il missionario italiano era nelle Filippine dal 1978, dal 1985 nella «sua» missione dell’Arakan dove, ricorda il superiore del Pime nelle Filippine, padre Giulio Mariani, «da più di 30 anni faceva un lavoro magnifico, era amato da tutti». Non privo di rischi personali, però. Come specificato da padre Mariani, nel 2003 il missionario del Pime era sfuggito a un tentativo di sequestro: «Ha sempre lavorato nella zona abitata da emarginati, tribali filippini, musulmani. Era molto apprezzato. Forse ha pestato i piedi a qualcuno, ma non sappiamo ancora. La sua era una missione delicata perché quando hai a che fare con emarginazione e povertà sei destinato a dare fastidio».

AVVENIRE, 17 OTTOBRE 2011



La semplicità evangelica che arriva fino al martirio

«Per fede uomini e donne hanno consacrato la loro vita a Cristo, lasciando ogni cosa per vivere in semplicità evangelica l’obbedienza, la povertà e la castità. Per fede tanti cristiani hanno promosso un’azione a favore della giustizia per rendere concreta la parola del Signore, venuto ad annunciare la liberazione dall’oppressione». In queste parole di “Porta fidei” – la Lettera apostolica di Benedetto XVI per l’indizione dell’Anno della Fede – c’è il ritratto di padre Fausto Tentorio, il missionario del Pime ucciso domenica, nell’ormai tristemente famosa isola filippina di Mindanao.
Qualcuno ci vedrà semplici coincidenze, ma a noi piace osservare che la sua morte è avvenuta a poche ore dalla pubblicazione del documento col quale il Papa rilancia con forza l’urgenza dell’evangelizzazione a 360 gradi e a una settimana esatta dalla Giornata missionaria mondiale, che si celebra domenica prossima.

Conoscevo padre Fausto Tentorio. L’ultima volta l’ho incontrato due anni fa a Kidapawan, presso la sede della diocesi cui apparteneva. Con quella faccia da eterno ragazzo, pur alle prese con un’inesorabile calvizie (che amava nascondere sotto coloratissime bandane), mi aveva raccontato della quotidianità della sua missione, dei lunghi e faticosi viaggi in moto e jeep su strade a dir poco precarie; mi aveva detto delle visite ai villaggi sperduti, del tentativo di organizzare i "suoi" tribali manobo per difenderne i diritti. Si appassionava, parlando di loro, lui che – per il resto – era piuttosto schivo nel raccontare di sé.
Se c’è un tratto, infatti, che colpiva di padre Fausto è proprio la «semplicità evangelica» di cui parla Benedetto XVI. Da buon brianzolo, era un uomo concreto: non amava mettersi in mostra, per lui l’importante era mostrare, con le opere più che con le parole, che un’autentica liberazione dall’oppressione è possibile, per chi si mette alla scuola del Vangelo.
Aveva trovato nell’Arakan Valley, una località sperduta di Mindanao, il luogo dove testimoniare la sua passione per Cristo e dove provare a costruire una risposta evangelicamente alternativa all’economia dello sfruttamento e dell’ingordigia.
Dopo lunghi anni di servizio gomito a gomito con i tribali del luogo, era riuscito a formare e organizzare le piccole comunità manobo, disperse tra colline e montagne. Sapeva bene che tale impegno significava dare fastidio. Il suo anziano confratello Peter Geremia – che per anni si è dedicato alla causa dei tribali, sfidando anche autorità e tribunali – nel passargli il testimone l’aveva messo in guardia: perseguire la giustizia, in un contesto arroventato come quello, vuol dire fronteggiare interessi nemmeno troppo occulti, poteri davvero forti. E soprattutto passare, inevitabilmente, per guastafeste. Perché chi vorrebbe portar via le terre ancestrali ai loro legittimi possessori non va molto per il sottile, quando si tratta di raggiungere l’obiettivo.
Padre Tentorio ne era ben consapevole: qualche anno fa era sfuggito alle minacce di un gruppo armato, nascondendosi. Così come sapeva che, nelle cattolicissime Filippine, numerosi missionari (confratelli del Pime e non solo) hanno pagato con la vita, negli ultimi anni, la loro testimonianza di fede autentica e carità disinteressata. Non era un eroe in cerca di gloria, ma nemmeno un ingenuo ignaro di quale angolo difficile del pianeta gli fosse stato assegnato.
E tuttavia la vita di padre Fausto si è conclusa nel segno del martirio. Un martirio inutile, agli occhi di qualcuno. Chi ha fede, però, sa che quel sangue non è stato versato invano, ma ha suggellato, lì a Kidapawan come sempre altrove, l’amicizia esigente tra Cristo e il suo popolo.

Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011



Padre Benedetti: «Paghiamo questo prezzo per testimoniare il Vangelo»

«Con l’uccisione di padre Fausto, il Pime ancora una volta paga, a prezzo del sangue, la testimonianza dei suoi missionari nei diversi ambiti in cui è impegnato nelle Filippine. Oggi è la volta del lavoro in difesa dei tribali e dei loro diritti. In passato è stato il dialogo con l’islam (costato la vita a padre Salvatore Carzedda nel 1992), in precedenza il lavoro nelle comunità cristiane di base, colpito duramente con l’eliminazione di padre Tullio Favali nel 1985».
Padre Luciano Benedetti, classe 1944, originario di Faenza, da pochi mesi rientrato in Italia, ha dedicato quasi totalmente il suo impegno missionario alle Filippine, anch’egli nelle file del Pime. Nel 1998 è stato rapito per 68 giorni da un «commando» di fondamentalisti musulmani.
Conosceva bene padre Fausto?
Sì, eravamo amici. In seminario avevamo dormito nella stessa camera. Poi nel 1978 la partenza insieme, alla volta delle Filippine, dove le nostre strade si sono divise. Padre Fausto, infatti, nel 1982 si è recato a Kidapawan, insieme ad altri del Pime, per aprire una nuova missione nell’Arakan Valley: una zona abitata da tribali, con alcune comunità cristiane molto isolate e, dal punto di vista naturalistico, incontaminata.
Quello per i tribali e la loro «causa» è sempre stato l’impegno prioritario di padre Fausto?
Sì. Quando era a Columbio nel 1984 per imparare la lingua, ha passato i primi sei mesi in un villaggio tribale e lì hanno sparato due proiettili contro casa sua. Perché? Quando cominci a interessarti dei bisogni dei tribali e ti prendi a cuore la loro situazione, crei problemi, diventi un troublemaker («rompiscatole»).
Il Pime è arrivato nelle Filippine nel 1968. Fin dai primi anni si è rivelata una missione tutt’altro che facile. Negli ultimi anni, poi, s’è aggiunto l’estremismo islamico...
Già nel 1977 tre missionari del Pime, attivi a Manila, sono stati espulsi a motivo del loro impegno sociale. Negli anni successivi molti confratelli hanno vissuto l’esperienza delle minacce di morte o di rapimento. Io stesso sono stato rapito e nel 2007 lo stesso è accaduto a padre Giancarlo Bossi. Padre Fausto, nel 2003 era già stato oggetto di un tentativo di rapimento (fortunatamente senza conseguenze). Forse proprio in quell’occasione è nato il progetto di eliminarlo. Due anni fa una lettera di minaccia lo aveva costretto a far ritorno per alcuni mesi in Italia per precauzione. Poi era ripartito, la situazione sembrava normalizzata: l’ho incontrato a un ritiro nell’agosto di quest’anno e in quell’occasione non ha mostrato preoccupazioni particolari.
Padre Benedetti, scorrendo la lista degli uccisi o rapiti nelle Filippine qualcuno potrebbe pensare ai missionari come a sprovveduti che mettono a repentaglio la vita in zone che sanno essere pericolose oppure come «eroi» che vanno a caccia del martirio. È così?
No, nessuno vuol fare l’eroe. Ci siamo posti ripetutamente il problema della sicurezza e adottiamo una serie di precauzioni. Certo, quando si finisce nel mirino queste potrebbero non bastare. In ogni caso, tutte le volte che qualcuno di noi capisce che si sta raggiungendo il «livello di guardia» cambiamo aria, ci spostiamo. Per tutelare la gente del posto, oltre che la missione nel suo complesso. Il problema è che il nostro lavoro ci costringe spesso ad operare da soli, in luoghi isolati.
Perché il Pime è rimasto e rimarrà, nonostante tutto, nelle Filippine?
Perché ce lo chiede la missione. Testimoniare il Vangelo comporta affrontare dei rischi. Abbiamo fatto una promessa anche alla nostra gente e dobbiamo essere fedeli al popolo che ci è stato affidato.
Dove sarà sepolto padre Fausto?
Non lo so. So dove lui vorrebbe essere tumulato: in una località suggestiva, a circa 6-700 metri d’altezza, nella «sua» Arakan Valley. L’aveva confidato ai suoi amici.

Gerolamo Fazzini
AVVENIRE, 18 OTTOBRE 2011


Il bene non fa rumore ma merita di essere riconosciuto

Era del Nord Italia, esattamente della provincia di Lecco, il missionario padre Fausto Tentorio, ucciso nell’isola filippina di Mindanao. Là faceva tutto il bene che poteva. Un sicario (non il popolo, non la gente, che l’amava) gli ha fatto tutto il male che poteva. Lo citiamo per nome, perché in questo momento il suo nome sta su tutti i giornali, impossibile nasconderlo.
Ma dal Nord Italia partono tanti missionari sconosciuti, che fanno notizia solo se muoiono, religiosi o laici: vanno per il mondo, dove il mondo ha più bisogno, fanno quel che possono fare, senza nulla in cambio, se non la soddisfazione di annunciare il Vangelo e spendere bene il tempo e la vita. Sto dicendo: il Nord Italia, e specialmente il Lombardo-Veneto, quello che va spesso sulle cronache per notizie di egoismo, razzismo, ostilità agli immigrati, indifferenza. Gli episodi sono tanti, conditi magari da dichiarazioni di amministratori che fanno accapponar la pelle, e la nazione finisce per conoscere solo questo aspetto del Nord, ignora tanti altri aspetti, più grandiosi, che passano inosservati perché questo è il loro modo di realizzarsi. Non roviniamo gli autori di questi episodi chiamandoli per nome e infliggendogli una pubblicità che non gradiscono, ma parliamo di quel che fanno, per ricordare a tutti che dal Nord Italia parte anche tanto bene, verso il Mondo. Diciamolo, una volta per tutte.
Padre Tentorio è stato ucciso dopo aver celebrato una Messa. Come se la Messa fosse un furto o una rapina. Chi l’ha ucciso è giunto in motocicletta, nascosto dal casco. Dalla Sicilia al Terzo Mondo (e anche questo distrugge gli stereotipi) la criminalità adotta lo stesso stile, c’è una tecnica dell’omicidio per odio, che l’uomo impara senza studiarla, la scopre in sé. L’assassino è scappato da solo, in moto. La vittima è stata soccorsa da tutti, fino all’ospedale, a 30 chilometri. Il killer avrà un premio, se ha agito per compenso. E sparirà nel nulla. Il morto sarà ricordato per sempre.
Dal Nord partono continuamente religiosi e laici, vanno in India, in Africa, in Asia, a fare gratis quel che possono fare. Insegnanti, medici, costruttori. Nella mia città, Padova, c’è un centro da cui centinaia di medici vanno in Africa a curare, vaccinare, assistere nei parti, portare antibiotici, operare chirurgicamente. Quando partono, nessuno ne dà notizia; quando tornano, nessuno se n’accorge. Con gli anni, sono migliaia. Ne ho conosciuto alcuni. Il ricordo più alto della loro vita sta nella parola "abo", padre, con cui le bambine malate del Centro Africa li chiamano quando li vedono apparire. Qui vicino a me c’è una casa che ospita i comboniani al ritorno dall’Africa, ne ho conosciuto uno rientrato a ottant’anni, non aveva niente, aveva passato 60 anni a insegnare e costruire scuole e ospedali dall’Egitto al Sudafrica. Qui vicino c’è un collegio dove rientravano a curarsi due missionari, catturati in una rivolta africana, stavano per essere uccisi, si erano già confessati l’un con l’altro, quando uno dei rapitori li riconobbe e li lasciò andare. Un viaggio alla morte, andata e ritorno.
Nella città vicina, Vicenza, ho conosciuto un salesiano, che adesso ha superato gli ottant’anni, ha sempre vissuto in India, a insegnare gratis. Le madri facevano a gara perché i loro figli andassero nella sua classe. Malato più volte, più volte l’estrema unzione, ma è ancora lì, monumento vivente. Qui c’è un’associazione che manda i suoi in zone di guerra. Ne ho conosciuti che sono stati catturati, posti al muro, han sentito l’otturatore che spingeva la palla in canna, son vivi per miracolo. Ogni tanto càpitano in queste città missionari nel Terzo (e Quarto) Mondo, chiedono aiuti per ampliare un ospedale, alzare una scuola, salvare dalla malaria: restano qui una settimana, raccolgono quel che possono, e spariscono nel cuore delle tenebre. Parlate male del Nord, quando se lo merita. Anch’io lo faccio. Ma quando merita sguardi acuti e parole buone, non lesiniamoli. Per il Sud è la stessa cosa. Smettiamola con le caricature, guardiamo la realtà.

Ferdinando Camon
AVVENIRE, 19 ottobre 2011


Missionario ucciso, la «tristezza» del Papa

"La testimonianza di padre Fausto Tentorio è stata quella di un buon sacerdote, ardentemente credente, che per molti anni si è posto al servizio del popolo filippino in modo coraggioso e instancabile". È quanto si legge nel messaggio che il cardinale segretario di Stato, Tarcisio Bertone, ha inviato a nome di Papa Benedetto XVI all'arcivescovo Giuseppe Pinto, nunzio apostolico nelle Filippine, dopo l'uccisione del missionario italiano nell'isola di Mindanao. Il testo è riportato dall'Osservatore Romano. In un comunicato diffuso a Manila, monsignor Nereo Odchimar, vescovo di Tandag, in qualità di presidente della Conferenza episcopale delle Filippine, ha espresso, a nome di tutti i presuli del Paese, "tristezza e costernazione per l'uccisione di padre Fausto Tentorio" e ha esortato le autorità "a svolgere rapide indagini per identificare e porre in arresto quanti hanno partecipato al crimine". Inoltre ha esortato gli organi competenti "a predisporre le necessarie misure di sicurezza per quanti operano nell'ambito della Chiesa e, in particolare, per quei sacerdoti missionari che hanno lasciato il loro Paese per mettersi al completo servizio della nostra gente".


Il 25 ottobre i funerali a Mindanao

Sarà un’unità speciale della polizia filippina a indagare sull’omicidio a colpi di pistola di padre Fausto Tentorio nella sua parrocchia di Arakan, sull’isola di Mindanao. Il responsabile, il sovrintendente Lester Camba, ha spiegato che gli investigatori stanno cercando soprattutto testimoni. Al momento, sulle ragioni che hanno guidato lunedì la mano del killer a sparare al 59enne missionario italiano del Pontificio Istituto per le Missioni Estere (Pime) restano solo ipotesi.
Ieri nella capitale Manila, alcuni membri del movimento di sinistra Bayan (Popolo) hanno manifestato davanti al dipartimento della Giustizia per chiedere alle autorità indagini immediate e concrete. Il leader del gruppo, Carol Araullo, ha detto di essere convinto che padre Fausto Tentorio sia stato ucciso perché era «un alleato fedele» dei contadini e delle popolazioni indigene.
Era «un personaggio scomodo perché insegnava agli indigeni i loro diritti, accresceva la loro consapevolezza civile, li rendeva coscienti delle loro responsabilità e possibilità. Quest’opera aveva un riflesso soprattutto nelle dispute sulle terre che grandi compagnie minerarie o grandi latifondisti volevano espropriare agli indigeni», ha spiegato all’agenzia Fides il missionario spagnolo Angel Calvo, da 30 anni a Mindanao. A costare la vita al missionario italiano sarebbe stato quindi l’avere intralciato il controllo di «interessi di potenti e di lobby» sulle aree tribali. La Chiesa cattolica e i missionari a Mindanao, da sempre, appoggiano le rivendicazioni delle minoranze tribali della regione (lumad), richiamando al rispetto di leggi sovente inattuate, come quella sulla tutela delle aree protette nazionali e la legge sui diritti ancestrali dei popoli indigeni.
A confermare questa attenzione è stato diffuso ieri un messaggio dell’arcivescovo di Manila, monsignor Broderick Pabillo: «Il governo del presidente Benigno Aquino deve assumersi parte della responsabilità per la tragica morte di padre Fausto Tentorio – ha scritto Pabillo nel sito della Conferenza episcopale filippina – perché ha fallito nel fermare la cultura di impunità che è alla base di questi omicidi».
A portare la denuncia delle attività minerarie e altri progetti di industrializzazione, centrali a carbone o agricoltura su vasta scala nelle terre ancestrali, lo scorso aprile era stata una conferenza di oltre 100 leader tribali di Mindanao. Un raduno che aveva sottolineato come iniziative «di sviluppo» davano, in realtà, ampi profitti a imprese straniere, «distruggendo l’ambiente, la cultura e la vita dei lumad». Alla conferenza erano presenti anche i leader dei gruppi Ata-Manobo e Manobo, cui padre Tentorio aveva dedicato buona parte del suo apostolato a Mindanao. I funerali del sacerdote ucciso si svolgeranno il 25 ottobre, nella sede episcopale di Kidapawan.

Stefano Vecchia
Avvenire, 19 ottobre 2011

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