SE VUOI COLTIVARE LA PACE, CUSTODISCI IL CREATO
1. In occasione dell’inizio del Nuovo Anno, desidero rivolgere i più fervidi auguri di pace a tutte le comunità cristiane, ai responsabili delle Nazioni, agli uomini e alle donne di buona volontà del mondo intero. Per questa XLIII Giornata Mondiale della Pace ho scelto il tema: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. Il rispetto del creato riveste grande rilevanza, anche perché «la creazione è l’inizio e il fondamento di tutte le opere di Dio» [1] e la sua salvaguardia diventa oggi essenziale per la pacifica convivenza dell’umanità. Se, infatti, a causa della crudeltà dell’uomo sull’uomo, numerose sono le minacce che incombono sulla pace e sull’autentico sviluppo umano integrale – guerre, conflitti internazionali e regionali, atti terroristici e violazioni dei diritti umani –, non meno preoccupanti sono le minacce originate dalla noncuranza – se non addirittura dall’abuso – nei confronti della terra e dei beni naturali che Dio ha elargito. Per tale motivo è indispensabile che l’umanità rinnovi e rafforzi «quell’alleanza tra essere umano e ambiente, che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino» [2].
2. Nell’Enciclica Caritas in veritate ho posto in evidenza che lo sviluppo umano integrale è strettamente collegato ai doveri derivanti dal rapporto dell’uomo con l’ambiente naturale, considerato come un dono di Dio a tutti, il cui uso comporta una comune responsabilità verso l’umanità intera, in special modo verso i poveri e le generazioni future. Ho notato, inoltre, che quando la natura e, in primo luogo, l’essere umano vengono considerati semplicemente frutto del caso o del determinismo evolutivo, rischia di attenuarsi nelle coscienze la consapevolezza della responsabilità [3]. Ritenere, invece, il creato come dono di Dio all’umanità ci aiuta a comprendere la vocazione e il valore dell’uomo. Con il Salmista, pieni di stupore, possiamo infatti proclamare: «Quando vedo i tuoi cieli, opera delle tue dita, la luna e le stelle che hai fissato, che cosa è mai l’uomo perché di lui ti ricordi, il figlio dell’uomo, perché te ne curi?» (Sal 8,4-5). Contemplare la bellezza del creato è stimolo a riconoscere l’amore del Creatore, quell’Amore che «move il sole e l’altre stelle» [4].
3. Vent’anni or sono, il Papa Giovanni Paolo II, dedicando il Messaggio della Giornata Mondiale della Pace al tema Pace con Dio creatore, pace con tutto il creato, richiamava l’attenzione sulla relazione che noi, in quanto creature di Dio, abbiamo con l’universo che ci circonda. «Si avverte ai nostri giorni – scriveva – la crescente consapevolezza che la pace mondiale sia minacciata... anche dalla mancanza del dovuto rispetto per la natura». E aggiungeva che la coscienza ecologica «non deve essere mortificata, ma anzi favorita, in modo che si sviluppi e maturi, trovando adeguata espressione in programmi ed iniziative concrete» [5]. Già altri miei Predecessori avevano fatto riferimento alla relazione esistente tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, nel 1971, in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII, Paolo VI ebbe a sottolineare che «attraverso uno sfruttamento sconsiderato della natura, (l’uomo) rischia di distruggerla e di essere a sua volta vittima di siffatta degradazione». Ed aggiunse che in tal caso «non soltanto l’ambiente materiale diventa una minaccia permanente: inquinamenti e rifiuti, nuove malattie, potere distruttivo totale; ma è il contesto umano, che l’uomo non padroneggia più, creandosi così per il domani un ambiente che potrà essergli intollerabile: problema sociale di vaste dimensioni che riguarda l’intera famiglia umana» [6].
4. Pur evitando di entrare nel merito di specifiche soluzioni tecniche, la Chiesa, «esperta in umanità», si premura di richiamare con forza l’attenzione sulla relazione tra il Creatore, l’essere umano e il creato. Nel 1990, Giovanni Paolo II parlava di «crisi ecologica» e, rilevando come questa avesse un carattere prevalentemente etico, indicava l’«urgente necessità morale di una nuova solidarietà» [7]. Questo appello si fa ancora più pressante oggi, di fronte alle crescenti manifestazioni di una crisi che sarebbe irresponsabile non prendere in seria considerazione. Come rimanere indifferenti di fronte alle problematiche che derivano da fenomeni quali i cambiamenti climatici, la desertificazione, il degrado e la perdita di produttività di vaste aree agricole, l’inquinamento dei fiumi e delle falde acquifere, la perdita della biodiversità, l’aumento di eventi naturali estremi, il disboscamento delle aree equatoriali e tropicali? Come trascurare il crescente fenomeno dei cosiddetti «profughi ambientali»: persone che, a causa del degrado dell’ambiente in cui vivono, lo devono lasciare – spesso insieme ai loro beni – per affrontare i pericoli e le incognite di uno spostamento forzato? Come non reagire di fronte ai conflitti già in atto e a quelli potenziali legati all’accesso alle risorse naturali? Sono tutte questioni che hanno un profondo impatto sull’esercizio dei diritti umani, come ad esempio il diritto alla vita, all’alimentazione, alla salute, allo sviluppo.
5. Va, tuttavia, considerato che la crisi ecologica non può essere valutata separatamente dalle questioni ad essa collegate, essendo fortemente connessa al concetto stesso di sviluppo e alla visione dell’uomo e delle sue relazioni con i suoi simili e con il creato. Saggio è, pertanto, operare una revisione profonda e lungimirante del modello di sviluppo, nonché riflettere sul senso dell’economia e dei suoi fini, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige lo stato di salute ecologica del pianeta; lo richiede anche e soprattutto la crisi culturale e morale dell’uomo, i cui sintomi sono da tempo evidenti in ogni parte del mondo [8]. L’umanità ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale; ha bisogno di riscoprire quei valori che costituiscono il solido fondamento su cui costruire un futuro migliore per tutti. Le situazioni di crisi, che attualmente sta attraversando – siano esse di carattere economico, alimentare, ambientale o sociale –, sono, in fondo, anche crisi morali collegate tra di loro. Esse obbligano a riprogettare il comune cammino degli uomini. Obbligano, in particolare, a un modo di vivere improntato alla sobrietà e alla solidarietà, con nuove regole e forme di impegno, puntando con fiducia e coraggio sulle esperienze positive compiute e rigettando con decisione quelle negative. Solo così l’attuale crisi diventa occasione di discernimento e di nuova progettualità.
6. Non è forse vero che all’origine di quella che, in senso cosmico, chiamiamo «natura», vi è «un disegno di amore e di verità»? Il mondo «non è il prodotto di una qualsivoglia necessità, di un destino cieco o del caso... Il mondo trae origine dalla libera volontà di Dio, il quale ha voluto far partecipare le creature al suo essere, alla sua saggezza e alla sua bontà» [9]. Il Libro della Genesi, nelle sue pagine iniziali, ci riporta al progetto sapiente del cosmo, frutto del pensiero di Dio, al cui vertice si collocano l’uomo e la donna, creati ad immagine e somiglianza del Creatore per «riempire la terra» e «dominarla» come «amministratori» di Dio stesso (cfr Gen 1,28). L’armonia tra il Creatore, l’umanità e il creato, che la Sacra Scrittura descrive, è stata infranta dal peccato di Adamo ed Eva, dell’uomo e della donna, che hanno bramato occupare il posto di Dio, rifiutando di riconoscersi come sue creature. La conseguenza è che si è distorto anche il compito di «dominare» la terra, di «coltivarla e custodirla» e tra loro e il resto della creazione è nato un conflitto (cfr Gen 3,17-19). L’essere umano si è lasciato dominare dall’egoismo, perdendo il senso del mandato di Dio, e nella relazione con il creato si è comportato come sfruttatore, volendo esercitare su di esso un dominio assoluto. Ma il vero significato del comando iniziale di Dio, ben evidenziato nel Libro della Genesi, non consisteva in un semplice conferimento di autorità, bensì piuttosto in una chiamata alla responsabilità. Del resto, la saggezza degli antichi riconosceva che la natura è a nostra disposizione non come «un mucchio di rifiuti sparsi a caso» [10], mentre la Rivelazione biblica ci ha fatto comprendere che la natura è dono del Creatore, il quale ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l’uomo possa trarne gli orientamenti doverosi per «custodirla e coltivarla» (cfr Gen 2,15) [11]. Tutto ciò che esiste appartiene a Dio, che lo ha affidato agli uomini, ma non perché ne dispongano arbitrariamente. E quando l’uomo, invece di svolgere il suo ruolo di collaboratore di Dio, a Dio si sostituisce, finisce col provocare la ribellione della natura, «piuttosto tiranneggiata che governata da lui» [12]. L’uomo, quindi, ha il dovere di esercitare un governo responsabile della creazione, custodendola e coltivandola [13].
7. Purtroppo, si deve constatare che una moltitudine di persone, in diversi Paesi e regioni del pianeta, sperimenta crescenti difficoltà a causa della negligenza o del rifiuto, da parte di tanti, di esercitare un governo responsabile sull’ambiente. Il Concilio Ecumenico Vaticano II ha ricordato che «Dio ha destinato la terra e tutto quello che essa contiene all’uso di tutti gli uomini e di tutti i popoli» [14]. L’eredità del creato appartiene, pertanto, all’intera umanità. Invece, l’attuale ritmo di sfruttamento mette seriamente in pericolo la disponibilità di alcune risorse naturali non solo per la generazione presente, ma soprattutto per quelle future [15]. Non è difficile allora costatare che il degrado ambientale è spesso il risultato della mancanza di progetti politici lungimiranti o del perseguimento di miopi interessi economici, che si trasformano, purtroppo, in una seria minaccia per il creato. Per contrastare tale fenomeno, sulla base del fatto che «ogni decisione economica ha una conseguenza di carattere morale» [16], è anche necessario che l’attività economica rispetti maggiormente l’ambiente. Quando ci si avvale delle risorse naturali, occorre preoccuparsi della loro salvaguardia, prevedendone anche i costi – in termini ambientali e sociali –, da valutare come una voce essenziale degli stessi costi dell’attività economica. Compete alla comunità internazionale e ai governi nazionali dare i giusti segnali per contrastare in modo efficace quelle modalità d’utilizzo dell’ambiente che risultino ad esso dannose. Per proteggere l’ambiente, per tutelare le risorse e il clima occorre, da una parte, agire nel rispetto di norme ben definite anche dal punto di vista giuridico ed economico, e, dall’altra, tenere conto della solidarietà dovuta a quanti abitano le regioni più povere della terra e alle future generazioni.
8. Sembra infatti urgente la conquista di una leale solidarietà inter-generazionale. I costi derivanti dall’uso delle risorse ambientali comuni non possono essere a carico delle generazioni future: «Eredi delle generazioni passate e beneficiari del lavoro dei nostri contemporanei, noi abbiamo degli obblighi verso tutti e non possiamo disinteressarci di coloro che verranno dopo di noi ad ingrandire la cerchia della famiglia umana. La solidarietà universale, ch’è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere. Si tratta di una responsabilità che le generazioni presenti hanno nei confronti di quelle future, una responsabilità che appartiene anche ai singoli Stati e alla Comunità internazionale» [17]. L’uso delle risorse naturali dovrebbe essere tale che i vantaggi immediati non comportino conseguenze negative per gli esseri viventi, umani e non umani, presenti e a venire; che la tutela della proprietà privata non ostacoli la destinazione universale dei beni [18]; che l’intervento dell’uomo non comprometta la fecondità della terra, per il bene di oggi e per il bene di domani. Oltre ad una leale solidarietà inter-generazionale, va ribadita l’urgente necessità morale di una rinnovata solidarietà intra-generazionale, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via di sviluppo e quelli altamente industrializzati: «la comunità internazionale ha il compito imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo da pianificare insieme il futuro» [19]. La crisi ecologica mostra l’urgenza di una solidarietà che si proietti nello spazio e nel tempo. È infatti importante riconoscere, fra le cause dell’attuale crisi ecologica, la responsabilità storica dei Paesi industrializzati. I Paesi meno sviluppati e, in particolare, quelli emergenti, non sono tuttavia esonerati dalla propria responsabilità rispetto al creato, perché il dovere di adottare gradualmente misure e politiche ambientali efficaci appartiene a tutti. Ciò potrebbe realizzarsi più facilmente se vi fossero calcoli meno interessati nell’assistenza, nel trasferimento delle conoscenze e delle tecnologie più pulite.
9. È indubbio che uno dei principali nodi da affrontare, da parte della comunità internazionale, è quello delle risorse energetiche, individuando strategie condivise e sostenibili per soddisfare i bisogni di energia della presente generazione e di quelle future. A tale scopo, è necessario che le società tecnologicamente avanzate siano disposte a favorire comportamenti improntati alla sobrietà, diminuendo il proprio fabbisogno di energia e migliorando le condizioni del suo utilizzo. Al tempo stesso, occorre promuovere la ricerca e l’applicazione di energie di minore impatto ambientale e la «ridistribuzione planetaria delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi» [20]. La crisi ecologica, dunque, offre una storica opportunità per elaborare una risposta collettiva volta a convertire il modello di sviluppo globale in una direzione più rispettosa nei confronti del creato e di uno sviluppo umano integrale, ispirato ai valori propri della carità nella verità. Auspico, pertanto, l’adozione di un modello di sviluppo fondato sulla centralità dell’essere umano, sulla promozione e condivisione del bene comune, sulla responsabilità, sulla consapevolezza del necessario cambiamento degli stili di vita e sulla prudenza, virtù che indica gli atti da compiere oggi, in previsione di ciò che può accadere domani [21].
10. Per guidare l’umanità verso una gestione complessivamente sostenibile dell’ambiente e delle risorse del pianeta, l’uomo è chiamato a impiegare la sua intelligenza nel campo della ricerca scientifica e tecnologica e nell’applicazione delle scoperte che da questa derivano. La «nuova solidarietà», che Giovanni Paolo II propose nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 1990 [22], e la «solidarietà globale», che io stesso ho richiamato nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace del 2009 [23], risultano essere atteggiamenti essenziali per orientare l’impegno di tutela del creato, attraverso un sistema di gestione delle risorse della terra meglio coordinato a livello internazionale, soprattutto nel momento in cui va emergendo, in maniera sempre più evidente, la forte interrelazione che esiste tra la lotta al degrado ambientale e la promozione dello sviluppo umano integrale. Si tratta di una dinamica imprescindibile, in quanto «lo sviluppo integrale dell’uomo non può aver luogo senza lo sviluppo solidale dell’umanità» [24]. Tante sono oggi le opportunità scientifiche e i potenziali percorsi innovativi, grazie ai quali è possibile fornire soluzioni soddisfacenti ed armoniose alla relazione tra l’uomo e l’ambiente. Ad esempio, occorre incoraggiare le ricerche volte ad individuare le modalità più efficaci per sfruttare la grande potenzialità dell’energia solare. Altrettanta attenzione va poi rivolta alla questione ormai planetaria dell’acqua ed al sistema idrogeologico globale, il cui ciclo riveste una primaria importanza per la vita sulla terra e la cui stabilità rischia di essere fortemente minacciata dai cambiamenti climatici. Vanno altresì esplorate appropriate strategie di sviluppo rurale incentrate sui piccoli coltivatori e sulle loro famiglie, come pure occorre approntare idonee politiche per la gestione delle foreste, per lo smaltimento dei rifiuti, per la valorizzazione delle sinergie esistenti tra il contrasto ai cambiamenti climatici e la lotta alla povertà. Occorrono politiche nazionali ambiziose, completate da un necessario impegno internazionale che apporterà importanti benefici soprattutto nel medio e lungo termine. È necessario, insomma, uscire dalla logica del mero consumo per promuovere forme di produzione agricola e industriale rispettose dell’ordine della creazione e soddisfacenti per i bisogni primari di tutti. La questione ecologica non va affrontata solo per le agghiaccianti prospettive che il degrado ambientale profila all’orizzonte; a motivarla deve essere soprattutto la ricerca di un’autentica solidarietà a dimensione mondiale, ispirata dai valori della carità, della giustizia e del bene comune. D’altronde, come ho già avuto modo di ricordare, «la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l’uomo e le sue aspirazioni allo sviluppo; esprime la tensione dell’animo umano al graduale superamento di certi condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di «coltivare e custodire la terra» (cfr Gen 2,15), che Dio ha affidato all’uomo, e va orientata a rafforzare quell’alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell’amore creatore di Dio» [25].
11. Appare sempre più chiaramente che il tema del degrado ambientale chiama in causa i comportamenti di ognuno di noi, gli stili di vita e i modelli di consumo e di produzione attualmente dominanti, spesso insostenibili dal punto di vista sociale, ambientale e finanche economico. Si rende ormai indispensabile un effettivo cambiamento di mentalità che induca tutti ad adottare nuovi stili di vita «nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi e degli investimenti» [26]. Sempre più si deve educare a costruire la pace a partire dalle scelte di ampio raggio a livello personale, familiare, comunitario e politico. Tutti siamo responsabili della protezione e della cura del creato. Tale responsabilità non conosce frontiere. Secondo il principio di sussidiarietà, è importante che ciascuno si impegni al livello che gli corrisponde, operando affinché venga superata la prevalenza degli interessi particolari. Un ruolo di sensibilizzazione e di formazione spetta in particolare ai vari soggetti della società civile e alle Organizzazioni non-governative, che si prodigano con determinazione e generosità per la diffusione di una responsabilità ecologica, che dovrebbe essere sempre più ancorata al rispetto dell’ «ecologia umana». Occorre, inoltre, richiamare la responsabilità dei media in tale ambito, proponendo modelli positivi a cui ispirarsi. Occuparsi dell’ambiente richiede, cioè, una visione larga e globale del mondo; uno sforzo comune e responsabile per passare da una logica centrata sull’egoistico interesse nazionalistico ad una visione che abbracci sempre le necessità di tutti i popoli. Non si può rimanere indifferenti a ciò che accade intorno a noi, perché il deterioramento di qualsiasi parte del pianeta ricadrebbe su tutti. Le relazioni tra persone, gruppi sociali e Stati, come quelle tra uomo e ambiente, sono chiamate ad assumere lo stile del rispetto e della «carità nella verità». In tale ampio contesto, è quanto mai auspicabile che trovino efficacia e corrispondenza gli sforzi della comunità internazionale volti ad ottenere un progressivo disarmo ed un mondo privo di armi nucleari, la cui sola presenza minaccia la vita del pianeta e il processo di sviluppo integrale dell’umanità presente e di quella futura.
12. La Chiesa ha una responsabilità per il creato e sente di doverla esercitare, anche in ambito pubblico, per difendere la terra, l’acqua e l’aria, doni di Dio Creatore per tutti, e, anzitutto, per proteggere l’uomo contro il pericolo della distruzione di se stesso. Il degrado della natura è, infatti, strettamente connesso alla cultura che modella la convivenza umana, per cui «quando l’«ecologia umana» è rispettata dentro la società, anche l’ecologia ambientale ne trae beneficio» [27]. Non si può domandare ai giovani di rispettare l’ambiente, se non vengono aiutati in famiglia e nella società a rispettare se stessi: il libro della natura è unico, sia sul versante dell’ambiente come su quello dell’etica personale, familiare e sociale [28]. I doveri verso l’ambiente derivano da quelli verso la persona considerata in se stessa e in relazione agli altri. Volentieri, pertanto, incoraggio l’educazione ad una responsabilità ecologica, che, come ho indicato nell’Enciclica Caritas in veritate, salvaguardi un’autentica «ecologia umana» e, quindi, affermi con rinnovata convinzione l’inviolabilità della vita umana in ogni sua fase e in ogni sua condizione, la dignità della persona e l’insostituibile missione della famiglia, nella quale si educa all’amore per il prossimo e al rispetto della natura [29]. Occorre salvaguardare il patrimonio umano della società. Questo patrimonio di valori ha la sua origine ed è iscritto nella legge morale naturale, che è fondamento del rispetto della persona umana e del creato.
13. Non va infine dimenticato il fatto, altamente indicativo, che tanti trovano tranquillità e pace, si sentono rinnovati e rinvigoriti quando sono a stretto contatto con la bellezza e l’armonia della natura. Vi è pertanto una sorta di reciprocità: nel prenderci cura del creato, noi constatiamo che Dio, tramite il creato, si prende cura di noi. D’altra parte, una corretta concezione del rapporto dell’uomo con l’ambiente non porta ad assolutizzare la natura né a ritenerla più importante della stessa persona. Se il Magistero della Chiesa esprime perplessità dinanzi ad una concezione dell’ambiente ispirata all’ecocentrismo e al biocentrismo, lo fa perché tale concezione elimina la differenza ontologica e assiologica tra la persona umana e gli altri esseri viventi. In tal modo, si viene di fatto ad eliminare l’identità e il ruolo superiore dell’uomo, favorendo una visione egualitaristica della «dignità» di tutti gli esseri viventi. Si dà adito, così, ad un nuovo panteismo con accenti neopagani che fanno derivare dalla sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, la salvezza per l’uomo. La Chiesa invita, invece, ad impostare la questione in modo equilibrato, nel rispetto della «grammatica» che il Creatore ha inscritto nella sua opera, affidando all’uomo il ruolo di custode e amministratore responsabile del creato, ruolo di cui non deve certo abusare, ma da cui non può nemmeno abdicare. Infatti, anche la posizione contraria di assolutizzazione della tecnica e del potere umano, finisce per essere un grave attentato non solo alla natura, ma anche alla stessa dignità umana [30].
14. Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato. La ricerca della pace da parte di tutti gli uomini di buona volontà sarà senz’altro facilitata dal comune riconoscimento del rapporto inscindibile che esiste tra Dio, gli esseri umani e l’intero creato. Illuminati dalla divina Rivelazione e seguendo la Tradizione della Chiesa, i cristiani offrono il proprio apporto. Essi considerano il cosmo e le sue meraviglie alla luce dell’opera creatrice del Padre e redentrice di Cristo, che, con la sua morte e risurrezione, ha riconciliato con Dio «sia le cose che stanno sulla terra, sia quelle che stanno nei cieli» (Col 1,20). Il Cristo, crocifisso e risorto, ha fatto dono all’umanità del suo Spirito santificatore, che guida il cammino della storia, in attesa del giorno in cui, con il ritorno glorioso del Signore, verranno inaugurati «nuovi cieli e una terra nuova» (2 Pt 3,13), in cui abiteranno per sempre la giustizia e la pace. Proteggere l’ambiente naturale per costruire un mondo di pace è, pertanto, dovere di ogni persona. Ecco una sfida urgente da affrontare con rinnovato e corale impegno; ecco una provvidenziale opportunità per consegnare alle nuove generazioni la prospettiva di un futuro migliore per tutti. Ne siano consapevoli i responsabili delle nazioni e quanti, ad ogni livello, hanno a cuore le sorti dell’umanità: la salvaguardia del creato e la realizzazione della pace sono realtà tra loro intimamente connesse! Per questo, invito tutti i credenti ad elevare la loro fervida preghiera a Dio, onnipotente Creatore e Padre misericordioso, affinché nel cuore di ogni uomo e di ogni donna risuoni, sia accolto e vissuto il pressante appello: Se vuoi coltivare la pace, custodisci il creato.
Dal Vaticano, 8 dicembre 2009
BENEDICTUS PP. XVI
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[1] Catechismo della Chiesa Cattolica, 198.
[2] Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 7.
[3] Cfr n. 48.
[4] Dante Alighieri, Divina Commedia, Paradiso, XXXIII, 145.
[5] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1990, 1.
[6] Lett. ap. Octogesima adveniens, 21.
[7] Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, 10.
[8] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 32.
[9] Catechismo della Chiesa Cattolica, 295.
[10] Eraclito di Efeso (535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526.
[11] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 48.
[12] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 37.
[13] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 50.
[14] Cost. Past. Gaudium et spes, 69.
[15] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 34.
[16] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 37.
[17] Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, 467; cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 17.
[18] Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 30-31.43.
[19] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 49.
[20] Ibid.
[21] Cfr San Tommaso d’Aquino, S. Th., II-II, q. 49, 5.
[22] Cfr n. 9.
[23] Cfr n. 8.
[24] Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 43.
[25] Lett. enc. Caritas in veritate, 69.
[26] Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 36.
[27] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 51.
[28] Cfr ibid., 15.51.
[29] Cfr ibid., 28.51.61; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 38.39.
[30] Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate, 70.
La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
29 dicembre 2009
22 dicembre 2009
Conoscere l’Africa 4: Cristiani nelle terre del Corano
REPORTAGE. TUNISIA, L'AFRICA "VICINA"
La grandeur della Cattedrale, affacciata sul caotico viavai di Place de l’Indépendance, fa sempre una certa impressione. Le due torri si arrampicano nel cielo di Tunisi, lontano dal rumore dei clacson e dei bar all’aperto tra Avenue Bourguiba e Avenue de France, ben più in alto delle palme dei giardini, delle bandiere sui pali della luce e dei ritratti del presidente Zine El Abidine Ben Ali. Se entri dentro, anche le nicchie con le immagini e le statue dei santi, i mosaici dei papi nati in Tunisia, i capitelli, l’altare maggiore danno il senso di un’antica grandezza.
Quando fu definitivamente consacrata, nel 1953, funzionava già da quasi sessant’anni. E proprio quei decenni di esercizio provvisorio, nella grande chiesa incompiuta, col cantiere sempre aperto, erano stati il tempo delle messe solenni con migliaia di fedeli, delle processioni, dei cori, dei comitati per le feste, dei predicatori che riempivano le navate.
Adesso, le stesse navate appaiono fuori misura per i pochi che arrivano uno ad uno e si vanno a sedere nella piccola cappella del Santissimo, per la messa serale quotidiana. Lingue diverse, età diverse, colori della pelle diversi. Con la liturgia celebrata in francese e in italiano. Sull’ultima panca c’è anche il vescovo Maroun, che recita sottovoce il breviario.
DA AGOSTINO AGLI SCHIAVI D’OCCIDENTE
Ahmed si muove con la dimestichezza di chi è di casa tra un sito e l’altro della grande area archeologica di Cartagine, sulla sua Renault Mégane. E in quella piana costiera rimasta segnata dalle opere degli uomini di epoche diverse e lontane, tra le terme monumentali e i porti romani, sa rintracciare gli angoli anche più riposti che hanno a che fare con nomi e storie familiari alla comune memoria cristiana. Sono anni che con la sua agenzia turistica TunisAurea collabora coi suggestivi pellegrinaggi organizzati dal tour operator Brevivet guidando comitive accaldate di turisti sulle orme di sant’Agostino, o alla scoperta delle antiche diocesi dell’Africa vetus, sconfinando talvolta in Algeria per portarli fino all’eremo di Charles de Foucauld. Ci tiene a indicarti l’anfiteatro romano dove Perpetua e Felicita trovarono il trionfo del proprio martirio, e i resti della Basilica di San Cipriano dove Agostino aveva lasciato sua madre Monica a piangere e a pregare, mentre lui s’imbarcava per Roma straziandole il cuore (ma «è impossibile che un figlio di tante lacrime vada perduto», le avrebbe detto un giorno sant’Ambrogio). Non dimentica di mostrare anche le rovine della Domus Caritatis, la sede del primate di Cartagine «che a quel tempo era più importante del Papa». Da musulmano, parla con affetto e senza enfasi della «nostra Chiesa tunisina». Non sembra cercare battute compiacenti, neanche quando con semplicità definisce monsignor Maroun «il mio vescovo».
Di vescovi, nel IV secolo, l’Africa del nord ne contava trecentocinquanta. Erano già diventati settecento nel 430. A detta degli odierni islamofobi, la sparizione di quella cristianità rigogliosa sarebbe tutta da mettere sul conto proprio degli avi di Ahmed, i conquistadores arabo-islamici del VII secolo, e degli indigeni berberi che si unirono alla nuova religione. Ma giocano coi numeri e dimenticano alcune cose. Come, secoli prima di Maometto, lo scisma donatista, che, al tempo di Agostino, contava tanti vescovi quanti la Chiesa cattolica; e poi l’eresia ariana imposta dalla conquista dei Vandali. Per non parlare delle popolazioni berbere che non avevano mai abbracciato la fede in Gesù Cristo, avendola identificata con l’indigesta pax imperiale romana. Se in Tunisia e nel resto del Maghreb non c’è traccia delle Chiese autoctone di origine apostolica che in Egitto e nei Paesi arabi del Medio Oriente hanno finora attraversato secoli di civilizzazione islamica, forse questa latitanza più che con l’islam ha a che vedere proprio con l’impatto che ebbe nell’Africa tardoantica il grande equivoco dei donatisti, i quali dimenticavano che i sacramenti sono del Signore e non proprietà della Chiesa.
Gli studi storici meno prevenuti smentiscono anche il cliché della definitiva e totale sparizione del cristianesimo in terra tunisina dopo la conquista islamica. Qualcosa è rimasto sempre, nelle traversie spesso paradossali della storia. Quando nell’XI secolo arrivano i normanni, i cristiani della strategica Mahdia fanno fronte comune coi musulmani, che trovano rifugio nelle chiese della città costiera per fuggire alle incursioni degli invasori venuti dalla Sicilia. Le cronache locali registrano ancora nel XIV secolo l’esistenza di villaggi cristiani nelle oasi di Nefzawa, Gafsa e Nefta. E già molto prima, c’è chi aveva portato il nome di Cristo nelle terre dell’attuale Tunisia seguendo i sentieri altalenanti delle contingenze storiche e sociali. Sono i commercianti provenzali, gli artigiani siciliani, i marinai genovesi che tirano su chiese e cappelle nelle loro basi sparse a Tunisi, Bizerta, Sfax, Gabès o Djerba. Sono i domenicani spagnoli che nel 1250 aprono a Tunisi un Centro di studi arabi. Sono i soldati della Guardia Franca al servizio del Bey, il sovrano vassallo della Sublime Porta che governava la Tunisia ottomana. Sono soprattutto i battezzati finiti schiavi nelle terre a lui sottoposte. Solo a Tunisi, durante la belle époque della pirateria, ce n’erano almeno 11mila, tenuti in tredici bagni penali dotati di chiese e cappelle officiate da sacerdoti, schiavi anche loro. Da questa realtà san Vincenzo de’ Paoli prenderà spunto per le missioni sui generis dei suoi sacerdoti in terra tunisina: spedizioni annuali realizzate con lo scopo di riscattare schiavi cristiani col denaro o per sostenere spiritualmente chi rimane e scongiurare il pericolo dell’apostasia. Per quest’opera, padre Jean Le Vacher finirà martire, il corpo attaccato a una bocca di cannone. Ma non mancheranno periodi tranquilli, coi preti e gli schiavi cristiani autorizzati a pregare e cantare in processione nelle feste solenni.
IL SOGNO DI LAVIGERIE
«Sine dubio post Romanum Pontificem primus archiepiscopus Nubiae et totius Africae maximus metropolitanus est carthaginiensis episcopus». L’iscrizione latina che sovrasta le navate della Cattedrale di San Luigi, sulla collina-acropoli di Byrsa, ripete il passaggio-chiave della bolla con cui Leone IX (1049-1054) aveva confermato Cartagine quale sede primaziale di tutta l’Africa. Riconoscimento arrivato fuori tempo massimo, visto che la cristianità nordafricana raccontata da Cipriano, Agostino e Fulgenzio era già tramontata da secoli. Ma alla vigilia del ventesimo secolo, ai tempi del protettorato francese, il grande sogno ecclesiale centrato sull’antica Cartagine fu ripreso da Charles Allemand Lavigerie, fondatore dei Padri Bianchi, arcivescovo di Cartagine dal 1884 e futuro cardinale. La Cattedrale issata sull’antica acropoli, con dentro le reliquie di san Luigi, è l’icona architettonica di quel disegno: una re-plantatio Ecclesiae possente, dopo i secoli del nascondimento.
Nei decenni successivi, la generosa aspirazione apostolica sembra prender corpo. Nel 1891 gli stranieri cattolici presenti nella Tunisia – soprattutto francesi e italiani, coi maltesi come terzo gruppo – sono già più di 100mila. Saranno 240mila nel 1946. In quest’arco di tempo, la vivace cattolicità a tinte perlopiù francesi innesta in terra tunisina tutta la robusta gamma di devozioni e opere che fioriscono nella madrepatria. Cappelle, collegi, ospedali, seminari, Conferenze di San Vincenzo e gruppi dell’Azione cattolica. Negli anni Venti del secolo scorso, nel territorio tunisino svolgono il loro apostolato più di mille tra religiose e religiosi. E poi dispensari, benedizioni delle voitures, concorsi per artisti cattolici, scouts, serate di “teatro cattolico”, processioni di 10mila pellegrini fino alla Cattedrale dell’acropoli cartaginese. Non mancano i pellegrinaggi a Roma, con il Bey che manda i saluti al Papa chiedendogli preghiere per la Tunisia. E perfino mobilitazioni culturali in nome della libertas Ecclesiae: «Non dobbiamo più tollerare», scrive la rivista Tunisie catholique nel 1922, «che la nostra religione, dopo venti secoli di storia gloriosa, continui a essere considerata come un fatto individuale e privato senza alcuna influenza sulla vita del Paese, sui costumi e sulle leggi». E non ce l’ha coi musulmani, ma con le politiche anticlericali esportate fin lì da governanti e militanti della laicità alla francese.
La civilizzazione cattolica francese in terra tunisina celebra i suoi fasti seguendo passo passo dinamiche e convulsioni della cattolicità d’origine, rimanendo sostanzialmente una società “fuori frontiera” impermeabile al mondo arabo musulmano in cui vive. Nel 1933 una statua di Lavigerie benedicente viene issata sulla piazza all’ingresso della medina, proprio in faccia alla scuola coranica. Invece, i cattolici italiani (in maggioranza siciliani) e i loro preti – lo nota a più riprese il missionario François Dornier nel bel libro Les catholiques en Tunisie au fil des jours – imparano l’arabo e si mescolano con la gente del posto. Ma sul finire della guerra, i conflitti che dilaniano le nazioni dell’Europa cosiddetta cristiana tolgono enfasi e slancio ai racconti sul fervore della vita ecclesiale in quelle terre d’oltremare.
Nel 1948 sono ancora un milione e duecentomila le ostie distribuite durante le messe. Di lì a qualche anno, tutto questo mondo sembrerà evaporare. Nel 1956, quando la Tunisia ribelle di Habib Bourguiba raggiunge il traguardo dell’indipendenza nazionale, la statua di Lavigerie all’imbocco del suk di Tunisi viene subito rimossa. Simbolo religioso dell’élite coloniale ormai travolta dalla storia. Emblema di un passato che comunque non viene liquidato in blocco con condanna sommaria nella memoria dei tunisini. «Per noi la Chiesa di allora era quella dei preti che benedicevano i soldati e le forze d’occupazione, con le loro rappresaglie. Ma le suore no, quelle erano buone, aiutavano la gente del popolo. A loro, anche allora, volevamo bene», dice oggi il tour operator Ahmed, andando a ritrovare nei suoi ricordi di ragazzo distinzioni quantomai eloquenti.
SENZA PRETENDERE NIENTE
Gli europei, che in Tunisia avevano raggiunto la cifra record di 270mila nel 1956, tre anni dopo sono ridotti a 70mila. Un sondaggio interno del 1964 conterà su tutto il territorio meno di ottomila cattolici praticanti. Quello stesso anno la Santa Sede e lo Stato tunisino sottoscrivono il modus vivendi con cui il rapporto tra Chiesa cattolica e Tunisia indipendente viene ristabilito su nuove basi. L’effetto più eclatante è la cessione allo Stato tunisino di gran parte dei beni immobili ecclesiastici. Delle cento chiese sparse nell’ex protettorato francese, ne vengono sconsacrate più di novanta. A tutt’oggi, anche le ampie navate della grande Cattedrale di San Luigi a Cartagine sono usate per ospitare concerti e mostre di quadri.
Per chi rimane – vescovi, preti, religiosi, laici – quelli seguiti all’indipendenza tunisina sono anni traumatici. Anni di tentativi talvolta un po’ astratti e verbosi di darsi ragione di quello che è successo con uno sforzo di analisi e di autocoscienza. Ma ci sono pure tanti che abbracciano la nuova condizione di povertà. Lavorando in silenzio, senza rivalse e complessi. Così, come viene. Con un cuore e uno sguardo a volte resi più puri. In un Paese arabo a maggioranza islamica che dispiega poco a poco tutte le sue anomalie, con legislazioni d’impronta laicizzante, dove le donne hanno diritto di voto e possono abortire negli ospedali fin dagli anni Cinquanta, e anche le moschee e le scuole coraniche sono tenute a rispettare la laicità dello spazio pubblico.
Se c’è un filo rosso che scorre nei diversi momenti della presenza cristiana in Tunisia, è quello intermittente e precario di una certa occasionalità. Una inabilità a “mettere radici”, una dipendenza da fattori esterni – come le vicende alterne e impreviste della storia, o la distanza turisticamente fruibile dall’Europa – che a volte ingrossano il fiume e a volte lo riducono a piccolo ruscello quasi sperduto nel deserto. Come ai tempi della Chiesa del XVII secolo, fatta di commercianti levantini e di schiavi. Come è stato evidente negli anni Novanta del secolo scorso, quando per contare i battesimi celebrati di anno in anno in tutto il Paese bastavano le dita di una mano, mentre ancora negli anni Venti erano più di tremila.
Forse anche per questo il vescovo Maroun non sembra preoccupato. È aperto con fiducia agli imprevisti. Come il trasferimento a Tunisi della Banca africana dello sviluppo, che negli ultimi anni ha portato centinaia di famiglie africane nella sua diocesi, che adesso gli riempiono la Cattedrale alla messa domenicale. E poi c’è l’arrivo e il passaggio di studenti africani, cristiani mediorientali, e i milioni di turisti occidentali che ogni anno sbarcano a Tunisi, Djerba, Tabarka, Hammamet… «Questa è proprio la Chiesa cattolica», dice ridendo di quei tanti o pochi deracines, miscuglio di genti diverse, individui e famiglie che vanno e vengono, che passano o si fermano qui seguendo i percorsi a volte tortuosi dei propri interessi vitali. Da palestinese di Giordania conosce i beduini e sa bene che le tende leggere sono più adatte alla vita nel deserto e alla mobilità del mondo globale. Da cristiano ha imparato che non si “fonda” una Chiesa come si fa con le case, le società per azioni, le associazioni culturali, i partiti. Non la si “pianta” come si piantano gli alberi, o i piloni di cemento armato. Sa bene che per lui non costruiranno statue e monumenti. E si sorprende a pensare che tutto questo forse è una condizione favorevole per ripetere le parole del suo conterraneo Agostino: «Tutiores vivimus si totum Deo damus». Viviamo più tranquilli, se affidiamo tutto al Signore.
MOMENTI DI STORIA
Dominazione romana
146 a.C. - 439 d.C. Il territorio di Cartagine diventa la provincia Africa: è la prima colonia romana al di là del Mare Nostrum, e ha Utica come capitale. Sarà Augusto a far tornare Cartagine capitale della provincia.
Cristianesimo
Il cristianesimo arriva in queste terre già nel I secolo, ed è fortemente contrastato. La Chiesa vi è regolarmente costituita già a metà del III secolo: Cartagine diviene una delle capitali del cristianesimo occidentale (latino).
Invasione e dominazione dei Vandali
Nel 439, dieci anni dopo aver varcato lo stretto di Gibilterra, i Vandali di Genserico, cristiani ariani, occupano incontrastati Ippona e Cartagine e con esse tutta la provincia.
Dominazione bizantina
Nel settembre 533 Belisario, generale dell’Impero romano d’Oriente, sconfigge i Vandali per conto dell’imperatore Giustiniano dando inizio a centocinquanta anni di dominio bizantino.
Musulmani: arabi e turchi ottomani
A metà del VII secolo ha inizio la penetrazione degli arabi e dell’islam. Tra il 698 e il 702 strappano il Paese ai Bizantini e vi si insediano stabilmente.
Con la conversione dei Berberi all’islam (702), la conquista diviene politicamente irreversibile.
Nel 1574 la Tunisia è annessa all’Impero ottomano. Nel 1705 viene fondata la dinastia Husaynide il cui esponente regnerà come Bey di Tunisi (governatore di province e vassallo della Sublime Porta) fino al 1957.
Colonialismo
Dal 1881 al 1956 la Tunisia, pur formalmente retta dal Bey, con il Trattato del Bardo diviene un protettorato francese.
Indipendenza
Il 20 marzo 1956 il Trattato del Bardo è abrogato e quindi la Tunisia viene dichiarata indipendente.
Il 25 luglio 1957 è proclamata la Repubblica.
Il 1° giugno 1959 viene adottata la prima Costituzione repubblicana che conferma la natura laica dello Stato.
INCONTRO CON IL VESCOVO MAROUN LAHHAM
Un palestinese a Tunisi
Maroun Lahham è il secondo vescovo arabo che viene a guidare la Chiesa in Tunisia provenendo dalla terra di Gesù. Se il suo predecessore Fouad Twal, attuale patriarca latino di Gerusalemme, ricorda sempre i suoi ascendenti beduini, Maroun non dimentica certo mai di essere palestinese di Giordania. Non dimentica i lunghi anni trascorsi a Beit Jala, tra Betlemme e Beit Sahour, come rettore del seminario patriarcale latino. E non ha dimenticato neanche le pietanze arabe che la mamma gli insegnava a cucinare, «perché quando sarai prete non avrai moglie, e dovrai sbrigartela da solo».
La sua Cattedrale porta i nomi di san Vincenzo de’ Paoli e di sant’Oliva, una santa cara ai siciliani. Veder confluire storie e realtà di origine diversa, sembra scritto nel destino della Chiesa in Tunisia…
MAROUN LAHHAM: Allora i francesi comandavano, ma gli italiani erano tanti, il popolo dei fedeli erano loro… Adesso, nelle dieci parrocchie della Tunisia, i preti sono 42, di tante nazionalità, e tra loro uno solo è arabo, della Giordania. Prima dell’indipendenza le chiese erano cento. Con il modus vivendi del 1964, l’accordo sottoscritto con lo Stato indipendente, la Chiesa ha tenuto quello che serviva per il popolo cattolico che era rimasto, dopo che la gran parte era andata via. Il resto lo cedette allo Stato: 96 chiese su 100, che vennero tutte sconsacrate. Ora ne abbiamo ripresa qualcuna.
Dove?
LAHHAM: A Djierba la chiesa è stata da poco riconsacrata. Lì negli ultimi anni c’è stato un afflusso turistico enorme. E siccome lì c’è anche una sinagoga, il governo ci teneva a farne una vetrina della Tunisia tollerante, con la chiesa, la moschea e la sinagoga. E per i turisti andava bene.
Certo, non è più il tempo della Tunisie catholique…
LAHHAM: Il cardinale Lavigerie voleva rifare la gloria di Cartagine, in concomitanza con la presenza coloniale francese. Si era fatto nominare primate di tutta l’Africa, con tanto di bolla in latino. Dopo l’indipendenza la Chiesa era ridotta al minimo. Ma quelli rimasti, compresi vescovi e preti, avevano fatto la scelta di aiutare questo popolo a costruire il proprio Stato. Quasi con un senso di riparazione: adesso questo Paese nasce, e noi che eravamo i colonialisti dobbiamo essere qui per aiutarlo. Tanti preti hanno lavorato nei ministeri, nelle scuole, negli ospedali, perché la Tunisia non aveva personale necessario.
Comunque, anche alcune istituzioni sociali cattoliche non sono mai venute meno.
LAHHAM: La clinica Saint Augustin, ad esempio, è attiva dal 1933. Allora era la prima clinica in Tunisia, e l’unica clinica cattolica di tutto il Maghreb.
E poi ci sono le scuole.
LAHHAM: Ne abbiamo dieci, con 5mila studenti musulmani e con personale musulmano. Così manteniamo un contatto con migliaia di famiglie, e loro vedono una Chiesa che serve la popolazione. Nella speranza che questo aiuti a far crescere una generazione aperta verso gli altri.
Il vostro gregge si raccoglie di tempo in tempo in un modo, per così dire, un po’ casuale.
LAHHAM: Certo è una Chiesa sui generis, con gente che arriva da ogni parte, seguendo il grande rimescolamento dei nostri tempi. Sono arrivate da qualche anno centinaia di famiglie di lavoratori della Banca africana, che ha trasferito qui la sua sede, perché la Tunisia è un posto tranquillo. Adesso si parla di un grande progetto francese dell’Airbus, che dovrebbe portare qui altri lavoratori stranieri. Ma ci sono già più di tremila ditte che lavorano sotto dogana, dando lavoro a più di 300mila tunisini. Non ci sono le comunità cristiane autoctone come nei Paesi del Medio Oriente. I rari cristiani del luogo sono casi singoli che provengono da famiglie islamiche.
Si può fare?
LAHHAM: Il proselitismo è vietato. Ma è vietato per tutti, anche per gli islamici. Se qualcuno, per un suo cammino individuale, cambia religione, anche se da musulmano diventa cristiano, non perde i diritti civili. Certo, è una scelta difficile per la pressione sociale e l’ostilità che provoca all’interno della famiglia, ma non ci sono ostacoli di ordine legale e istituzionale.
Comunque la Tunisia è la terra di Tertulliano e Cipriano. Dei martiri scillitani, di Perpetua e Felicita. Nella dinamica pastorale concreta che effetto ha la memoria di questi nomi?
LAHHAM: Abbiamo fatto convegni su Agostino, Tertulliano e fra un anno lo faremo su Cipriano, in collaborazione con la Cattedra Ben Ali per il dialogo interreligioso. Ma nella dinamica pastorale ordinaria, il richiamo a questo grande passato non ha avuto finora un grande effetto. Ce l’ha soprattutto nel rapporto col mondo arabo musulmano della Tunisia. Loro si riconoscono in quel passato cristiano, sentono che fa parte della loro storia, anzi ne sono orgogliosi. Questo contribuisce allo spirito di moderazione caratteristico della Tunisia. Sanno che qui il cristianesimo non era solo un derivato della colonizzazione moderna francese.
Ci hanno detto che, nel sentire comune, anche ai tempi della colonizzazione le suore erano sempre considerate come la parte buona della Chiesa. Quelle che aiutavano la gente e i poveri.
LAHHAM: Adesso in Tunisia ci sono 120 suore, di una quindicina di congregazioni. Fanno un lavoro prezioso, anche con le opere di sostegno agli handicappati e quelle di sostegno scolare. Il pomeriggio, tante case di suore che hanno una biblioteca aprono la loro casa ai ragazzi del quartiere che non possono pagare ripetizioni e lezioni private. Sono centinaia, ogni giorno.
Lei ha partecipato al Sinodo dei vescovi sull’Africa. Qual è stato il suo contributo?
LAHHAM: Al Sinodo ho parlato del rapporto con l’islam che viviamo nei Paesi del Maghreb. Quando si parla di islam in Africa, si pensa solo a quello che succede nell’Africa nera, e si dimentica che su 350 milioni di arabi musulmani più di 200 milioni stanno in Africa del nord. Noi viviamo una condizione diversa da quella che c’è nel resto dell’Africa, dove magari in alcune situazioni si trovano cristiani e musulmani nella stessa famiglia, e sono frequenti i matrimoni misti. Ma siamo lontani anche dall’islamofobia che si aggira in Europa. In Medio Oriente cristiani e musulmani appartengono allo stesso popolo. Le Chiese arabe sono riconosciute come realtà autoctone preesistenti all’islam anche da forze dell’islam politico come Hamas e Hezbollah. Noi invece, siamo come piccole minoranze non più coloniali ma sempre straniere, raccolte qui per intrecci di circostanze, in un mondo completamente islamico. E comunque non mi sembra che siamo così tristi.
Gianni Valente e Stefania Falasca
da 30 Giorni, settembre 2009
La grandeur della Cattedrale, affacciata sul caotico viavai di Place de l’Indépendance, fa sempre una certa impressione. Le due torri si arrampicano nel cielo di Tunisi, lontano dal rumore dei clacson e dei bar all’aperto tra Avenue Bourguiba e Avenue de France, ben più in alto delle palme dei giardini, delle bandiere sui pali della luce e dei ritratti del presidente Zine El Abidine Ben Ali. Se entri dentro, anche le nicchie con le immagini e le statue dei santi, i mosaici dei papi nati in Tunisia, i capitelli, l’altare maggiore danno il senso di un’antica grandezza.
Quando fu definitivamente consacrata, nel 1953, funzionava già da quasi sessant’anni. E proprio quei decenni di esercizio provvisorio, nella grande chiesa incompiuta, col cantiere sempre aperto, erano stati il tempo delle messe solenni con migliaia di fedeli, delle processioni, dei cori, dei comitati per le feste, dei predicatori che riempivano le navate.
Adesso, le stesse navate appaiono fuori misura per i pochi che arrivano uno ad uno e si vanno a sedere nella piccola cappella del Santissimo, per la messa serale quotidiana. Lingue diverse, età diverse, colori della pelle diversi. Con la liturgia celebrata in francese e in italiano. Sull’ultima panca c’è anche il vescovo Maroun, che recita sottovoce il breviario.
DA AGOSTINO AGLI SCHIAVI D’OCCIDENTE
Ahmed si muove con la dimestichezza di chi è di casa tra un sito e l’altro della grande area archeologica di Cartagine, sulla sua Renault Mégane. E in quella piana costiera rimasta segnata dalle opere degli uomini di epoche diverse e lontane, tra le terme monumentali e i porti romani, sa rintracciare gli angoli anche più riposti che hanno a che fare con nomi e storie familiari alla comune memoria cristiana. Sono anni che con la sua agenzia turistica TunisAurea collabora coi suggestivi pellegrinaggi organizzati dal tour operator Brevivet guidando comitive accaldate di turisti sulle orme di sant’Agostino, o alla scoperta delle antiche diocesi dell’Africa vetus, sconfinando talvolta in Algeria per portarli fino all’eremo di Charles de Foucauld. Ci tiene a indicarti l’anfiteatro romano dove Perpetua e Felicita trovarono il trionfo del proprio martirio, e i resti della Basilica di San Cipriano dove Agostino aveva lasciato sua madre Monica a piangere e a pregare, mentre lui s’imbarcava per Roma straziandole il cuore (ma «è impossibile che un figlio di tante lacrime vada perduto», le avrebbe detto un giorno sant’Ambrogio). Non dimentica di mostrare anche le rovine della Domus Caritatis, la sede del primate di Cartagine «che a quel tempo era più importante del Papa». Da musulmano, parla con affetto e senza enfasi della «nostra Chiesa tunisina». Non sembra cercare battute compiacenti, neanche quando con semplicità definisce monsignor Maroun «il mio vescovo».
Di vescovi, nel IV secolo, l’Africa del nord ne contava trecentocinquanta. Erano già diventati settecento nel 430. A detta degli odierni islamofobi, la sparizione di quella cristianità rigogliosa sarebbe tutta da mettere sul conto proprio degli avi di Ahmed, i conquistadores arabo-islamici del VII secolo, e degli indigeni berberi che si unirono alla nuova religione. Ma giocano coi numeri e dimenticano alcune cose. Come, secoli prima di Maometto, lo scisma donatista, che, al tempo di Agostino, contava tanti vescovi quanti la Chiesa cattolica; e poi l’eresia ariana imposta dalla conquista dei Vandali. Per non parlare delle popolazioni berbere che non avevano mai abbracciato la fede in Gesù Cristo, avendola identificata con l’indigesta pax imperiale romana. Se in Tunisia e nel resto del Maghreb non c’è traccia delle Chiese autoctone di origine apostolica che in Egitto e nei Paesi arabi del Medio Oriente hanno finora attraversato secoli di civilizzazione islamica, forse questa latitanza più che con l’islam ha a che vedere proprio con l’impatto che ebbe nell’Africa tardoantica il grande equivoco dei donatisti, i quali dimenticavano che i sacramenti sono del Signore e non proprietà della Chiesa.
Gli studi storici meno prevenuti smentiscono anche il cliché della definitiva e totale sparizione del cristianesimo in terra tunisina dopo la conquista islamica. Qualcosa è rimasto sempre, nelle traversie spesso paradossali della storia. Quando nell’XI secolo arrivano i normanni, i cristiani della strategica Mahdia fanno fronte comune coi musulmani, che trovano rifugio nelle chiese della città costiera per fuggire alle incursioni degli invasori venuti dalla Sicilia. Le cronache locali registrano ancora nel XIV secolo l’esistenza di villaggi cristiani nelle oasi di Nefzawa, Gafsa e Nefta. E già molto prima, c’è chi aveva portato il nome di Cristo nelle terre dell’attuale Tunisia seguendo i sentieri altalenanti delle contingenze storiche e sociali. Sono i commercianti provenzali, gli artigiani siciliani, i marinai genovesi che tirano su chiese e cappelle nelle loro basi sparse a Tunisi, Bizerta, Sfax, Gabès o Djerba. Sono i domenicani spagnoli che nel 1250 aprono a Tunisi un Centro di studi arabi. Sono i soldati della Guardia Franca al servizio del Bey, il sovrano vassallo della Sublime Porta che governava la Tunisia ottomana. Sono soprattutto i battezzati finiti schiavi nelle terre a lui sottoposte. Solo a Tunisi, durante la belle époque della pirateria, ce n’erano almeno 11mila, tenuti in tredici bagni penali dotati di chiese e cappelle officiate da sacerdoti, schiavi anche loro. Da questa realtà san Vincenzo de’ Paoli prenderà spunto per le missioni sui generis dei suoi sacerdoti in terra tunisina: spedizioni annuali realizzate con lo scopo di riscattare schiavi cristiani col denaro o per sostenere spiritualmente chi rimane e scongiurare il pericolo dell’apostasia. Per quest’opera, padre Jean Le Vacher finirà martire, il corpo attaccato a una bocca di cannone. Ma non mancheranno periodi tranquilli, coi preti e gli schiavi cristiani autorizzati a pregare e cantare in processione nelle feste solenni.
IL SOGNO DI LAVIGERIE
«Sine dubio post Romanum Pontificem primus archiepiscopus Nubiae et totius Africae maximus metropolitanus est carthaginiensis episcopus». L’iscrizione latina che sovrasta le navate della Cattedrale di San Luigi, sulla collina-acropoli di Byrsa, ripete il passaggio-chiave della bolla con cui Leone IX (1049-1054) aveva confermato Cartagine quale sede primaziale di tutta l’Africa. Riconoscimento arrivato fuori tempo massimo, visto che la cristianità nordafricana raccontata da Cipriano, Agostino e Fulgenzio era già tramontata da secoli. Ma alla vigilia del ventesimo secolo, ai tempi del protettorato francese, il grande sogno ecclesiale centrato sull’antica Cartagine fu ripreso da Charles Allemand Lavigerie, fondatore dei Padri Bianchi, arcivescovo di Cartagine dal 1884 e futuro cardinale. La Cattedrale issata sull’antica acropoli, con dentro le reliquie di san Luigi, è l’icona architettonica di quel disegno: una re-plantatio Ecclesiae possente, dopo i secoli del nascondimento.
Nei decenni successivi, la generosa aspirazione apostolica sembra prender corpo. Nel 1891 gli stranieri cattolici presenti nella Tunisia – soprattutto francesi e italiani, coi maltesi come terzo gruppo – sono già più di 100mila. Saranno 240mila nel 1946. In quest’arco di tempo, la vivace cattolicità a tinte perlopiù francesi innesta in terra tunisina tutta la robusta gamma di devozioni e opere che fioriscono nella madrepatria. Cappelle, collegi, ospedali, seminari, Conferenze di San Vincenzo e gruppi dell’Azione cattolica. Negli anni Venti del secolo scorso, nel territorio tunisino svolgono il loro apostolato più di mille tra religiose e religiosi. E poi dispensari, benedizioni delle voitures, concorsi per artisti cattolici, scouts, serate di “teatro cattolico”, processioni di 10mila pellegrini fino alla Cattedrale dell’acropoli cartaginese. Non mancano i pellegrinaggi a Roma, con il Bey che manda i saluti al Papa chiedendogli preghiere per la Tunisia. E perfino mobilitazioni culturali in nome della libertas Ecclesiae: «Non dobbiamo più tollerare», scrive la rivista Tunisie catholique nel 1922, «che la nostra religione, dopo venti secoli di storia gloriosa, continui a essere considerata come un fatto individuale e privato senza alcuna influenza sulla vita del Paese, sui costumi e sulle leggi». E non ce l’ha coi musulmani, ma con le politiche anticlericali esportate fin lì da governanti e militanti della laicità alla francese.
La civilizzazione cattolica francese in terra tunisina celebra i suoi fasti seguendo passo passo dinamiche e convulsioni della cattolicità d’origine, rimanendo sostanzialmente una società “fuori frontiera” impermeabile al mondo arabo musulmano in cui vive. Nel 1933 una statua di Lavigerie benedicente viene issata sulla piazza all’ingresso della medina, proprio in faccia alla scuola coranica. Invece, i cattolici italiani (in maggioranza siciliani) e i loro preti – lo nota a più riprese il missionario François Dornier nel bel libro Les catholiques en Tunisie au fil des jours – imparano l’arabo e si mescolano con la gente del posto. Ma sul finire della guerra, i conflitti che dilaniano le nazioni dell’Europa cosiddetta cristiana tolgono enfasi e slancio ai racconti sul fervore della vita ecclesiale in quelle terre d’oltremare.
Nel 1948 sono ancora un milione e duecentomila le ostie distribuite durante le messe. Di lì a qualche anno, tutto questo mondo sembrerà evaporare. Nel 1956, quando la Tunisia ribelle di Habib Bourguiba raggiunge il traguardo dell’indipendenza nazionale, la statua di Lavigerie all’imbocco del suk di Tunisi viene subito rimossa. Simbolo religioso dell’élite coloniale ormai travolta dalla storia. Emblema di un passato che comunque non viene liquidato in blocco con condanna sommaria nella memoria dei tunisini. «Per noi la Chiesa di allora era quella dei preti che benedicevano i soldati e le forze d’occupazione, con le loro rappresaglie. Ma le suore no, quelle erano buone, aiutavano la gente del popolo. A loro, anche allora, volevamo bene», dice oggi il tour operator Ahmed, andando a ritrovare nei suoi ricordi di ragazzo distinzioni quantomai eloquenti.
SENZA PRETENDERE NIENTE
Gli europei, che in Tunisia avevano raggiunto la cifra record di 270mila nel 1956, tre anni dopo sono ridotti a 70mila. Un sondaggio interno del 1964 conterà su tutto il territorio meno di ottomila cattolici praticanti. Quello stesso anno la Santa Sede e lo Stato tunisino sottoscrivono il modus vivendi con cui il rapporto tra Chiesa cattolica e Tunisia indipendente viene ristabilito su nuove basi. L’effetto più eclatante è la cessione allo Stato tunisino di gran parte dei beni immobili ecclesiastici. Delle cento chiese sparse nell’ex protettorato francese, ne vengono sconsacrate più di novanta. A tutt’oggi, anche le ampie navate della grande Cattedrale di San Luigi a Cartagine sono usate per ospitare concerti e mostre di quadri.
Per chi rimane – vescovi, preti, religiosi, laici – quelli seguiti all’indipendenza tunisina sono anni traumatici. Anni di tentativi talvolta un po’ astratti e verbosi di darsi ragione di quello che è successo con uno sforzo di analisi e di autocoscienza. Ma ci sono pure tanti che abbracciano la nuova condizione di povertà. Lavorando in silenzio, senza rivalse e complessi. Così, come viene. Con un cuore e uno sguardo a volte resi più puri. In un Paese arabo a maggioranza islamica che dispiega poco a poco tutte le sue anomalie, con legislazioni d’impronta laicizzante, dove le donne hanno diritto di voto e possono abortire negli ospedali fin dagli anni Cinquanta, e anche le moschee e le scuole coraniche sono tenute a rispettare la laicità dello spazio pubblico.
Se c’è un filo rosso che scorre nei diversi momenti della presenza cristiana in Tunisia, è quello intermittente e precario di una certa occasionalità. Una inabilità a “mettere radici”, una dipendenza da fattori esterni – come le vicende alterne e impreviste della storia, o la distanza turisticamente fruibile dall’Europa – che a volte ingrossano il fiume e a volte lo riducono a piccolo ruscello quasi sperduto nel deserto. Come ai tempi della Chiesa del XVII secolo, fatta di commercianti levantini e di schiavi. Come è stato evidente negli anni Novanta del secolo scorso, quando per contare i battesimi celebrati di anno in anno in tutto il Paese bastavano le dita di una mano, mentre ancora negli anni Venti erano più di tremila.
Forse anche per questo il vescovo Maroun non sembra preoccupato. È aperto con fiducia agli imprevisti. Come il trasferimento a Tunisi della Banca africana dello sviluppo, che negli ultimi anni ha portato centinaia di famiglie africane nella sua diocesi, che adesso gli riempiono la Cattedrale alla messa domenicale. E poi c’è l’arrivo e il passaggio di studenti africani, cristiani mediorientali, e i milioni di turisti occidentali che ogni anno sbarcano a Tunisi, Djerba, Tabarka, Hammamet… «Questa è proprio la Chiesa cattolica», dice ridendo di quei tanti o pochi deracines, miscuglio di genti diverse, individui e famiglie che vanno e vengono, che passano o si fermano qui seguendo i percorsi a volte tortuosi dei propri interessi vitali. Da palestinese di Giordania conosce i beduini e sa bene che le tende leggere sono più adatte alla vita nel deserto e alla mobilità del mondo globale. Da cristiano ha imparato che non si “fonda” una Chiesa come si fa con le case, le società per azioni, le associazioni culturali, i partiti. Non la si “pianta” come si piantano gli alberi, o i piloni di cemento armato. Sa bene che per lui non costruiranno statue e monumenti. E si sorprende a pensare che tutto questo forse è una condizione favorevole per ripetere le parole del suo conterraneo Agostino: «Tutiores vivimus si totum Deo damus». Viviamo più tranquilli, se affidiamo tutto al Signore.
MOMENTI DI STORIA
Dominazione romana
146 a.C. - 439 d.C. Il territorio di Cartagine diventa la provincia Africa: è la prima colonia romana al di là del Mare Nostrum, e ha Utica come capitale. Sarà Augusto a far tornare Cartagine capitale della provincia.
Cristianesimo
Il cristianesimo arriva in queste terre già nel I secolo, ed è fortemente contrastato. La Chiesa vi è regolarmente costituita già a metà del III secolo: Cartagine diviene una delle capitali del cristianesimo occidentale (latino).
Invasione e dominazione dei Vandali
Nel 439, dieci anni dopo aver varcato lo stretto di Gibilterra, i Vandali di Genserico, cristiani ariani, occupano incontrastati Ippona e Cartagine e con esse tutta la provincia.
Dominazione bizantina
Nel settembre 533 Belisario, generale dell’Impero romano d’Oriente, sconfigge i Vandali per conto dell’imperatore Giustiniano dando inizio a centocinquanta anni di dominio bizantino.
Musulmani: arabi e turchi ottomani
A metà del VII secolo ha inizio la penetrazione degli arabi e dell’islam. Tra il 698 e il 702 strappano il Paese ai Bizantini e vi si insediano stabilmente.
Con la conversione dei Berberi all’islam (702), la conquista diviene politicamente irreversibile.
Nel 1574 la Tunisia è annessa all’Impero ottomano. Nel 1705 viene fondata la dinastia Husaynide il cui esponente regnerà come Bey di Tunisi (governatore di province e vassallo della Sublime Porta) fino al 1957.
Colonialismo
Dal 1881 al 1956 la Tunisia, pur formalmente retta dal Bey, con il Trattato del Bardo diviene un protettorato francese.
Indipendenza
Il 20 marzo 1956 il Trattato del Bardo è abrogato e quindi la Tunisia viene dichiarata indipendente.
Il 25 luglio 1957 è proclamata la Repubblica.
Il 1° giugno 1959 viene adottata la prima Costituzione repubblicana che conferma la natura laica dello Stato.
INCONTRO CON IL VESCOVO MAROUN LAHHAM
Un palestinese a Tunisi
Maroun Lahham è il secondo vescovo arabo che viene a guidare la Chiesa in Tunisia provenendo dalla terra di Gesù. Se il suo predecessore Fouad Twal, attuale patriarca latino di Gerusalemme, ricorda sempre i suoi ascendenti beduini, Maroun non dimentica certo mai di essere palestinese di Giordania. Non dimentica i lunghi anni trascorsi a Beit Jala, tra Betlemme e Beit Sahour, come rettore del seminario patriarcale latino. E non ha dimenticato neanche le pietanze arabe che la mamma gli insegnava a cucinare, «perché quando sarai prete non avrai moglie, e dovrai sbrigartela da solo».
La sua Cattedrale porta i nomi di san Vincenzo de’ Paoli e di sant’Oliva, una santa cara ai siciliani. Veder confluire storie e realtà di origine diversa, sembra scritto nel destino della Chiesa in Tunisia…
MAROUN LAHHAM: Allora i francesi comandavano, ma gli italiani erano tanti, il popolo dei fedeli erano loro… Adesso, nelle dieci parrocchie della Tunisia, i preti sono 42, di tante nazionalità, e tra loro uno solo è arabo, della Giordania. Prima dell’indipendenza le chiese erano cento. Con il modus vivendi del 1964, l’accordo sottoscritto con lo Stato indipendente, la Chiesa ha tenuto quello che serviva per il popolo cattolico che era rimasto, dopo che la gran parte era andata via. Il resto lo cedette allo Stato: 96 chiese su 100, che vennero tutte sconsacrate. Ora ne abbiamo ripresa qualcuna.
Dove?
LAHHAM: A Djierba la chiesa è stata da poco riconsacrata. Lì negli ultimi anni c’è stato un afflusso turistico enorme. E siccome lì c’è anche una sinagoga, il governo ci teneva a farne una vetrina della Tunisia tollerante, con la chiesa, la moschea e la sinagoga. E per i turisti andava bene.
Certo, non è più il tempo della Tunisie catholique…
LAHHAM: Il cardinale Lavigerie voleva rifare la gloria di Cartagine, in concomitanza con la presenza coloniale francese. Si era fatto nominare primate di tutta l’Africa, con tanto di bolla in latino. Dopo l’indipendenza la Chiesa era ridotta al minimo. Ma quelli rimasti, compresi vescovi e preti, avevano fatto la scelta di aiutare questo popolo a costruire il proprio Stato. Quasi con un senso di riparazione: adesso questo Paese nasce, e noi che eravamo i colonialisti dobbiamo essere qui per aiutarlo. Tanti preti hanno lavorato nei ministeri, nelle scuole, negli ospedali, perché la Tunisia non aveva personale necessario.
Comunque, anche alcune istituzioni sociali cattoliche non sono mai venute meno.
LAHHAM: La clinica Saint Augustin, ad esempio, è attiva dal 1933. Allora era la prima clinica in Tunisia, e l’unica clinica cattolica di tutto il Maghreb.
E poi ci sono le scuole.
LAHHAM: Ne abbiamo dieci, con 5mila studenti musulmani e con personale musulmano. Così manteniamo un contatto con migliaia di famiglie, e loro vedono una Chiesa che serve la popolazione. Nella speranza che questo aiuti a far crescere una generazione aperta verso gli altri.
Il vostro gregge si raccoglie di tempo in tempo in un modo, per così dire, un po’ casuale.
LAHHAM: Certo è una Chiesa sui generis, con gente che arriva da ogni parte, seguendo il grande rimescolamento dei nostri tempi. Sono arrivate da qualche anno centinaia di famiglie di lavoratori della Banca africana, che ha trasferito qui la sua sede, perché la Tunisia è un posto tranquillo. Adesso si parla di un grande progetto francese dell’Airbus, che dovrebbe portare qui altri lavoratori stranieri. Ma ci sono già più di tremila ditte che lavorano sotto dogana, dando lavoro a più di 300mila tunisini. Non ci sono le comunità cristiane autoctone come nei Paesi del Medio Oriente. I rari cristiani del luogo sono casi singoli che provengono da famiglie islamiche.
Si può fare?
LAHHAM: Il proselitismo è vietato. Ma è vietato per tutti, anche per gli islamici. Se qualcuno, per un suo cammino individuale, cambia religione, anche se da musulmano diventa cristiano, non perde i diritti civili. Certo, è una scelta difficile per la pressione sociale e l’ostilità che provoca all’interno della famiglia, ma non ci sono ostacoli di ordine legale e istituzionale.
Comunque la Tunisia è la terra di Tertulliano e Cipriano. Dei martiri scillitani, di Perpetua e Felicita. Nella dinamica pastorale concreta che effetto ha la memoria di questi nomi?
LAHHAM: Abbiamo fatto convegni su Agostino, Tertulliano e fra un anno lo faremo su Cipriano, in collaborazione con la Cattedra Ben Ali per il dialogo interreligioso. Ma nella dinamica pastorale ordinaria, il richiamo a questo grande passato non ha avuto finora un grande effetto. Ce l’ha soprattutto nel rapporto col mondo arabo musulmano della Tunisia. Loro si riconoscono in quel passato cristiano, sentono che fa parte della loro storia, anzi ne sono orgogliosi. Questo contribuisce allo spirito di moderazione caratteristico della Tunisia. Sanno che qui il cristianesimo non era solo un derivato della colonizzazione moderna francese.
Ci hanno detto che, nel sentire comune, anche ai tempi della colonizzazione le suore erano sempre considerate come la parte buona della Chiesa. Quelle che aiutavano la gente e i poveri.
LAHHAM: Adesso in Tunisia ci sono 120 suore, di una quindicina di congregazioni. Fanno un lavoro prezioso, anche con le opere di sostegno agli handicappati e quelle di sostegno scolare. Il pomeriggio, tante case di suore che hanno una biblioteca aprono la loro casa ai ragazzi del quartiere che non possono pagare ripetizioni e lezioni private. Sono centinaia, ogni giorno.
Lei ha partecipato al Sinodo dei vescovi sull’Africa. Qual è stato il suo contributo?
LAHHAM: Al Sinodo ho parlato del rapporto con l’islam che viviamo nei Paesi del Maghreb. Quando si parla di islam in Africa, si pensa solo a quello che succede nell’Africa nera, e si dimentica che su 350 milioni di arabi musulmani più di 200 milioni stanno in Africa del nord. Noi viviamo una condizione diversa da quella che c’è nel resto dell’Africa, dove magari in alcune situazioni si trovano cristiani e musulmani nella stessa famiglia, e sono frequenti i matrimoni misti. Ma siamo lontani anche dall’islamofobia che si aggira in Europa. In Medio Oriente cristiani e musulmani appartengono allo stesso popolo. Le Chiese arabe sono riconosciute come realtà autoctone preesistenti all’islam anche da forze dell’islam politico come Hamas e Hezbollah. Noi invece, siamo come piccole minoranze non più coloniali ma sempre straniere, raccolte qui per intrecci di circostanze, in un mondo completamente islamico. E comunque non mi sembra che siamo così tristi.
Gianni Valente e Stefania Falasca
da 30 Giorni, settembre 2009
4 dicembre 2009
Conoscere l'Africa 3: intervento di Piero Gheddo
NON SOLTANTO AIUTI ECONOMICI.
SVILUPPO E GIUSTIZIA COMINCIANO CON L’ISTRUZIONE
L’allarme continua a risuonare, sempre uguale eppure sempre più forte: nel 1996 c’erano 830 milioni di affamati nel mondo; oggi a soffrire sono un miliardo e venti milioni di persone. Un popolo sterminato davanti al quale è impossibile chiudere gli occhi. Il segretario generale della Fao, il senegalese Jacques Diouf, afferma che questa è «la peggiore crisi di fame nel mondo degli ultimi quarant’anni» e spiega che «servono circa 44 miliardi di dollari» per ingaggiare e vincere la battaglia. Richiesta sacrosanta, che rimbalza nei mass media internazionali, ma a quanto pare – oggi come ieri – senza la minima possibilità di ottenere più di un’eco. Il mondo è ancora in crisi economica, e a tutti sembra che la fame di così tanti esseri umani sia soprattutto il risultato di una mancanza di soldi.
Da cinquant’anni visito l’Africa. Il ritornello che più spesso ho sentito ripetere da missionari e volontari italiani tra i contadini più poveri e meno istruiti è questo: «Qui si produce troppo poco per mantenere un Paese come questo, la cui popolazione aumenta rapidamente». La Fao stessa, sin dal principio di questo terzo millennio, segnala che l’Africa profonda importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, grano, mais). E io cito spesso questa esperienza esemplare e significativa: a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale dell’Africa a sud del Sahara 5 quintali. La differenza tra 80 e 5 è l’abisso che c’è tra ricchi e poveri del mondo. E si noti, la minor produzione non è data dalla mancanza di macchine, ma dalla poca istruzione del contadino africano. Le campagne africane sono un cimitero di trattori che non funzionano, di pozzi da cui non si sa più tirar su l’acqua.
In altre parole, i soldi per lo sviluppo ci vogliono e tutti ci auguriamo che il mondo sviluppato tiri fuori i 44 miliardi richiesti dalla Fao. Ma assieme ai finanziamenti e alle tecnologie sono indispensabili uomini e donne che consacrino la vita (o qualche anno della loro vita) per compiere con le popolazioni locali un cammino di crescita comune, anche in campo agricolo. Giovanni Paolo II scriveva nella Redemptoris Missio (n. 58): «I missionari sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi». Visitando l’Africa rurale, si incontrano fiorenti poli di sviluppo tra popolazioni poverissime, originati da missionari e da volontari che hanno puntato sulla sviluppo umano della gente del posto. Bisogna rendersi conto del fatto che i governanti africani, per mille motivi fra i quali anzitutto la corruzione e anche per la vastità del territori loro affidati, trascurano le campagne (e magari le cedono a società o, direttamente, a potenze straniere). In molti villaggi africani si ignora la ruota, la carriola e il carro agricolo (le donne portano tutto sulla testa), l’aratro, i fertilizzanti, il piccolo mulino ad acqua, l’irrigazione artificiale, la piscicoltura nei laghetti artificiali... Ma chi va a insegnare la via verso queste piccole e decisive rivoluzioni non violente?
E ancora: il 50% degli africani è analfabeta e molti di quelli già 'alfabetizzati' non sanno più leggere né scrivere. Come può svilupparsi un popolo semi-analfabeta in un mondo come il nostro? Dell’emergenza educativa in Africa, però, non si parla mai. Si parla – quasi sempre senza seguito – di aumentare gli aiuti economici, dei prezzi delle derrate alimentari e di altre situazioni che opprimono i popoli più poveri e meno istruiti, che non hanno la forza e, spesso, nemmeno la coscienza di dover protestare. Eppure lo sviluppo di un popolo parte dall’interno del popolo stesso e passa inevitabilmente per l’istruzione. Primo investimento strutturale contro il sottosviluppo, la sottomissione e la corruzione.
PIERO GHEDDO
APPELLO URGENTE: AIUTI PER IL CORNO D'AFRICA,
28 MILIONI DI PERSONE SONO A RISCHIO
Le agenzie umanitarie continuano a lanciare appelli urgenti con la richiesta di aiuti per la più grande siccità che abbia colpito l’Africa orientale negli ultimi dieci anni. Gli esperti ritengono che la sopravvivenza di 28 milioni di persone in alcune aree di Kenya, Etiopia, Uganda, Tanzania ed Eritrea sia a forte rischio, minacciata dalla mancanza di piogge e dal deperimento dei campi coltivabili, che non producono cibo a sufficienza. Una delle peggiori situazioni si ha nel Nord-Est del Kenya, dove la mancanza di piogge che si protrae da tre anni ha inasprito ancor più il terreno, provocando un accumularsi di scheletriche carcasse di animali morti lungo le strade. Il 70% del bestiame, tra vacche e capre, è stato completamente sterminato solo nell’ultimo anno, mettendo in pericolo le comunità che da esso dipendono per l’alimentazione e il commercio. «In alcune zone del Kenya – afferma John Morris, responsabile dell’agenzia umanitaria keniota Plan – i bambini sotto i sei anni non hanno mai visto precipitazioni. Ciò dimostra quanto difficili siano le sfide a lungo termine che affrontiamo per via del cambiamento climatico».
Matteo Fraschini Koffi
IL MISSIONARIO: «Qui tè mattina e sera, non c’è più altro cibo»
«Tutto bruciato. Un anno da diventare pazzi. L’unica acqua che abbiamo è quella del pozzo, che per fortuna non è mai scesa. C’è solo una parola per descrivere la situazione: tremenda. Noi ci troviamo dentro una piana enorme. Non si vede una montagna all’orizzonte. Un avamposto che conterà duemila anime, tra Isiolo e Marsabit, e che si chiama Sereolipi, nella lingua locale significa 'Fiume sterile'. E questo, mi pare, già dice molto sulla nostra condizione sfavorevole. Mentre fuori, nel deserto attorno, chissà, vi saranno altri 6- 7mila individui».
Trentino di Novaledo, Valsugana, faccia, barba e capelli bianchi che ricordano Ernest Hemingway, invidiabili 70 anni, padre Egidio Pedenzini, missionario della Consolata, 42 anni di 'safari', come si usa dire in Africa, ancora non è stanco di costruire nuove cisterne. Quello che da un anno sta facendo a Sereolipi, nel distretto di Samburu. Insieme al padre colombiano Alberto Jairo.
«La scorsa settimana ha piovuto, e speriamo che lo faccia ancora per le cisterne di 47mila e 69mila litri che abbiamo realizzato a favore della gente di Sereolipi. Gli unici collettori d’acqua in non so quanti chilometri quadrati di territorio – racconta padre Egidio –. Altrimenti, i nomadi scavano nel letto di un fiume e da lì tirano fuori l’acqua che filtra dalla sabbia. Più pantano che liquido. E devono scavare sempre più in profondità per trovarla, per loro e per il bestiame». A Nairobi per una visita medica – a 'Fiume sterile' non esiste nulla se non la missione in costruzione, dove ancora i religiosi dormono per terra e per cercare campo per il telefono sono obbligati a fare in auto 70 chilometri – il missionario aggiunge: «La fame dalle nostre parti è tremenda. Dovreste sentire l’odore dei corpi degli animali morti che ammorba l’aria ovunque. Le capre rinsecchite, le vacche schiantate dalla fame. Questa è fame anche per la nostra gente. Dovreste vedere i loro volti macilenti e tristi. Cosa possiamo fare?
Quando siamo in grado, li aiutiamo con un po’ di fagioli e di olio. Poche cose, quello che abbiamo: giusto per sopravvivere uno, due giorni. Viviamo in una realtà in cui dobbiamo importare tutto da fuori, dalla benzina per i viaggi ai chiodi. Se ci si ammala, resta solo da pregare Dio. Da noi diciamo: non farti distrarre da quelli che sulla strada ti possono sparare, ma tieni d’occhio la strada che stai percorrendo. Mulattiere indecenti, corrugate all’inverosimile, se prendi male una piega, ti ribalti e ti spezzi l’osso del collo».
Gli chiediamo se è a conoscenza di vittime per fame: «Morti per fame da noi? Non ancora. Tanti giovani, e questo mi fa tristezza, vengono da me per chiedermi cibo. Di quelli ce ne sono, eccome: 'Padre, dammi qualcosa da mangiare. Ho fame'. Ha piovuto nei giorni scorsi, ed è una speranza. Basta poca acqua per far riprendere la natura, il pascolo per il bestiame, quindi il latte.
Nutrimento essenziale per la nostra gente.
Perché dovete sapere che in tempi normali loro bevono solo una tazza di tè la mattina, con un po’ di latte. Se riescono a mangiare qualcosa a mezzodì, bene. Altrimenti tè e molto zucchero, di cui sono ghiotti, anche la sera, quando hanno l’opportunità di poter vendere un animale. Se quello, però, non muore. Il futuro? È nelle mani di Dio. Se le piogge sono già finite, è la fine».
Claudio Monici
da "Avvenire", 15 novembre 2009
SVILUPPO E GIUSTIZIA COMINCIANO CON L’ISTRUZIONE
L’allarme continua a risuonare, sempre uguale eppure sempre più forte: nel 1996 c’erano 830 milioni di affamati nel mondo; oggi a soffrire sono un miliardo e venti milioni di persone. Un popolo sterminato davanti al quale è impossibile chiudere gli occhi. Il segretario generale della Fao, il senegalese Jacques Diouf, afferma che questa è «la peggiore crisi di fame nel mondo degli ultimi quarant’anni» e spiega che «servono circa 44 miliardi di dollari» per ingaggiare e vincere la battaglia. Richiesta sacrosanta, che rimbalza nei mass media internazionali, ma a quanto pare – oggi come ieri – senza la minima possibilità di ottenere più di un’eco. Il mondo è ancora in crisi economica, e a tutti sembra che la fame di così tanti esseri umani sia soprattutto il risultato di una mancanza di soldi.
Da cinquant’anni visito l’Africa. Il ritornello che più spesso ho sentito ripetere da missionari e volontari italiani tra i contadini più poveri e meno istruiti è questo: «Qui si produce troppo poco per mantenere un Paese come questo, la cui popolazione aumenta rapidamente». La Fao stessa, sin dal principio di questo terzo millennio, segnala che l’Africa profonda importa circa il 30% del cibo di base che consuma (riso, grano, mais). E io cito spesso questa esperienza esemplare e significativa: a Vercelli produciamo 80 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale dell’Africa a sud del Sahara 5 quintali. La differenza tra 80 e 5 è l’abisso che c’è tra ricchi e poveri del mondo. E si noti, la minor produzione non è data dalla mancanza di macchine, ma dalla poca istruzione del contadino africano. Le campagne africane sono un cimitero di trattori che non funzionano, di pozzi da cui non si sa più tirar su l’acqua.
In altre parole, i soldi per lo sviluppo ci vogliono e tutti ci auguriamo che il mondo sviluppato tiri fuori i 44 miliardi richiesti dalla Fao. Ma assieme ai finanziamenti e alle tecnologie sono indispensabili uomini e donne che consacrino la vita (o qualche anno della loro vita) per compiere con le popolazioni locali un cammino di crescita comune, anche in campo agricolo. Giovanni Paolo II scriveva nella Redemptoris Missio (n. 58): «I missionari sono riconosciuti anche come promotori di sviluppo da governi ed esperti internazionali, i quali restano ammirati del fatto che si ottengano notevoli risultati con scarsi mezzi». Visitando l’Africa rurale, si incontrano fiorenti poli di sviluppo tra popolazioni poverissime, originati da missionari e da volontari che hanno puntato sulla sviluppo umano della gente del posto. Bisogna rendersi conto del fatto che i governanti africani, per mille motivi fra i quali anzitutto la corruzione e anche per la vastità del territori loro affidati, trascurano le campagne (e magari le cedono a società o, direttamente, a potenze straniere). In molti villaggi africani si ignora la ruota, la carriola e il carro agricolo (le donne portano tutto sulla testa), l’aratro, i fertilizzanti, il piccolo mulino ad acqua, l’irrigazione artificiale, la piscicoltura nei laghetti artificiali... Ma chi va a insegnare la via verso queste piccole e decisive rivoluzioni non violente?
E ancora: il 50% degli africani è analfabeta e molti di quelli già 'alfabetizzati' non sanno più leggere né scrivere. Come può svilupparsi un popolo semi-analfabeta in un mondo come il nostro? Dell’emergenza educativa in Africa, però, non si parla mai. Si parla – quasi sempre senza seguito – di aumentare gli aiuti economici, dei prezzi delle derrate alimentari e di altre situazioni che opprimono i popoli più poveri e meno istruiti, che non hanno la forza e, spesso, nemmeno la coscienza di dover protestare. Eppure lo sviluppo di un popolo parte dall’interno del popolo stesso e passa inevitabilmente per l’istruzione. Primo investimento strutturale contro il sottosviluppo, la sottomissione e la corruzione.
PIERO GHEDDO
APPELLO URGENTE: AIUTI PER IL CORNO D'AFRICA,
28 MILIONI DI PERSONE SONO A RISCHIO
Le agenzie umanitarie continuano a lanciare appelli urgenti con la richiesta di aiuti per la più grande siccità che abbia colpito l’Africa orientale negli ultimi dieci anni. Gli esperti ritengono che la sopravvivenza di 28 milioni di persone in alcune aree di Kenya, Etiopia, Uganda, Tanzania ed Eritrea sia a forte rischio, minacciata dalla mancanza di piogge e dal deperimento dei campi coltivabili, che non producono cibo a sufficienza. Una delle peggiori situazioni si ha nel Nord-Est del Kenya, dove la mancanza di piogge che si protrae da tre anni ha inasprito ancor più il terreno, provocando un accumularsi di scheletriche carcasse di animali morti lungo le strade. Il 70% del bestiame, tra vacche e capre, è stato completamente sterminato solo nell’ultimo anno, mettendo in pericolo le comunità che da esso dipendono per l’alimentazione e il commercio. «In alcune zone del Kenya – afferma John Morris, responsabile dell’agenzia umanitaria keniota Plan – i bambini sotto i sei anni non hanno mai visto precipitazioni. Ciò dimostra quanto difficili siano le sfide a lungo termine che affrontiamo per via del cambiamento climatico».
Matteo Fraschini Koffi
IL MISSIONARIO: «Qui tè mattina e sera, non c’è più altro cibo»
«Tutto bruciato. Un anno da diventare pazzi. L’unica acqua che abbiamo è quella del pozzo, che per fortuna non è mai scesa. C’è solo una parola per descrivere la situazione: tremenda. Noi ci troviamo dentro una piana enorme. Non si vede una montagna all’orizzonte. Un avamposto che conterà duemila anime, tra Isiolo e Marsabit, e che si chiama Sereolipi, nella lingua locale significa 'Fiume sterile'. E questo, mi pare, già dice molto sulla nostra condizione sfavorevole. Mentre fuori, nel deserto attorno, chissà, vi saranno altri 6- 7mila individui».
Trentino di Novaledo, Valsugana, faccia, barba e capelli bianchi che ricordano Ernest Hemingway, invidiabili 70 anni, padre Egidio Pedenzini, missionario della Consolata, 42 anni di 'safari', come si usa dire in Africa, ancora non è stanco di costruire nuove cisterne. Quello che da un anno sta facendo a Sereolipi, nel distretto di Samburu. Insieme al padre colombiano Alberto Jairo.
«La scorsa settimana ha piovuto, e speriamo che lo faccia ancora per le cisterne di 47mila e 69mila litri che abbiamo realizzato a favore della gente di Sereolipi. Gli unici collettori d’acqua in non so quanti chilometri quadrati di territorio – racconta padre Egidio –. Altrimenti, i nomadi scavano nel letto di un fiume e da lì tirano fuori l’acqua che filtra dalla sabbia. Più pantano che liquido. E devono scavare sempre più in profondità per trovarla, per loro e per il bestiame». A Nairobi per una visita medica – a 'Fiume sterile' non esiste nulla se non la missione in costruzione, dove ancora i religiosi dormono per terra e per cercare campo per il telefono sono obbligati a fare in auto 70 chilometri – il missionario aggiunge: «La fame dalle nostre parti è tremenda. Dovreste sentire l’odore dei corpi degli animali morti che ammorba l’aria ovunque. Le capre rinsecchite, le vacche schiantate dalla fame. Questa è fame anche per la nostra gente. Dovreste vedere i loro volti macilenti e tristi. Cosa possiamo fare?
Quando siamo in grado, li aiutiamo con un po’ di fagioli e di olio. Poche cose, quello che abbiamo: giusto per sopravvivere uno, due giorni. Viviamo in una realtà in cui dobbiamo importare tutto da fuori, dalla benzina per i viaggi ai chiodi. Se ci si ammala, resta solo da pregare Dio. Da noi diciamo: non farti distrarre da quelli che sulla strada ti possono sparare, ma tieni d’occhio la strada che stai percorrendo. Mulattiere indecenti, corrugate all’inverosimile, se prendi male una piega, ti ribalti e ti spezzi l’osso del collo».
Gli chiediamo se è a conoscenza di vittime per fame: «Morti per fame da noi? Non ancora. Tanti giovani, e questo mi fa tristezza, vengono da me per chiedermi cibo. Di quelli ce ne sono, eccome: 'Padre, dammi qualcosa da mangiare. Ho fame'. Ha piovuto nei giorni scorsi, ed è una speranza. Basta poca acqua per far riprendere la natura, il pascolo per il bestiame, quindi il latte.
Nutrimento essenziale per la nostra gente.
Perché dovete sapere che in tempi normali loro bevono solo una tazza di tè la mattina, con un po’ di latte. Se riescono a mangiare qualcosa a mezzodì, bene. Altrimenti tè e molto zucchero, di cui sono ghiotti, anche la sera, quando hanno l’opportunità di poter vendere un animale. Se quello, però, non muore. Il futuro? È nelle mani di Dio. Se le piogge sono già finite, è la fine».
Claudio Monici
da "Avvenire", 15 novembre 2009
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