NOI MISSIONARI NON POSSIAMO TACERE
Conferenza degli Istituti Missionari Italiani (CIMI)
Commissione di Giustizia, Pace e Integrità del Creato della CIMI
Firenze, 30 giugno 2010
“Oggi la forma di povertà più vistosa e drammatica in Italia- ha scritto il coraggioso vescovo emerito di Caserta, R. Nogaro - è quella degli immigrati e dei rom. In nome di una fantomatica ‘sicurezza sociale’ si sta costruendo, soprattutto nel nostro paese, la fabbrica della paura verso tutto ciò che può ledere la tranquillità del cittadino. Per questa prospettiva inquietante l’incriminato di dovere è l’immigrato ed è il rom, considerati quasi naturalmente soggetti di reato.”
In poche lapidarie parole Mons. Nogaro, che ben conosce i problemi degli immigrati di Caserta e di Castelvolturno, ci ha messo davanti agli occhi il dramma di questi fratelli e sorelle immigrati nel nostro paese.
Il contesto europeo
Viviamo nell'epoca della più grande mobilità della storia conosciuta. Oltre 214 milioni di migranti internazionali, vi sono circa 740 milioni di sfollati, in parte sfollati interni. Ciò significa che una persona su sette nel mondo è un migrante. (Peter Schatzer, Plenaria del Pontificio Consiglio per la Cura Pastorale dei Migranti,Roma,Maggio 2010).
Nei 27 Paesi dell'UE si calcolano 24 milioni di migranti, per la più parte provenienti dagli stessi Paesi dell'Unione. Secondo valutazioni recenti i migranti 'irregolari' sarebbero fra i 4.5 e gli 8 milioni, con un aumento stimato fra i 350 e i 500 mila all'anno. Di fatto, l'Europa, sentendosi 'fortezza' assediata, affronta sulla difensiva il fenomeno della mobilità. La 'governance' delle migrazioni e la lotta contro l'immigrazione irregolare sono prospettate come la soluzione principale per dare sicurezza alle società europee, inserendo il controllo dell'immigrazione nell'ottica della lotta al terrorismo... viene, così, proposta e ribadita la trilogia inaccettabile: 'immigrazione – criminalità e terrorismo – insicurezza'. Per tale ragione, la politica migratoria dell'Europa afferma la chiusura delle frontiere alle persone, ma la libertà di circolazione alle informazioni, ai beni ed ai capitali. Si va diffondendo un atteggiamento politico di rifiuto degli immigrati, mentre le economie continuano a richiederne l'assunzione. Probabilmente vedremo presto calare nuove cortine di ferro, con serrati pattugliamenti alle frontiere e nuove misure di difesa delle coste. C'è chi si azzarda ad affermare che il rafforzamento delle frontiere non serve solo ed in primo luogo a fermare i movimenti migratori -i quali di fatto continuano- ma a definire come irregolari i migranti che le attraversano, dando loro un'identità che li pone in una posizione di inferiorità e di mancanza di diritti: un esercito di invisibili ricattabile e sfruttabile (Mons.Antonio M. Vegliò,VIII congresso Eu, Màlaga, aprile- maggio 2010).
Il contesto italiano
Xenofobia montante
Noi missionari che siamo stati a lungo ospiti dei popoli africani, sudamericani, asiatici assistiamo ora in patria ad un accanimento senza precedenti nei confronti degli immigrati in mezzo a noi. Stiamo assistendo a una massiccia e crescente violazione dei diritti umani nei loro confronti. E questo avviene nell’indifferenza da parte dei cittadini italiani, immemori di quanto i nostri migranti avevano sofferto. Non stiamo forse ripetendo sugli immigrati in mezzo a noi quello che i nostri nonni hanno subito quando anche loro emigravano?
Non possiamo accettare che il capo del Governo italiano affermi che: ”Una riduzione degli extra comunitari significa meno forze che vanno ad ingrossare la criminalità”. E’ un’affermazione molto grave. Il segretario della CEI, mons. Crociata ha ribattuto giustamente: ”Gli immigrati delinquono tanto quanto gli italiani. Non è vero che riducendo gli immigrati clandestini si riduce anche la criminalità“. Una menzogna , ma rilanciata con forza da una stampa nazionale che fomenta la paura “dell’altro”. In questo paese stiamo assistendo a un crescendo di dichiarazioni, di leggi, di normative che non fanno altro che attizzare un crescente razzismo e una forte xenofobia.
Da parte di ogni schieramento politico
E questo non solo da oggi, ma da quasi 20 anni. A cominciare dalla legge Turco-Napolitano (1998) che è alla base del Testo unico per l’immigrazione e ha dato inizio ai Centri di Permanenza Temporanea (CPT) che si sono poi rivelati dei veri e propri lager. Seguita nel 2002 dalla legge Bossi-Fini che ha modificato il Testo unico. Questa legge introduce il contratto di lavoro, cui è subordinato il rilascio del permesso di soggiorno, prevede l’espulsione con decreto motivato, disposto dal questore e decreta sanzioni (fino al carcere) per la disobbedienza all’ordine del pubblico ufficiale.
Noi riteniamo immorale e non-costituzionale la Bossi-Fini, perché non riconosce gli immigrati come soggetti di diritto, ma li riconosce come forza-lavoro, pagata a basso prezzo e da rispedire al mittente, quando non ci serve più. La Bossi-Fini costituisce un fatto gravissimo in chiave giuridica (vari giudici l’hanno dichiarata non costituzionale!), ma soprattutto in chiave etica.
Il Pacchetto Sicurezza (Legge 94-2009) introduce nell’ordinamento italiano l’aggravante della pena per clandestinità dell’immigrato, pene reclusive fino a tre anni per chi ceda un immobile a un clandestino, trasforma i CPT in centri di Identificazione e Espulsione (CIE), vieta a una clandestina che partorisce in ospedale di riconoscere il bimbo come suo, impone una tassa sul permesso di soggiorno e norme restrittive sui ricongiungimenti familiari. In questo modo, per la prima volta, il clandestino diventa un criminale! In questo quadro si inseriscono anche le ordinanze del Presidente del Consiglio dei Ministri, che decretano lo stato di emergenza per le comunità nomadi-rom del Lazio, Campania e Lombardia e impongono il vergognoso atto della schedatura di rom e sinti attraverso la raccolta forzosa delle impronte digitali per l’identificazione e il censimento degli abitanti dei campi.
Concordiamo con Famiglia Cristiana quando ha definito il Pacchetto Sicurezza la “cattiveria trasformata in legge”.
Razzismo istituzionale
Questa legislazione comporta un aggravio molto pesante sulle spalle degli immigrati: i versamenti di contributi onerosi per ottenere permessi di soggiorno e di cittadinanza, l’obbligo di presentare un documento che attesti la regolarità del soggiorno per la celebrazione del matrimonio, la verifica da parte del Comune delle condizioni igienico-sanitarie dell’immobile e le pesanti sanzioni previste per la mancata esibizione dei documenti.
Se a tutto questo si aggiungono l’aggravante di clandestinità che comporta l’aumento di un terzo della pena, le decine di ordinanze per il ‘ decoro urbano’ di enti locali (dal divieto di trasportare borsoni a quelle contro i lavavetri!) che creano un ” diritto speciale” riservato alle aree di povertà urbane o dell’immigrazione, abbiamo davvero l’impressione di essere di fronte a leggi che riflettono “un razzismo istituzionale, come afferma il filosofo L. Ferrajoli, che vale a fomentare gli umori xenofobi e il razzismo endemico presenti nell’elettorato dei paesi ricchi.” A quanto detto bisogna aggiungere le due ultime novità: una pagella a punti perché un immigrato possa ottenere la cittadinanza italiana (approvata una bozza di regolamento a maggio 2010) e poi la decisione dell’11/03/2010 della Corte di Cassazione che gli immigrati irregolari vanno espulsi, anche se hanno figli minorenni che frequentano la scuola. Incredibile ma vero: la legalità delle frontiere prevale sulle esigenze di tutela del diritto allo studio dei minori. Da tutto questo ne esce compromessa la nostra stessa democrazia. “Oggi la novità della criminalizzazione degli immigrati - ha detto il filosofo L.Ferrajoli all’incontro tenutosi nel settembre 2009 a Lampedusa , sul tema: La frontiera dei diritti . Il diritto alla frontiera – compromette radicalmente l’identità democratica del nostro paese. Giacché essa ha creato una nuova figura:quella della persona illegale, fuorilegge solo perché tale, non-persona perché priva di diritto e perciò esposta a qualunque tipo di vessazione: destinata dunque a generare un nuovo proletariato discriminato giuridicamente, e non più solo, come i vecchi immigrati, economicamente e socialmente. ” E’ lo stesso Ferrajoli a tirarne le conclusioni: ”Queste norme e queste pratiche rivelano insomma un vero e proprio razzismo istituzionale… Esse esprimono l’immagine dell’immigrato come ‘cosa’, come non-persona, il cui solo valore è quello di mano d’opera a basso prezzo per lavori faticosi o pericolosi o umilianti: tutto, fuorché un essere umano, titolare di diritti al pari dei cittadini.” E allo stesso convegno di Lampedusa , il noto magistrato Livio Pepino ha aggiunto: ”Il diritto penale, a sua volta, assume una nuova curvatura: non contro il migrante che delinque, ma contro il migrante in quanto tale. Infatti con l’introduzione del reato di ‘immigrazione irregolare’ si prosegue nella impostazione di punire non un fatto, ma una condizione personale: è il migrante che diventa reato.”
Noi riteniamo infatti che tutta questa legislazione è il risultato di un mondo politico di destra e di sinistra che ha messo alla gogna lavavetri, ambulanti, rom e incarna una cultura xenofoba e razzista che ci sta portando nel baratro dell’esclusione e del rifiuto dell’”altro”, specie del musulmano.
I nuovi lager
Altro capitolo dolente dell’attuale ordinamento giuridico nei confronti degli immigrati sono i Centri che prima si chiamavano Centri di Permanenza Temporanea (CPT) e che la nuova legislazione chiama Centri di Identificazione ed Espulsione (CIE) dove gli immigrati sono rinchiusi per sei mesi (prima era di sessanta giorni).
La situazione dei CIE è ancora peggiore di quella dei CPT. Da fonti sicure sappiamo che nei CIE si moltiplicano le violenze e i soprusi, mentre si susseguono le rivolte sempre represse con violenti pestaggi.
“Questi centri sono veri luoghi di detenzione – scrive sempre L. Ferrajoli – una detenzione per altro ancora più grave e penosa di quella carceraria, dato che è sottratta a tutte le garanzie previste per i detenuti, a cominciare dal ruolo di controllo svolto dalla magistratura di sorveglianza. Sono stati creati così dei campi di concentramento in cui vengono recluse “persone che non hanno fatto nulla di male, ma che vengono private di qualunque diritto, e sottoposte ad un trattamento punitivo, senza neppure i diritti e le garanzie che accompagnano la stessa pena della reclusione.”
Ancora più drammatica la situazione degli immigrati nei campi libici, che sono degli autentici campi di concentramento.
Ha ragione la prof.ssa L.Melillo dell’Orientale di Napoli in un recente volume A distanza d’offesa (a cura di A. Esposito e L. Melillo) a scrivere: ”Sembra palesarsi il rischio di una deriva razzista che fa del corpo dello straniero il capro espiatorio delle crisi della nostra società.”
I luoghi della vergogna
Inumano è infine il trattamento che gli immigrati braccianti ed operai subiscono nel Paese, sia sul lavoro sia nelle abitazioni. Luoghi come Castelvolturno (Caserta), S. Nicola a Varco (Salerno), Rosarno (Reggio Calabria ), Cassibile (Siracusa) sono ormai entrati nell’immaginario collettivo italiano. Questi sono i luoghi della vergogna dove vivono i braccianti agricoli che raccolgono i nostri pomodori, le arance, le patate, …
Il più noto è certamente Castelvolturno nel casertano con una popolazione di 15.000 abitanti dei quali almeno 5.000 sono immigrati che lavorano nelle campagne del casertano e del napoletano. Le loro condizioni di vita, di abitazione, di lavoro sono davvero degradanti. Come missionari/e ne abbiamo spesso denunciato la situazione, che è poi esplosa il 18 Settembre 2008 quando sei ghaneani sono stati brutalmente uccisi dalla camorra. Gli africani di Castelvolturno sono scesi per strada ribellandosi a quel massacro.
Castelvolturno proprio per come gli immigrati sono trattati, è una polveriera che potrebbe esplodere ad ogni momento. Com’è esplosa Rosarno dove vivevano oltre mille braccianti che lavoravano nella Piana di Gioia Tauro. Abbiamo spesso potuto visitare le baraccopoli dove erano costretti a vivere quegli immigrati, luoghi di uno squallore unico. Gli stessi immigrati, fuggiti poi da Rosarno, hanno scritto: “Vivevamo in fabbriche abbandonate, senza acqua né elettricità. Il nostro lavoro era sottopagato. Lasciavamo i luoghi dove dormivamo alle 6 per rientrarci solo a sera alle ore 20:00, per 25 € che non finivano tutti nelle nostre tasche. A volte non riuscivamo nemmeno, dopo una giornata di duro lavoro, a farci pagare. Eravamo bastonati, minacciati, braccati come bestie …”
Parole dure, scritte all’indomani della tragica storia di Rosarno (7-9 Gennaio 2010) quando alcuni “bravi ragazzi” hanno sparato contro gli africani, i quali, stanchi di tanti soprusi, si sono ribellati. Ne è nata una vera e propria rivolta (basta vedere le immagini nel DVD Le arance di Rosarno). “Ci hanno sparato addosso per gioco o per l’interesse di qualcuno -hanno scritto-. Non ne potevamo più. Coloro che non erano feriti da proiettili, erano feriti nella loro dignità umana, nel loro orgoglio di esseri umani... Siamo invisibili per le autorità di questo paese.”
Ci sembra doveroso in questo contesto ricordare padre Carlo D’Antoni, parroco di Bosco Minniti (vicino a Cassibile), che accoglieva nella sua parrocchia i migranti: è stato arrestato perché accusato di aver firmato attestati di ospitalità che consentono ai braccianti di avere un tetto. E ora lo attende il processo!
Stessa situazione nella baraccopoli di S. Nicola a Varco, comune di Eboli (Salerno), dove un migliaio di braccianti maghrebini vivevano in una situazione di grande degrado umano. Il 19 Novembre 2009 questi immigrati, impegnati in lavori agricoli nella Valle del Sele, sono stati cacciati e la baraccopoli demolita perché dichiarata non idonea (ed è vero!), ma senza offrire loro un altro posto dove andare a dormire. Inutili le proteste che abbiamo fatto al Prefetto ed al Questore di Salerno. Oggi non c’è più una baraccopoli a S.Nicola a Varco, ma abbiamo centinaia di braccianti che dormono dove possono nella valle del Sele.
Tutti questi braccianti sono forza lavoro, pagata a basso prezzo, alla mercé dei caporali che fanno poi da tramite alle mafie. E questo ci porta al dolente capitolo delle condizioni di lavoro.
Tra caporali e mafie
Il 26 aprile del 2010 ci sono stati, a Rosarno, una trentina di arresti, venti aziende agricole sequestrate e sigilli a duecento appezzamenti di terreno per un valore di dieci milioni di euro. E questo per l’inchiesta della Procura di Palmi (RC), nata in seguito alla rivolta di Rosarno .
Finiscono così in manette caporali e proprietari di agrumeti della Piana di Gioia Tauro, accusati di associazione a delinquere per lo sfruttamento della mano d’opera ed induzione all’immigrazione clandestina. Profittatori della disperazione dei braccianti stranieri, costretti a lavorare per pochi euro al giorno .
E’ l’Italia dei caporali, i boss del neoschiavismo che impongono la loro legge e fanno affari d’oro alle spalle di 60 – 70 mila immigrati braccianti che vivono in condizioni di degrado simili a quelle riscontrate a Rosarno.
Seconda la Flai Cgil, gli immigrati irregolari impiegati in agricoltura nel meridione sfiorano il 90%. Lavorano anche dieci ore al giorno e a volte la paga non arriva a 15 €. Le percentuali migliorano al centro ( 50% ) e al Nord ( 30% ).
Secondo la Confederazione Italiana Agricoltori, nei “luoghi della vergogna”, il 40% dei braccianti stranieri vive in edifici abbandonati e fatiscenti, oltre il 50% senza acqua potabile, il 30% senza elettricità, il 43% senza servizi igienici. I raccoglitori di verdura a cottimo hanno tra i 16 ed i 34 anni. L’80% non ha mai visto un medico.
Una nota a parte merita la provincia di Foggia, dove la raccolta dei pomodori è nelle mani del racket che paga gli immigrati 10 € al giorno.
Al Nord è l’edilizia l’altro terreno di conquista dei caporali. Qui un lavoratore su quattro lavora nel sommerso: 700.000 gli immigrati irregolari impiegati nelle imprese (in questo siamo al primo posto in Europa). Li troviamo all’alba a Milano a Piazzale Lotto o a Lambrate che chiedono una giornata in cantiere. Un manovale regolare costa 21 € all’ora, se c’è di mezzo l’intermediario è meno di metà. Il resto va al caporale. E al Nord i caporali sono sempre più egiziani, marocchini, rumeni o anche cinesi che gestiscono i loro connazionali sul lavoro e nella vita. Un altro capitolo vergognoso!
Respingimenti
Non sono bastate le leggi razziste, si sono aggiunti i respingimenti in mare nel corso dei quali migliaia di persone sono state rigettate, a rischio della loro vita, nei campi libici o nei loro paesi di provenienza, dove li attende un altro calvario. Come missionari/e siamo testimoni che questa spinta migratoria, proveniente dall’Africa, che tenta di attraversare il Mediterraneo, è dovuta alla tormentata situazione del continente nero, in particolare dell’Africa Orientale e Centrale. La situazione di miseria, i regimi oppressivi, le guerre in atto dell’Eritrea, Etiopia, Somalia, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, Ciad sospingono migliaia di persone a fuggire attraverso il deserto per arrivare in Tunisia e in Libia , dove sono sfruttati come schiavi. Buona parte di questi immigrati sono rifugiati politici ed hanno diritto all’asilo politico, fra l’altro ricordato due volte nella nostra Costituzione. E qual è la risposta del governo? Chiudere le frontiere e bloccare questa ’invasione’. E per questo il governo Berlusconi ha stipulato accordi con la Libia e con la Tunisia. Il 5 gennaio 2009 il Senato italiano ha approvato il Trattato col governo libico di Gheddafi per impedire che le cosiddette ‘carrette’ del mare arrivino fino a Lampedusa o sulle coste italiane. Sono migliaia gli immigrati morti nel Mare Nostrum. Secondo uno studio di G.Visetti, giornalista di La Repubblica,dal 2002 al 2008 sono morti 42mila persone, trenta immigrati al giorno, ingoiati dal mare davanti alla fortezza Europa. (Senza dimenticare le migliaia di migranti che muoiono attraversando il deserto del Sahara)
Davanti a tali orrori, come si fa a firmare un Trattato con la Libia di Gheddafi, un vero dittatore, che tratta in maniera così vergognosa gli immigrati che vi arrivano? Come si fa ad armare con motovedette e tante armi (nel 2009 abbiamo venduto materiale bellico per un valore di 111 milioni di euro!), un paese che le usa contro gli immigrati? Lo stesso vale per la Tunisia, a cui nel 2009 abbiamo venduto armi per oltre 3 milioni di euro. Il 27 gennaio 2009 il ministro Maroni, si è incontrato con il suo omonimo tunisino per la stessa ragione, cioè il respingimento dei migranti.
L’Italia sta ora pagando voli aerei che partono dal nostro Sud, ma anche da Malta o dalla Libia e che riportano gli immigrati nel loro paese. Vuol dire portarli alla tortura o alla morte. Basta vedersi il filmato del giornalista dell’Espresso F.Gatti, ”L’amico Isaia” e “Eritrea: Voices of torture” per rendersi conto di quanto tragica sia la situazione e quanto poco cristiano ed evangelico sia il comportamento del governo italiano.
Giustamente Famiglia Cristiana ha paragonato questi respingimenti alla Shoah. A tal proposito il prof. Antonio Esposito dell’Orientale di Napoli, nel libro A distanza d’offesa, così si esprime :”Così finiscono gli uomini e le donne che non sbarcano più a Lampedusa. Bloccati in Libia dall’accordo Roma –Tripoli e riconsegnati al deserto. Abbandonati sulla sabbia , appena oltre il confine. A volte sono obbligati a proseguire a piedi. Altre volte si perdono. Cadono a faccia in giù, sfiniti, affamati, assetati senza che nessuno trovi più i loro cadaveri (come riporta F.Gatti nell’Espresso). L’Italia, come l’Europa, prova a costruire la sua fortezza. Le immateriali mura di recinzione sono erette con le carte che fanno le leggi, sono tenute insieme dai sentimenti di indifferenza, falso disdegno e disprezzo , propri del senso comune. Restano fuori donne, uomini, vecchi, bambini, partiti inseguendo un orizzonte di dignità.”
Negazione dei diritti umani
E questi respingimenti avvengono non solo a largo delle nostre coste, ma anche nei nostri porti più importanti. Sappiamo di sicuro che nei porti di Ancona, Brindisi e Napoli sono migliaia gli immigrati che vengono respinti ogni anno. Ne abbiamo fatta esperienza diretta con i nove immigrati della nave’ Vera D’, che ha attraccato a Napoli il 7 aprile 2010. L’ordine del ministro Maroni era perentorio: dovevano essere respinti!
“Questi respingimenti – ha detto Luigi Ferrajoli – all’incontro tenutosi nel 2009 a Lampedusa – sono illegali sotto più aspetti. Hanno violato, anzi tutto, il diritto di asilo stabilito dall’articolo 10 (comma 3) della Costituzione per lo ‘straniero al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche’, giacché le navi italiane con cui gli immigrati vengono riportati in Libia sono territorio italiano, siano esse in acque territoriali o in acque extraterritoriali. E lo hanno violato doppiamente, giacché questi disperati vengono respinti in quei lager che sono i campi libici, dove sono destinati a rimanere senza limiti di tempo e in violazione dei più elementari diritti umani.
Hanno violato, in secondo luogo, la garanzia dell’Habeas Corpus, stabilita dall’articolo 13 (Comma 3) della Costituzione: questi respingimenti si sono infatti risolti in accompagnamenti coattivi, non sottoposti a nessuna convalida giudiziaria … Infine sono state violate le convenzioni internazionali che l’Italia, nell’articolo 10 della Costituzione, si è impegnata a rispettare: l’articolo 13 della Dichiarazione Universale sui Diritti Umani sulla libertà di emigrare; l’articolo 14 della stessa dichiarazione sul diritto di asilo; l’articolo 4 del Protocollo 4 della Convenzione Europea sui Diritti Umani che vieta le espulsioni collettive.”
Con questi respingimenti siamo davanti ad una massiccia violazione dei diritti umani da parte del governo italiano.
La Navi Pellay, Alto Commissario per i Diritti Umani dell’ONU , incontrando al Viminale il nostro Ministro degli Interni Maroni ha detto: “Gli immigrati non sono rifiuti tossici, vanno salvati e tutelati. E’ un obbligo per le autorità preposte salvare vite umane in pericolo.”
Ed ha poi aggiunto: “Gli immigrati non devono essere stigmatizzati ne’ criminalizzati. Piuttosto vanno creati meccanismi in grado di stimolarne l’integrazione e l’inserimento nella società. I migranti non possono venir percepiti come una minaccia alla sicurezza perché questo non fa che incrementare le paure dei cittadini”.
Anche il rapporto 2010 di Amnesty International stigmatizza l’Italia come razzista.
La tratta
Un altro aspetto dell’ immigrazione in Italia è la tratta delle donne per la prostituzione. Secondo stime attendibili, sulle strade abbiamo dalle 30 alle 50 mila ragazze nigeriane, vittime di questo traffico nel nostro paese. Senza parlare delle altre donne albanesi, romene, latino-americane…, che costellano le nostre strade per i nove milioni di italiani (il 70% di questi è sposato!) che comprano sesso per strada. E’ chiaro che questa tratta è il frutto di racket internazionali e mafie italiane che aggiungono sfruttamento a sfruttamento.
E anche vi sono delle responsabilità politiche ben precise .
“Come fermarli? – si chiede un missionario, padre Franco Nascimbene, che ha lavorato a lungo a Castelvolturno - è una situazione complessa, fatta da connivenze e corruzioni che solo le istituzioni, i governi e le polizie potrebbero affrontare efficacemente. Esistono già leggi che colpiscono coloro che sfruttano la prostituzione, tuttavia si ha l’impressione che manchi una decisa volontà politica di fermare la macchina infernale che produce schiavitù e distrugge il futuro di migliaia di ragazze.
• -Se le istituzioni investissero maggiormente nell’attività investigativa, impiegando più uomini a pedinare madames. Sfruttatori, camorristi e mafiosi,
• -se creassero più legami con le polizie di origine delle ragazze,
• -se controllassero i flussi di denaro provenienti dalla prostituzione che escono dall’Italia attraverso la Western Union e altre agenzie ( come è stato fatto in altri campi, là dove c’era la volontà politica di fermare certe espressioni della criminalità), si potrebbe fermare o perlomeno rallentare la tratta di donne a scopo di prostituzione.
Carceri
Per quanto riguarda il tema carcerario ci preme dire che il 37.1 % della popolazione carceraria è di origine straniera (24.922 su 67.452,al 21 aprile 2010) e sottolineare alcune problematiche specifiche connesse alla vita detentiva degli stranieri...per esempio difficoltà linguistiche, condizioni economiche disagiate anche a causa della lontananza delle famiglie di origine, l'assenza di una rete familiare e amicale... (Antigone,1(2009),25).
Pensiamo che, come missionari/e, incontriamo qui, in carcere, parte della realtà che abbiamo avuto modo di condividere altrove. Crediamo di poter offrire un contributo estremamente prezioso ed un possibile punto di riferimento dal punto di vista umano e spirituale ai/alle detenuti/e ed al personale penitenziario.
La voce profetica delle Chiese d'Africa
Ci conforta, come missionari/e, il fatto che i vescovi dell’Africa riuniti a Roma per il II Sinodo Africano (4-25 Ottobre 2009) abbiano avuto il coraggio di parlarne nei loro interventi in aula. Hanno affrontato questo argomento i vescovi: G. Martinelli (Tripoli, Libia), B. D. Souraphiel (Addis Abeba, Etiopia), W. Avenya (Makurdi, Nigeria), G. C. Palmer – Buckle (Accra, Ghana), G. ‘Leke Abegunrin( Osogbo, Nigeria) ed infine il Cardinal T. A. Sarr (Dakar, Senegal) (vedi Per un’Africa riconciliata – Memoria del II Sinodo Africano a cura di Anna Pozzi).
“Gli africani continueranno a venire in Europa – ha detto il vescovo W. Avenya – con tutti i mezzi, anche al prezzo di morire nel deserto o per mare, finché l’equilibrio economico ed ambientale tra Africa e resto del mondo non verrà ristabilito da chi ne è responsabile e cioè dall’Occidente!”
Non meno esplicito l’arcivescovo di Addis Abeba, Souraphiel: “Spero che questo Sinodo per l’Africa sondi le cause che sono alla base del traffico di esseri umani, delle persone sfollate, dei lavoratori domestici sfruttati, dei rifugiati, dei migranti, specialmente degli africani che giungono nei barconi e dei richiedenti asilo e che sortisca posizioni e proposte concrete per mostrare al mondo che la vita degli africani è sacra e non priva di valore come invece sembra essere presentata e vista da molti media.”
Non meno pesante l’intervento del vescovo Abegunrin di Osogbo (Nigeria): ”La voce profetica della Chiesa a favore dei poveri e degli oppressi non deve mai essere compromessa o sacrificata sull’altare di un’amicizia religiosa o di un tornaconto materiale.” Ed egli applica subito questo alla questione degli immigrati: “Una delle maggiori sfide che questo Sinodo dovrebbe affrontare è il destino di un gran numero di immigrati africani presenti in tutti i paesi dell’Occidente. Dall’inizio di questa crisi economica, molti paesi occidentali hanno elaborato leggi e strutture difensive a sostegno delle proprie economie. Purtroppo a questo scopo sono state varate leggi che si avvicinano molto a negare perfino i diritti umani degli immigrati. Soprattutto in Italia, l’immigrazione clandestina è diventata un reato!”
E’ toccato poi all’arcivescovo di Dakar, il cardinal Sarr analizzare in profondità il fenomeno degli immigrati: “Vorrei sottolineare il carattere rivelatore del fenomeno della migrazione clandestina. L’avventura così rischiosa dei migranti clandestini è un vero e proprio grido di disperazione, che proclama di fronte al mondo la gravità delle loro frustrazioni ed il loro desiderio ardente di maggiore benessere.
Percepiamo noi questo grido di disperazione e lo lasciamo penetrare nel nostro cuore tanto da cercare di capirne il senso e la portata?” E il cardinale conclude: “Sappiamo bene, infatti, che non sono le barriere della polizia, per quanto possono essere invalicabili, ad arrestare la migrazione clandestina, bensì la riduzione effettiva della povertà otterremo la promozione di uno sviluppo economico e sociale che si estenda alle masse popolari del nostro paese.” E’ stato infine l’arcivescovo di Accra, Palmer – Buckle, a esprimere in un intervento pesante il “sentire” dei vescovi africani al Sinodo attaccando le tendenze xenofobe presenti in Europa che “considerano gli africani come se non avessero diritti.” E con molta ironia ha concluso: “ Come fate voi europei a parlare di diritti umani universali?”
Ci impegnamo
Anche nell'ambito del fenomeno migratorio noi missionari/e ci proponiamo una lettura piena di fede e di speranza perché, al di là dei risvolti drammatici che spesso accompagnano le storie dei migranti, i loro volti e le loro vicende portano il sigillo della storia di salvezza e della teologia dei 'segni dei tempi'.
La Chiesa difatti intende affermare la cultura del rispetto, dell'uguaglianza e della valorizzazione delle diversità, capace di vedere i migranti come portatori di valori e di risorse. Essa invita a rivedere politiche e norme che compromettono la tutela dei diritti fondamentali...esprime inoltre un forte dissenso rispetto alla prassi sempre più restrittiva in merito alla concessione dello 'status' di rifugiato e al ricorso sempre più frequente alla detenzione e all'espulsione dei migranti.
La presenza dei migranti in mezzo a noi ci ricorda che, dal punto di vista biblico, libertà e benessere sono doni e come tali possono essere mantenuti solo se condivisi con chi ne è privo. I fondamenti del rispetto e dell'accoglienza dei migranti sono contenuti, per noi credenti, nella Parola di Dio. (Vegliò,oc.).
Per questo
• Invitati dai documenti del magistero vogliamo imparare a leggere le Migrazioni come ' un segno dei tempi', per la Chiesa e la Società.
• Facciamo nostre le affermazioni dei Vescovi africani del II Sinodo dell'Africa (Roma 5-24 ottobre 2099).
• Stiamo dalla parte degli immigrati, la nostra è una scelta di campo: la scelta degli ultimi.
• Crediamo che non sia sufficiente denunciare. Come Istituti Missionari, inseriti nelle Chiese Locali, siamo chiamati ad agire mettendo a disposizione personale adatto ed il supporto di strutture adeguate per un lavoro con gli immigrati, privilegiando il lavoro congiunto con la commissione Migrantes a livello nazionale e locale.
• Sollecitiamo la CEI a redigere un documento che, oltre la denuncia della deriva culturale rispetto al tema migratorio, offra gli opportuni orientamenti alle comunità cristiane.
Noi missionari/e crediamo fermamente, come diceva il grande vescovo-martire di Oran (Algeria) Pierre Claverie, che non c’è umanità se non al plurale.
La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
30 giugno 2010
4 giugno 2010
Testimonianza Missionaria 3: Monsignor LUIGI PADOVESE
UCCISO MONSIGNOR PADOVESE
Monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell'Anatolia, 63 anni, è stato ucciso il 3 giugno 2010 a Iskenderun, in Turchia. Lo ha confermato il nunzio apostolico in Turchia mons. Antonio Lucibello. Mons. Padovese è stato assassinato a colpi di coltello nella sua abitazione. Era stato nominato Vicario Apostolico dell'Anatolia l'11 ottobre 2004 e consacrato a Iskenderun il 7 novembre dello stesso anno. I primi sospetti sull’autore dell’assassinio cadono sul suo autista e collaboratore, un musulmano che collaborava da tempo con il prelato, che lo avrebbe accoltellato. Secondo testimoni in questi giorni l’autista sembrava «depresso e violento».
Un «fatto orribile», «incredibile», «siamo costernati»: è questa la prima reazione a caldo - appresa la notizia - di padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, alla notizia dell'uccisione in Turchia di mons. Padovese. Il viaggio che compirà domani a Cipro Benedetto XVI è stato confermato da padre Federico Lombardi che ha riferito che il Papa "è stato informato" dell'assassinio del Vicario apostolico in Anatolia, e ha espresso "grandissimo sconcerto e dolore". Il Pontefice, ha aggiunto, si è subito raccolto in preghiera. "Ciò che è accaduto - sono ancora le parole di padre Lombardi - è terribile, pensando anche ad altri fatti di sangue in Turchia, come l'omicidio alcuni anni fa di don Santoro". Da parte nostra, ha concluso il gesuita a nome della Santa Sede, "preghiamo perché il Signore lo ricompensi del suo grande servizio per la Chiesa e perché i cristiani non si scoraggino e, seguendo la sua testimonianza così forte, continuino a professare la loro fede nella regione".
LA BIOGRAFIA
Luigi Padovese era nato a Milano il 31 marzo del 1947. Il 4 ottobre del 1965 fa la prima professione nei frati cappuccini ed esattamente 3 anni dopo quella solenne. Il 16 giugno del 1973 viene ordinato sacerdote. Professore titolare della cattedra di Patristica alla Pontificia Università dell'Antonianum. Fino ad essere ordinato vescovo è stato per 16 anni direttore dell'Istituto di Spiritualità nella medesima università. Professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Accademia Alfonsiana. Per 10 anni è stato visitatore del Collegio Orientale di Roma per la Congregazione delle Chiese Orientali. Consulente della Congregazione per le Cause dei Santi. L'11 ottobre 2004 viene nominato Vicario Apostolico dell'Anatolia e vescovo titolare di Monteverde. Viene consacrato a Iskenderun il 7 novembre dello stesso anno.
TURCHIA, CONFERMATO L'ARRESTO PER L'ASSASSINO DI PADOVESE
Il Tribunale penale di Iskenderun ha confermato l'arresto per Murat Altun, il 26enne che ha assassinato ieri il vescovo Luigi Padovese, presidente della Conferenza episcopale turca e vicario apostolico dell'Anatolia. Lo rende noto l'agenzia Anatolie, senza però specificare il capo d'accusa. Dovrebbe comunque trattarsi di omicidio. Altun ha dichiarato alla polizia di aver agito dopo aver avuto una "rivelazione divina". Il sospetto omicida, convertito al cattolicesimo, aveva da poco terminato una terapia psichiatrica. Per oltre quattro anni autista del vicario apostolico, Altun ha pugnalato Padovese nel giardino della abitazione a Iskenderun, nel sud della Turchia.
"NON CI SONO MOVENTI POLITICI O RELIGIOSI"
"Siamo praticamente certi che non ci sono moventi di carattere politico o di intolleranza religiosa, che non sono connessi con la situazione di tensione di questi giorni perché l'autore che, da quanto risulta, sarebbe una persona che faceva dei servizi in casa ed era anche l'autista di mons. Padovese soffriva di squilibrio psichico e in particolare negli ultimi giorni di depressione abbastanza evidente". Lo ha detto il portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi, intervistato dalla Radio Vaticana prima della partenza del Papa per Cipro. Questo drammatico episodio, ha aggiunto il gesuita, influenzerà in un certo qual modo la visita del Papa, "le darà un tono diverso da quello che avrebbe avuto senza di esso". In particolare, ha spiegato ancora alla Radio Vaticana, "un tono di grande intensità alla preghiera, di grande serietà di ciò che è in gioco, la testimonianza del Vangelo può costare anche la vita. Ecco - ha spiegato Lombardi - questo ci invita a vivere questi incontri e questo pellegrinaggio del Papa nel cuore del Medio Oriente con una intensità spirituale e con una comprensione della serietà di ciò che è in gioco".
Ieri mons. Franceschini, l'arcivescovo di Smirne, aveva detto di non credere personalmente alla spiegazione dell'omicidio unicamente come gesto di uno squilibrato. Si tratta, ha detto infatti mons. Franceschini, di un "luogo comune che era già stato utilizzato per don Andrea Santoro", e che se non c'è nessun "movente politico" dietro l'omicidio potrebbero esserci "focolai fomentati anche dalla stampa", mentre altre volte ci si è serviti di squilibrati per compiere attentati e aggressioni.
Da parte sua AsiaNews, agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere, registra che "diversi dubbi serpeggiano sulla malattia" dell'autista arrestato e che "tra i fedeli e il mondo turco si fa fatica ad accettare la sola tesi della malattia psichica del giovane". Infatti "diversi attentati negli anni scorsi sono stati compiuti da giovani definiti 'instabili, rivelatisi poi in legame con gruppi ultranazionalisti e anti-cristiani". "A diversi osservatori - afferma l'agenzia del Pime - pare che governanti, politici, autorità civili turche evitino di riflettere con serietà su questi avvenimenti. E si rischia di liquidare tutta questa violenza dicendo solo che non si è d'accordo, che è il gesto di un pazzo isolato, un gesto occasionale di un giovane fanatico dell'Islam".
Dai cristiani e dai volontari di alcune ong turche arriva, scrive AsiaNews, "la richiesta che le indagini non si fermino all'arresto dello squilibrato di turno, ma scavino più in profondo". Il corpo di mons. Padovese, riferisce ancora la fonte, "è stato trasferito all'ospedale di Adana, città vicina, più attrezzata, per essere sottoposto ad autopsia". Secondo AsiaNews, "i funerali di mons. Padovese si svolgeranno a Milano, sua città di nascita, non prima di mercoledì 9 giugno".
ASSALTO IN CASA
Era tornato alla residenza vicino al mare per riposare. In un quieto giardino a Iskenderun, nel sud della Turchia, monsignor Luigi Padovese è morto, accoltellato da chi era considerato uno dei suoi collaboratori più fedeli, trattato da sempre come un figlio. A uccidere il vicario apostolico di Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca è stato infatti il suo autista personale, Murat Altun, di appena 26 anni, che da cinque anni accompagnava monsignor Padovese in tutti i suoi spostamenti, Italia compresa. Una persona fidata, sicura, conosciuta da tutto lo staff del presule, che ieri è stato fermato dalla polizia.
Ancora incerto il movente dell’omicidio. Le autorità turche e la prefettura stanno facendo tutti i riscontri della situazione. Rimangono aperte le diverse piste ma per il momento quella dell’omicidio a sfondo politico-religioso sarebbe la meno ipotizzabile, mentre sembra più probabile quella di un raptus di follia da parte del giovane, che da qualche tempo pareva soffrire di crisi depressive. Un’opinione condivisa anche dal Nunzio Apostolico, monsignor Antonio Lucibello, che esclude «una relazione o analogia tra i precedenti fatti di sangue accaduti in questo Paese», in particolare con l’assassinio di don Andrea Santoro avvenuto nel febbraio del 2006 a Trebisonda. «Padre Santoro – spiega il nunzio apostolico – fu ucciso da un giovane per un atto di fanatismo politico-religioso. In questo caso mi sento di escludere un simile gesto di fanatismo compiuto da uno stretto collaboratore, che ha sempre dato l’impressione di essere una persona di fiducia. Tutto è possibile, ma al momento non ci sono spiegazioni plausibili».
Di «gesto di uno squilibrato» ha subito parlato il governatore della regione di Hatay, Celalettin Lekesiz e la stessa assistente del vicario ha confermato il precario stato di salute mentale del giovane autista. «Murat da almeno una quindicina di giorni soffriva di una grave depressione, nell’ultimo periodo si vedeva spesso con monsignor Padovese che stava cercando di aiutarlo a risollevarsi. Gli aveva anche chiesto di accompagnarlo a Cipro, ma l’autista si era rifiutato», ha spiegato ieri suor Eleonora de Stefano, francescana delle missionarie dell’Immacolata Concezione, che ha raccontato le ultime ore di vita del vicario apostolico all’agenzia missionaria Misna. Assistente personale e segretaria di monsignor Padovese da ben 22 anni, suor Eleonora ha raccontato che monsignor Padovese se ne è andato dal vicariato verso le 11.30 alla volta della casa al mare. «Murat l’ha raggiunto più tardi. Doveva pranzare con monsignor Padovese per parlare del prossimo viaggio a Cipro, dove il vicario si sarebbe dovuto recare per la visita del Papa. Alle 13, quando l’ho sentito per l’ultima volta, mi ha detto di annullare sia il biglietto di Murat per Cipro sia il suo, visto che non si sentiva molto bene», racconta ancora suor Eleonora. Su quello che è accaduto dopo, per ora è buio completo, ma dal vicariato sembrano certi che i due uomini fossero da soli a pranzo quando si è verificato l’omicidio.
di Francesca Bertoldi
IL SANGUE E LA PAROLA
La pugnalata che ha colpito a morte il vicario apostolico dell’Anatolia è arrivata alla vigilia del viaggio del Papa a Cipro, l’ultimo Paese diviso d’Europa, occupato per un terzo del suo territorio dall’esercito di Ankara, ma anche laboratorio di dialogo e riconciliazione tra le fedi. Probabilmente, (così almeno vogliamo sperare), il turco che ha spento per sempre il sorriso di un uomo saggio e buono come monsignor Luigi Padovese ne era ignaro.
Ma la coincidenza è sconvolgente e non fa che aggiungere ulteriore sgomento e preoccupazione al grande turbamento e alla profonda tristezza di queste ore. «È stato il gesto di uno squilibrato», si sono subito affrettati a dichiarare le autorità turche, mentre l’effettiva dinamica del brutale omicidio resta tutta da spiegare. Atto di follia? Può darsi, ma non possiamo non domandarci come mai siano così numerosi nel Paese della Mezzaluna, e perché siano quasi sempre diretti contro gli esponenti delle minoranze religiose.
È una lunga scia di sangue, iniziata quattro anni fa con l’assassinio di don Andrea Santoro a Trebisonda, proseguita con l’uccisione in pieno centro ad Istanbul del giornalista armeno Hrant Dink, simbolo di una diversità etnica e religiosa aperta al dialogo, e poi con la macabra esecuzione a Malatya di tre protestanti evangelici, senza contare le minacce e le aggressioni ai preti cattolici fra cui il ferimento del padre cappuccino Andrea Franchini di Smirne. Tutti uomini di pace, colpiti dall’odio e dalla violenza. Lo era in modo del tutto speciale monsignor Padovese, impegnato nel dialogo con il mondo musulmano e tenace negoziatore, stimato anche dalla controparte governativa, deciso a strappare spazi sempre più larghi per la libertà religiosa in un Paese dove al vecchio laicismo nazionalista imposto da Atatürk si è sovrapposto il recente islamismo politico del premier Erdogan.
Sognava «una Chiesa turca rinvigorita e più consapevole della propria fede» il vescovo dell’Anatolia. L’aveva affermato in un’intervista pochi giorni fa, mentre si preparava a partire per Cipro dove domenica prossima, insieme con i capi delle Chiese orientali, avrebbe ricevuto dalla mani di Benedetto XVI l’ “Instrumentum laboris” in vista del Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma in autunno. La sua tragica scomparsa ci ricorda l’estrema precarietà della condizione dei cristiani in questa regione dove la Chiesa mosse i suoi primi passi.
«Le radici sono in Terra Santa, i rami sono in tutto il mondo ma il tronco dell’albero è cresciuto qui in Turchia», era solito dire monsignor Padovese. Parole che suonano come viatico alla visita pastorale di Benedetto XVI a Cipro dove ha sede la più antica comunità cristiana dopo quella di Gerusalemme. Fu qui che San Paolo compì il suo primo viaggio missionario che, secondo la tradizione, si concluse a Pafos, legato e flagellato a una colonna. E oggi, per la prima volta in duemila anni, giunge il Pontefice di Roma, «l’uomo che costruisce i ponti». Ma qualcuno ha voluto metterci una mina distruttiva, tanto più deflagrante quanto più l’intero Medio Oriente è tornato in questi ultimi giorni a riesplodere pericolosamente.
Tante, troppe coincidenze inquietanti che aleggiano su quella che intende essere una visita nel segno della pace, del perdono e della riconciliazione. Improvvisamente e brutalmente il viaggio di Benedetto XVI a Cipro inizia nel segno del sacrificio, con il sangue versato di un testimone della fede che, come diceva Tertulliano, è fecondo di nuova vita.
di Luigi Geninazzi
DON ANDREA, SACERDOTE E MARTIRE
Questo è il testo dell'omelia pronunciata da mons. Luigi Padovese a Trabzon, il 5 febbraio 2010, in occasione dell'anniversario dell'uccisione di don Andrea Santoro.
Cari fratelli, sono passati quattro anni da quando don Andrea è stato ucciso in questa Chiesa. Oggi, come quattro anni fa, ritorna sempre a stessa domanda: Perché? E’ lo stesso interrogativo che ci poniamo davanti a tante altre vittime innocenti dell’ingiustizia: Perché? Uccidendo don Andrea che cosa si è voluto annientare? La sola persona o anche quello che la persona rappresentava? Certamente nel colpire don Andrea era il sacerdote cattolico che si voleva colpire. Il suo sacerdozio è stata perciò la causa del suo martirio. Attraverso il suo sangue Don Andrea ha celebrato con Cristo l’unica eucaristia: “Questo è il mio sangue versato per voi e per tutti per il perdono dei peccati”.
Leggiamo nell’Antico Testamento che il sangue versato chiama altro sangue, ossia si ripaga con la vendetta. Eppure, da quando Gesù è morto in croce, il sangue versato non richiama più alla vendetta, ma al perdono. E’ un sangue che lava, purifica, dà vita. Perché? La risposta si trova nelle parole di Gesù sulla croce: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Se infatti l’avessero saputo non l’avrebbero fatto. Spesso la colpa di chi fa il male sta nella sua cecità o nel ritenere vero e giusto ciò che non lo è. Non è mai giusto sopprimere una vita per affermare una idea. Non è mai giusto ritenere che chi non la pensa come noi è nel torto e va annientato. Questo è fondamentalismo che distrugge la società perché distrugge la convivenza. Questo fondamentalismo, a qualsiasi religione o partito politico appartenga, potrà forse vincere qualche battaglia, ma è destinato a perdere la guerra. Ed è la storia che ce l’insegna. Cari fratelli, il sangue che don Andrea ha versato in questa Chiesa non è stato inutile. Pensiamo a quanti fratelli e sorelle in tutto il mondo hanno conosciuto il suo sacrificio e sono stati confermati nella volontà di vivere per Cristo e, se necessario, di morire per Lui. Questo umile sacerdote, conosciuto da pochi, con la sua morte è divenuto testimone per molti. Chi voleva farlo scomparire, in realtà ha prodotto l’effetto contrario. Ora, per molti, in tutto il mondo il nome di Trebisonda è legato a quello di don Andrea. Egli voleva creare in questa città un punto d’incontro e un centro di dialogo tra cristiani e musulmani. Io spero vivamente che un giorno questo suo sogno si possa realizzare e che la città di Trebisonda divenga un esempio di pacifica convivenza e di fraternità dove tutti gli uomini sono uniti nella ricerca del bene comune. Non abbiamo tutti lo stesso Dio?
INTERVISTA A MONS. PADOVESE: UN ANNO DOPO LA TURCHIA CHIEDE VERITÀ...
30 Gennaio 2007
È passato un anno dalla morte di don Andrea Santoro, il sacerdote italiano assassinato mentre pregava nella sua chiesa di Trabzon. «Una testimonianza esemplare di umanità e di fede, la sua, che ha dato nuovo vigore alla Chiesa in Turchia, anche se c'è un'esigenza di verità da colmare e molte ferite restano ancora aperte - spiega monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Anatolia - . Nuovo vigore è arrivato anche dalla visita di Benedetto XVI, che ha contribuito a superare pregiudizi e disinformazione nei confronti del cristianesimo. Ma molto resta ancora da fare perché in questo Paese la libertà di coscienza e i diritti dell'uomo trovino l'accoglienza che meritano in un Paese che ambisce a entrare nell'Unione Europea».
Da più parti sono state notate inquietanti somiglianze tra l'assassinio di don Santoro del 5 febbraio scorso e quello recente del giornalista turco-armeno Hrant Dink. Un gruppo ultranazionalista - le Brigate delle vendetta turca, frazione dei Lupi grigi - ha rivendicato entrambi gli omicidi con una e-mail indirizzata al giornale di Dink, in cui si dice: «Dopo il prete Santoro, abbiamo eliminato un altro nemico della Turchia». Lei che ne pensa?
Non voglio sostituirmi alla magistratura, ma certamente esistono motivi di preoccupazione molto fondati. È significativo il fatto che anche l'assassino di Dink provenisse dalla zona di Trabzon, dove operano gruppi che appartengono all'area del radicalismo nazionalista e islamico. Pochi giorni fa la famiglia del giornalista armeno assassinato ha detto che se fosse stata piena luce sull'omicidio di don Santoro, forse Dink non sarebbe morto. Parole emblematiche, che personalmente condivido. Niente teoremi, per carità, ma è innegabile che c'è chi alimenta sentimenti di odio e di ostilità nei confronti dei cristiani, degli armeni e di chiunque venga ritenuto colpevole di atteggiamenti sbrigativamente definiti come «contrari agli interessi della nazione».
A questo proposito, proprio ieri il premier Erdogan ha dichiarato la volontà di rivedere (ma non di abolire) l'articolo 301 del codice penale, che punisce le «offese all'identità turca», una norma spesso usata per mettere a tacere qualsiasi opposizione.
Sull'argomento c'è una forte pressione dell'opinione pubblica, che chiede maggiore libertà di pensiero e di espressione. Anche la Ue sollecita provvedimenti in questa direzione. Vedremo se saranno cambiamenti sostanziali o di facciata.
La massiccia partecipazione popolare ai funerali di Dink indica che qualcosa si muove anche nella società civile?
Mi hanno colpito quelle scritte «Siamo tutti armeni», e la presenza di tanti musulmani. Segni eloquenti dell'insofferenza che cresce tra la gente comune, del desiderio di una svolta vera. Come pure mi ha colpito la decisione del ministro dell'Interno di rimuovere il prefetto e il capo della polizia di Trabzon, che avevano minimizzato la portata della morte di Dink e i collegamenti degli esecutori con gli ambienti del nazionalismo radicale. Come si vede, siamo in presenza di segnali contrastanti. La grande partecipazione popolare ai funerali evidenzia che la società è nel complesso una pianta sana e capace di reagire - anche pubblicamente - alle minacce portate alla sua coesione. Ma non bisogna sottovalutare che alcune radici della pianta sono malate, c'è il pericolo di un contagio.
Cosa si può fare perché il contagio non si diffonda?
Da parte delle autorità civili è necessaria un'azione più rigorosa perché, oltre a individuare gli esecutori, si risalga agli ambienti dove maturano simili gesti. Ci sono cattivi maestri che educano all'intolleranza e hanno un forte ascendente sui giovani. Da parte delle autorità religiose islamiche serve una condanna più esplicita del fanatismo e di chi usa la religione per giustificare la violenza. La stampa turca ha pubblicato una frase dell'assassino di Dink che è atroce nella sua eloquenza: «Ho fatto la preghiera del venerdì e poi ho colpito».
Che ne pensa dell'esito del processo per la morte di don Santoro, che si è concluso con la condanna a 18 anni dell'omicida?
Personalmente sono insoddisfatto e amareggiato. Ritengo che non sia stata fatta luce sul movente e sui mandanti del gesto, attribuito «solo» all'azione di un giovane squilibrato. Il processo si è svolto a porte chiuse perché l'imputato era un minorenne, sappiamo solo ciò che è filtrato attraverso la stampa. Si è in attesa del testo scritto della sentenza, non ancora trasmesso alle competenti autorità italiane, anche per valutare gli eventuali passi da fare in sede giudiziaria. La verità totale non è l'esigenza di una parte, ma un bene per tutta la Turchia.
Qual è la situazione oggi nella chiesetta di Trabzon di cui era parroco don Andrea?
Ora lì c'è un sacerdote polacco, insieme a una famiglia di collaboratori romeni. La vita è piuttosto difficile, i cristiani sono pochi e un po' isolati, ma si continua nel solco tracciato da don Santoro, che ha portato frutti: condivisione della vita quotidiana in semplicità e umiltà, testimonianza e accoglienza di chiunque si avvicina per curiosità o per desiderio di conoscere il cristianesimo.
Quale eredità ha lasciato la visita di Benedetto XVI?
Il clima è più disteso e meno ostile. La stima che ha espresso per il popolo turco, il rispetto per i musulmani e la loro fede, la semplicità e cordialità con cui si è rivolto a loro chiamandoli amici, sono stati determinanti per superare molti dei pregiudizi che circolavano prima del suo arrivo. E anche il comportamento delle autorità ha permesso che la visita non venisse turbata in alcun modo. Mi permetta di aggiungere che ritengo fondamentali le preghiere che da molte parti del mondo hanno accompagnato quel viaggio che si presentava così rischioso: abbiamo ricevuto tante testimonianze di gente che ha affidato quei giorni alla Provvidenza. E credo che… abbia fatto un buon lavoro.
Quali sono le difficoltà principali con cui deve misurarsi la Chiesa?
Scontiamo le conseguenze degli incameramenti di beni fatti dallo Stato: chiese, ospedali, scuole, collegi. Sarebbe opportuna la creazione di una commissione bilaterale che affronti il nodo della restituzione, arrivando a un onorevole compromesso. Il fatto che la Chiesa non ha personalità giuridica rende tutto più difficile. Per questo pochi giorni fa il Papa, ricevendo il nuovo ambasciatore turco presso la Santa Sede, è tornato a chiedere il riconoscimento giuridico della Chiesa. Poi ci sono problemi legati al modo con cui il cristianesimo viene presentato sui libri di testo, e un'ostilità presente in una parte della società, che spesso nasce da ignoranza o da pregiudizi.
Cosa si può fare per superarli?
Anzitutto costruire rapporti di amicizia nella vita quotidiana, nei quali emerga la bellezza della fede cristiana e il desiderio di costruire insieme il futuro della Turchia. Poi, presentare il cristianesimo per ciò che autenticamente è con l'ausilio di mezzi di comunicazione promossi dalla Chiesa. L'anno scorso abbiamo dato vita a un sito Internet e stiamo lavorando alla costruzione di una radio con la quale trasmettere programmi di informazione. La visita del Papa ha modificato anche la posizione dei media turchi, ma dobbiamo ancora fare i conti con letture riduttive e fuorvianti del cristianesimo e della presenza dei cattolici. Bisogna far arrivare la nostra voce nelle case della gente senza che venga filtrata e deformata.
Non teme l'accusa di proselitismo?
Macché proselitismo, ci sta a cuore solo dire chi siamo. Senza secondi fini, ma senza timori reverenziali. E comunque la Turchia deve accettare di misurarsi con la sfida della libertà religiosa: è un passaggio necessario per continuare il cammino verso l'Europa.
Un cammino, quello verso la Ue, che appare ancora lungo e in salita…
Episodi come l'assassinio di don Santoro o del giornalista Dink testimoniano che c'è chi si oppone al processo di avvicinamento all'Unione Europea in nome di una malintesa difesa dell'identità turco-islamica della nazione. Noi riteniamo che la Ue debba essere esigente ma non chiusa rispetto all'ingresso di Ankara. Gli aspetti economici delle trattative in corso non sono tutto. Devono arrivare segnali più forti nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa e di pensiero. Insomma, credo che ci voglia un «sì» con molti «ma».
di Giorgio Paolucci
da Avvenire, 3 e 4 giugno 2010
Monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell'Anatolia, 63 anni, è stato ucciso il 3 giugno 2010 a Iskenderun, in Turchia. Lo ha confermato il nunzio apostolico in Turchia mons. Antonio Lucibello. Mons. Padovese è stato assassinato a colpi di coltello nella sua abitazione. Era stato nominato Vicario Apostolico dell'Anatolia l'11 ottobre 2004 e consacrato a Iskenderun il 7 novembre dello stesso anno. I primi sospetti sull’autore dell’assassinio cadono sul suo autista e collaboratore, un musulmano che collaborava da tempo con il prelato, che lo avrebbe accoltellato. Secondo testimoni in questi giorni l’autista sembrava «depresso e violento».
Un «fatto orribile», «incredibile», «siamo costernati»: è questa la prima reazione a caldo - appresa la notizia - di padre Federico Lombardi, portavoce del Vaticano, alla notizia dell'uccisione in Turchia di mons. Padovese. Il viaggio che compirà domani a Cipro Benedetto XVI è stato confermato da padre Federico Lombardi che ha riferito che il Papa "è stato informato" dell'assassinio del Vicario apostolico in Anatolia, e ha espresso "grandissimo sconcerto e dolore". Il Pontefice, ha aggiunto, si è subito raccolto in preghiera. "Ciò che è accaduto - sono ancora le parole di padre Lombardi - è terribile, pensando anche ad altri fatti di sangue in Turchia, come l'omicidio alcuni anni fa di don Santoro". Da parte nostra, ha concluso il gesuita a nome della Santa Sede, "preghiamo perché il Signore lo ricompensi del suo grande servizio per la Chiesa e perché i cristiani non si scoraggino e, seguendo la sua testimonianza così forte, continuino a professare la loro fede nella regione".
LA BIOGRAFIA
Luigi Padovese era nato a Milano il 31 marzo del 1947. Il 4 ottobre del 1965 fa la prima professione nei frati cappuccini ed esattamente 3 anni dopo quella solenne. Il 16 giugno del 1973 viene ordinato sacerdote. Professore titolare della cattedra di Patristica alla Pontificia Università dell'Antonianum. Fino ad essere ordinato vescovo è stato per 16 anni direttore dell'Istituto di Spiritualità nella medesima università. Professore invitato alla Pontificia Università Gregoriana e alla Pontificia Accademia Alfonsiana. Per 10 anni è stato visitatore del Collegio Orientale di Roma per la Congregazione delle Chiese Orientali. Consulente della Congregazione per le Cause dei Santi. L'11 ottobre 2004 viene nominato Vicario Apostolico dell'Anatolia e vescovo titolare di Monteverde. Viene consacrato a Iskenderun il 7 novembre dello stesso anno.
TURCHIA, CONFERMATO L'ARRESTO PER L'ASSASSINO DI PADOVESE
Il Tribunale penale di Iskenderun ha confermato l'arresto per Murat Altun, il 26enne che ha assassinato ieri il vescovo Luigi Padovese, presidente della Conferenza episcopale turca e vicario apostolico dell'Anatolia. Lo rende noto l'agenzia Anatolie, senza però specificare il capo d'accusa. Dovrebbe comunque trattarsi di omicidio. Altun ha dichiarato alla polizia di aver agito dopo aver avuto una "rivelazione divina". Il sospetto omicida, convertito al cattolicesimo, aveva da poco terminato una terapia psichiatrica. Per oltre quattro anni autista del vicario apostolico, Altun ha pugnalato Padovese nel giardino della abitazione a Iskenderun, nel sud della Turchia.
"NON CI SONO MOVENTI POLITICI O RELIGIOSI"
"Siamo praticamente certi che non ci sono moventi di carattere politico o di intolleranza religiosa, che non sono connessi con la situazione di tensione di questi giorni perché l'autore che, da quanto risulta, sarebbe una persona che faceva dei servizi in casa ed era anche l'autista di mons. Padovese soffriva di squilibrio psichico e in particolare negli ultimi giorni di depressione abbastanza evidente". Lo ha detto il portavoce della Santa Sede padre Federico Lombardi, intervistato dalla Radio Vaticana prima della partenza del Papa per Cipro. Questo drammatico episodio, ha aggiunto il gesuita, influenzerà in un certo qual modo la visita del Papa, "le darà un tono diverso da quello che avrebbe avuto senza di esso". In particolare, ha spiegato ancora alla Radio Vaticana, "un tono di grande intensità alla preghiera, di grande serietà di ciò che è in gioco, la testimonianza del Vangelo può costare anche la vita. Ecco - ha spiegato Lombardi - questo ci invita a vivere questi incontri e questo pellegrinaggio del Papa nel cuore del Medio Oriente con una intensità spirituale e con una comprensione della serietà di ciò che è in gioco".
Ieri mons. Franceschini, l'arcivescovo di Smirne, aveva detto di non credere personalmente alla spiegazione dell'omicidio unicamente come gesto di uno squilibrato. Si tratta, ha detto infatti mons. Franceschini, di un "luogo comune che era già stato utilizzato per don Andrea Santoro", e che se non c'è nessun "movente politico" dietro l'omicidio potrebbero esserci "focolai fomentati anche dalla stampa", mentre altre volte ci si è serviti di squilibrati per compiere attentati e aggressioni.
Da parte sua AsiaNews, agenzia del Pontificio Istituto Missioni Estere, registra che "diversi dubbi serpeggiano sulla malattia" dell'autista arrestato e che "tra i fedeli e il mondo turco si fa fatica ad accettare la sola tesi della malattia psichica del giovane". Infatti "diversi attentati negli anni scorsi sono stati compiuti da giovani definiti 'instabili, rivelatisi poi in legame con gruppi ultranazionalisti e anti-cristiani". "A diversi osservatori - afferma l'agenzia del Pime - pare che governanti, politici, autorità civili turche evitino di riflettere con serietà su questi avvenimenti. E si rischia di liquidare tutta questa violenza dicendo solo che non si è d'accordo, che è il gesto di un pazzo isolato, un gesto occasionale di un giovane fanatico dell'Islam".
Dai cristiani e dai volontari di alcune ong turche arriva, scrive AsiaNews, "la richiesta che le indagini non si fermino all'arresto dello squilibrato di turno, ma scavino più in profondo". Il corpo di mons. Padovese, riferisce ancora la fonte, "è stato trasferito all'ospedale di Adana, città vicina, più attrezzata, per essere sottoposto ad autopsia". Secondo AsiaNews, "i funerali di mons. Padovese si svolgeranno a Milano, sua città di nascita, non prima di mercoledì 9 giugno".
ASSALTO IN CASA
Era tornato alla residenza vicino al mare per riposare. In un quieto giardino a Iskenderun, nel sud della Turchia, monsignor Luigi Padovese è morto, accoltellato da chi era considerato uno dei suoi collaboratori più fedeli, trattato da sempre come un figlio. A uccidere il vicario apostolico di Anatolia e presidente della Conferenza episcopale turca è stato infatti il suo autista personale, Murat Altun, di appena 26 anni, che da cinque anni accompagnava monsignor Padovese in tutti i suoi spostamenti, Italia compresa. Una persona fidata, sicura, conosciuta da tutto lo staff del presule, che ieri è stato fermato dalla polizia.
Ancora incerto il movente dell’omicidio. Le autorità turche e la prefettura stanno facendo tutti i riscontri della situazione. Rimangono aperte le diverse piste ma per il momento quella dell’omicidio a sfondo politico-religioso sarebbe la meno ipotizzabile, mentre sembra più probabile quella di un raptus di follia da parte del giovane, che da qualche tempo pareva soffrire di crisi depressive. Un’opinione condivisa anche dal Nunzio Apostolico, monsignor Antonio Lucibello, che esclude «una relazione o analogia tra i precedenti fatti di sangue accaduti in questo Paese», in particolare con l’assassinio di don Andrea Santoro avvenuto nel febbraio del 2006 a Trebisonda. «Padre Santoro – spiega il nunzio apostolico – fu ucciso da un giovane per un atto di fanatismo politico-religioso. In questo caso mi sento di escludere un simile gesto di fanatismo compiuto da uno stretto collaboratore, che ha sempre dato l’impressione di essere una persona di fiducia. Tutto è possibile, ma al momento non ci sono spiegazioni plausibili».
Di «gesto di uno squilibrato» ha subito parlato il governatore della regione di Hatay, Celalettin Lekesiz e la stessa assistente del vicario ha confermato il precario stato di salute mentale del giovane autista. «Murat da almeno una quindicina di giorni soffriva di una grave depressione, nell’ultimo periodo si vedeva spesso con monsignor Padovese che stava cercando di aiutarlo a risollevarsi. Gli aveva anche chiesto di accompagnarlo a Cipro, ma l’autista si era rifiutato», ha spiegato ieri suor Eleonora de Stefano, francescana delle missionarie dell’Immacolata Concezione, che ha raccontato le ultime ore di vita del vicario apostolico all’agenzia missionaria Misna. Assistente personale e segretaria di monsignor Padovese da ben 22 anni, suor Eleonora ha raccontato che monsignor Padovese se ne è andato dal vicariato verso le 11.30 alla volta della casa al mare. «Murat l’ha raggiunto più tardi. Doveva pranzare con monsignor Padovese per parlare del prossimo viaggio a Cipro, dove il vicario si sarebbe dovuto recare per la visita del Papa. Alle 13, quando l’ho sentito per l’ultima volta, mi ha detto di annullare sia il biglietto di Murat per Cipro sia il suo, visto che non si sentiva molto bene», racconta ancora suor Eleonora. Su quello che è accaduto dopo, per ora è buio completo, ma dal vicariato sembrano certi che i due uomini fossero da soli a pranzo quando si è verificato l’omicidio.
di Francesca Bertoldi
IL SANGUE E LA PAROLA
La pugnalata che ha colpito a morte il vicario apostolico dell’Anatolia è arrivata alla vigilia del viaggio del Papa a Cipro, l’ultimo Paese diviso d’Europa, occupato per un terzo del suo territorio dall’esercito di Ankara, ma anche laboratorio di dialogo e riconciliazione tra le fedi. Probabilmente, (così almeno vogliamo sperare), il turco che ha spento per sempre il sorriso di un uomo saggio e buono come monsignor Luigi Padovese ne era ignaro.
Ma la coincidenza è sconvolgente e non fa che aggiungere ulteriore sgomento e preoccupazione al grande turbamento e alla profonda tristezza di queste ore. «È stato il gesto di uno squilibrato», si sono subito affrettati a dichiarare le autorità turche, mentre l’effettiva dinamica del brutale omicidio resta tutta da spiegare. Atto di follia? Può darsi, ma non possiamo non domandarci come mai siano così numerosi nel Paese della Mezzaluna, e perché siano quasi sempre diretti contro gli esponenti delle minoranze religiose.
È una lunga scia di sangue, iniziata quattro anni fa con l’assassinio di don Andrea Santoro a Trebisonda, proseguita con l’uccisione in pieno centro ad Istanbul del giornalista armeno Hrant Dink, simbolo di una diversità etnica e religiosa aperta al dialogo, e poi con la macabra esecuzione a Malatya di tre protestanti evangelici, senza contare le minacce e le aggressioni ai preti cattolici fra cui il ferimento del padre cappuccino Andrea Franchini di Smirne. Tutti uomini di pace, colpiti dall’odio e dalla violenza. Lo era in modo del tutto speciale monsignor Padovese, impegnato nel dialogo con il mondo musulmano e tenace negoziatore, stimato anche dalla controparte governativa, deciso a strappare spazi sempre più larghi per la libertà religiosa in un Paese dove al vecchio laicismo nazionalista imposto da Atatürk si è sovrapposto il recente islamismo politico del premier Erdogan.
Sognava «una Chiesa turca rinvigorita e più consapevole della propria fede» il vescovo dell’Anatolia. L’aveva affermato in un’intervista pochi giorni fa, mentre si preparava a partire per Cipro dove domenica prossima, insieme con i capi delle Chiese orientali, avrebbe ricevuto dalla mani di Benedetto XVI l’ “Instrumentum laboris” in vista del Sinodo sul Medio Oriente che si terrà a Roma in autunno. La sua tragica scomparsa ci ricorda l’estrema precarietà della condizione dei cristiani in questa regione dove la Chiesa mosse i suoi primi passi.
«Le radici sono in Terra Santa, i rami sono in tutto il mondo ma il tronco dell’albero è cresciuto qui in Turchia», era solito dire monsignor Padovese. Parole che suonano come viatico alla visita pastorale di Benedetto XVI a Cipro dove ha sede la più antica comunità cristiana dopo quella di Gerusalemme. Fu qui che San Paolo compì il suo primo viaggio missionario che, secondo la tradizione, si concluse a Pafos, legato e flagellato a una colonna. E oggi, per la prima volta in duemila anni, giunge il Pontefice di Roma, «l’uomo che costruisce i ponti». Ma qualcuno ha voluto metterci una mina distruttiva, tanto più deflagrante quanto più l’intero Medio Oriente è tornato in questi ultimi giorni a riesplodere pericolosamente.
Tante, troppe coincidenze inquietanti che aleggiano su quella che intende essere una visita nel segno della pace, del perdono e della riconciliazione. Improvvisamente e brutalmente il viaggio di Benedetto XVI a Cipro inizia nel segno del sacrificio, con il sangue versato di un testimone della fede che, come diceva Tertulliano, è fecondo di nuova vita.
di Luigi Geninazzi
DON ANDREA, SACERDOTE E MARTIRE
Questo è il testo dell'omelia pronunciata da mons. Luigi Padovese a Trabzon, il 5 febbraio 2010, in occasione dell'anniversario dell'uccisione di don Andrea Santoro.
Cari fratelli, sono passati quattro anni da quando don Andrea è stato ucciso in questa Chiesa. Oggi, come quattro anni fa, ritorna sempre a stessa domanda: Perché? E’ lo stesso interrogativo che ci poniamo davanti a tante altre vittime innocenti dell’ingiustizia: Perché? Uccidendo don Andrea che cosa si è voluto annientare? La sola persona o anche quello che la persona rappresentava? Certamente nel colpire don Andrea era il sacerdote cattolico che si voleva colpire. Il suo sacerdozio è stata perciò la causa del suo martirio. Attraverso il suo sangue Don Andrea ha celebrato con Cristo l’unica eucaristia: “Questo è il mio sangue versato per voi e per tutti per il perdono dei peccati”.
Leggiamo nell’Antico Testamento che il sangue versato chiama altro sangue, ossia si ripaga con la vendetta. Eppure, da quando Gesù è morto in croce, il sangue versato non richiama più alla vendetta, ma al perdono. E’ un sangue che lava, purifica, dà vita. Perché? La risposta si trova nelle parole di Gesù sulla croce: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno”. Se infatti l’avessero saputo non l’avrebbero fatto. Spesso la colpa di chi fa il male sta nella sua cecità o nel ritenere vero e giusto ciò che non lo è. Non è mai giusto sopprimere una vita per affermare una idea. Non è mai giusto ritenere che chi non la pensa come noi è nel torto e va annientato. Questo è fondamentalismo che distrugge la società perché distrugge la convivenza. Questo fondamentalismo, a qualsiasi religione o partito politico appartenga, potrà forse vincere qualche battaglia, ma è destinato a perdere la guerra. Ed è la storia che ce l’insegna. Cari fratelli, il sangue che don Andrea ha versato in questa Chiesa non è stato inutile. Pensiamo a quanti fratelli e sorelle in tutto il mondo hanno conosciuto il suo sacrificio e sono stati confermati nella volontà di vivere per Cristo e, se necessario, di morire per Lui. Questo umile sacerdote, conosciuto da pochi, con la sua morte è divenuto testimone per molti. Chi voleva farlo scomparire, in realtà ha prodotto l’effetto contrario. Ora, per molti, in tutto il mondo il nome di Trebisonda è legato a quello di don Andrea. Egli voleva creare in questa città un punto d’incontro e un centro di dialogo tra cristiani e musulmani. Io spero vivamente che un giorno questo suo sogno si possa realizzare e che la città di Trebisonda divenga un esempio di pacifica convivenza e di fraternità dove tutti gli uomini sono uniti nella ricerca del bene comune. Non abbiamo tutti lo stesso Dio?
INTERVISTA A MONS. PADOVESE: UN ANNO DOPO LA TURCHIA CHIEDE VERITÀ...
30 Gennaio 2007
È passato un anno dalla morte di don Andrea Santoro, il sacerdote italiano assassinato mentre pregava nella sua chiesa di Trabzon. «Una testimonianza esemplare di umanità e di fede, la sua, che ha dato nuovo vigore alla Chiesa in Turchia, anche se c'è un'esigenza di verità da colmare e molte ferite restano ancora aperte - spiega monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico in Anatolia - . Nuovo vigore è arrivato anche dalla visita di Benedetto XVI, che ha contribuito a superare pregiudizi e disinformazione nei confronti del cristianesimo. Ma molto resta ancora da fare perché in questo Paese la libertà di coscienza e i diritti dell'uomo trovino l'accoglienza che meritano in un Paese che ambisce a entrare nell'Unione Europea».
Da più parti sono state notate inquietanti somiglianze tra l'assassinio di don Santoro del 5 febbraio scorso e quello recente del giornalista turco-armeno Hrant Dink. Un gruppo ultranazionalista - le Brigate delle vendetta turca, frazione dei Lupi grigi - ha rivendicato entrambi gli omicidi con una e-mail indirizzata al giornale di Dink, in cui si dice: «Dopo il prete Santoro, abbiamo eliminato un altro nemico della Turchia». Lei che ne pensa?
Non voglio sostituirmi alla magistratura, ma certamente esistono motivi di preoccupazione molto fondati. È significativo il fatto che anche l'assassino di Dink provenisse dalla zona di Trabzon, dove operano gruppi che appartengono all'area del radicalismo nazionalista e islamico. Pochi giorni fa la famiglia del giornalista armeno assassinato ha detto che se fosse stata piena luce sull'omicidio di don Santoro, forse Dink non sarebbe morto. Parole emblematiche, che personalmente condivido. Niente teoremi, per carità, ma è innegabile che c'è chi alimenta sentimenti di odio e di ostilità nei confronti dei cristiani, degli armeni e di chiunque venga ritenuto colpevole di atteggiamenti sbrigativamente definiti come «contrari agli interessi della nazione».
A questo proposito, proprio ieri il premier Erdogan ha dichiarato la volontà di rivedere (ma non di abolire) l'articolo 301 del codice penale, che punisce le «offese all'identità turca», una norma spesso usata per mettere a tacere qualsiasi opposizione.
Sull'argomento c'è una forte pressione dell'opinione pubblica, che chiede maggiore libertà di pensiero e di espressione. Anche la Ue sollecita provvedimenti in questa direzione. Vedremo se saranno cambiamenti sostanziali o di facciata.
La massiccia partecipazione popolare ai funerali di Dink indica che qualcosa si muove anche nella società civile?
Mi hanno colpito quelle scritte «Siamo tutti armeni», e la presenza di tanti musulmani. Segni eloquenti dell'insofferenza che cresce tra la gente comune, del desiderio di una svolta vera. Come pure mi ha colpito la decisione del ministro dell'Interno di rimuovere il prefetto e il capo della polizia di Trabzon, che avevano minimizzato la portata della morte di Dink e i collegamenti degli esecutori con gli ambienti del nazionalismo radicale. Come si vede, siamo in presenza di segnali contrastanti. La grande partecipazione popolare ai funerali evidenzia che la società è nel complesso una pianta sana e capace di reagire - anche pubblicamente - alle minacce portate alla sua coesione. Ma non bisogna sottovalutare che alcune radici della pianta sono malate, c'è il pericolo di un contagio.
Cosa si può fare perché il contagio non si diffonda?
Da parte delle autorità civili è necessaria un'azione più rigorosa perché, oltre a individuare gli esecutori, si risalga agli ambienti dove maturano simili gesti. Ci sono cattivi maestri che educano all'intolleranza e hanno un forte ascendente sui giovani. Da parte delle autorità religiose islamiche serve una condanna più esplicita del fanatismo e di chi usa la religione per giustificare la violenza. La stampa turca ha pubblicato una frase dell'assassino di Dink che è atroce nella sua eloquenza: «Ho fatto la preghiera del venerdì e poi ho colpito».
Che ne pensa dell'esito del processo per la morte di don Santoro, che si è concluso con la condanna a 18 anni dell'omicida?
Personalmente sono insoddisfatto e amareggiato. Ritengo che non sia stata fatta luce sul movente e sui mandanti del gesto, attribuito «solo» all'azione di un giovane squilibrato. Il processo si è svolto a porte chiuse perché l'imputato era un minorenne, sappiamo solo ciò che è filtrato attraverso la stampa. Si è in attesa del testo scritto della sentenza, non ancora trasmesso alle competenti autorità italiane, anche per valutare gli eventuali passi da fare in sede giudiziaria. La verità totale non è l'esigenza di una parte, ma un bene per tutta la Turchia.
Qual è la situazione oggi nella chiesetta di Trabzon di cui era parroco don Andrea?
Ora lì c'è un sacerdote polacco, insieme a una famiglia di collaboratori romeni. La vita è piuttosto difficile, i cristiani sono pochi e un po' isolati, ma si continua nel solco tracciato da don Santoro, che ha portato frutti: condivisione della vita quotidiana in semplicità e umiltà, testimonianza e accoglienza di chiunque si avvicina per curiosità o per desiderio di conoscere il cristianesimo.
Quale eredità ha lasciato la visita di Benedetto XVI?
Il clima è più disteso e meno ostile. La stima che ha espresso per il popolo turco, il rispetto per i musulmani e la loro fede, la semplicità e cordialità con cui si è rivolto a loro chiamandoli amici, sono stati determinanti per superare molti dei pregiudizi che circolavano prima del suo arrivo. E anche il comportamento delle autorità ha permesso che la visita non venisse turbata in alcun modo. Mi permetta di aggiungere che ritengo fondamentali le preghiere che da molte parti del mondo hanno accompagnato quel viaggio che si presentava così rischioso: abbiamo ricevuto tante testimonianze di gente che ha affidato quei giorni alla Provvidenza. E credo che… abbia fatto un buon lavoro.
Quali sono le difficoltà principali con cui deve misurarsi la Chiesa?
Scontiamo le conseguenze degli incameramenti di beni fatti dallo Stato: chiese, ospedali, scuole, collegi. Sarebbe opportuna la creazione di una commissione bilaterale che affronti il nodo della restituzione, arrivando a un onorevole compromesso. Il fatto che la Chiesa non ha personalità giuridica rende tutto più difficile. Per questo pochi giorni fa il Papa, ricevendo il nuovo ambasciatore turco presso la Santa Sede, è tornato a chiedere il riconoscimento giuridico della Chiesa. Poi ci sono problemi legati al modo con cui il cristianesimo viene presentato sui libri di testo, e un'ostilità presente in una parte della società, che spesso nasce da ignoranza o da pregiudizi.
Cosa si può fare per superarli?
Anzitutto costruire rapporti di amicizia nella vita quotidiana, nei quali emerga la bellezza della fede cristiana e il desiderio di costruire insieme il futuro della Turchia. Poi, presentare il cristianesimo per ciò che autenticamente è con l'ausilio di mezzi di comunicazione promossi dalla Chiesa. L'anno scorso abbiamo dato vita a un sito Internet e stiamo lavorando alla costruzione di una radio con la quale trasmettere programmi di informazione. La visita del Papa ha modificato anche la posizione dei media turchi, ma dobbiamo ancora fare i conti con letture riduttive e fuorvianti del cristianesimo e della presenza dei cattolici. Bisogna far arrivare la nostra voce nelle case della gente senza che venga filtrata e deformata.
Non teme l'accusa di proselitismo?
Macché proselitismo, ci sta a cuore solo dire chi siamo. Senza secondi fini, ma senza timori reverenziali. E comunque la Turchia deve accettare di misurarsi con la sfida della libertà religiosa: è un passaggio necessario per continuare il cammino verso l'Europa.
Un cammino, quello verso la Ue, che appare ancora lungo e in salita…
Episodi come l'assassinio di don Santoro o del giornalista Dink testimoniano che c'è chi si oppone al processo di avvicinamento all'Unione Europea in nome di una malintesa difesa dell'identità turco-islamica della nazione. Noi riteniamo che la Ue debba essere esigente ma non chiusa rispetto all'ingresso di Ankara. Gli aspetti economici delle trattative in corso non sono tutto. Devono arrivare segnali più forti nel campo dei diritti umani e della libertà religiosa e di pensiero. Insomma, credo che ci voglia un «sì» con molti «ma».
di Giorgio Paolucci
da Avvenire, 3 e 4 giugno 2010
1 giugno 2010
Conoscere l'Africa 6: Sudafrica, calcio di rigore contro l'odio
Sono felice che un Paese come il Sudafrica, che per tanti anni è stato la «pecora nera» del mondo, possa oggi avere l’onore di ricevere le nazionali di calcio di tutto il globo: credo che meriti quest’onore. Non solo: è la prima volta che l’Africa accoglie il Campionato mondiale di calcio ed è dunque tutto il continente che può rivendicare l’onore e la felicità di organizzarlo. Il Sudafrica, grazie a giganti dell’umanità della stessa dimensione del Mahatma Gandhi, uomini come Nelson Mandela, ha impartito un’indimenticabile lezione di tolleranza e di compassione al resto del mondo, nel momento in cui è terminata la tragedia dell’apartheid. Una tragedia che di norma avrebbe dovuto concludersi in un bagno di sangue: dopo i crimini perpetrati per 55 anni contro i neri, costoro avrebbero dovuto infatti scatenare una vendetta apocalittica. Ma quei neri erano diretti da un uomo che ha detto loro: «Stiamo creando una "nazione arcobaleno", dove i bianchi, i neri, i meticci, gli indiani, tutti insieme costituiranno un Paese di tolleranza».
Ebbene, un atto di tale generosità, ma anche di così grande intelligenza politica, è davvero diventato una lezione per il resto del pianeta. E i Mondiali sono un’occasione internazionale per dire al Sudafrica che è definitivamente tornato nel concerto delle nazioni. Spesso mi dico che è una sfortuna per il mondo che non ci sia in Israele e in Palestina un altro Nelson Mandela, un uomo cioè con una visione avanzata nel futuro, capace di imporre la riconciliazione tra i nemici... Il giorno in cui divenne primo presidente della Repubblica sudafricana indipendente, col mondo intero venuto a presenziare, Mandela invitò due uomini ai primi posti della sala dove si svolgeva la cerimonia: il procuratore che aveva chiesto contro di lui l’ergastolo e il giudice bianco che l’aveva decretato. Mandela è stato un grande ammiratore di Gandhi: il profeta dell’India, altro Paese che amo moltissimo. E forse non a caso Gandhi ha cominciato la sua crociata proprio in Sudafrica: partendo da lì è riuscito a liberare centinaia di milioni di uomini senza un colpo di fucile, è stato un messaggero dell’amore, dell’indipendenza, della liberazione ovunque sia passato. Ancora oggi ci sono molti giovani sudafricani che si richiamano al suo messaggio e io credo che Mandela esprima le medesime virtù, le stesse qualità del Mahatma: anche lui è una «grande anima». Nel film "Invictus" Mandela convince il capitano (bianco) della nazionale sudafricana di rugby a svolgere un’importante missione di unità nazionale dopo la fine dell’apartheid: che lo sport sia usato per arrivare a questa riconciliazione è una cosa magnifica.
Spero che anche il calcio, che è stato il gioco di tutti i neri anche al tempo dell’apartheid, possa oggi unire le nazioni del mondo per una grande festa dello sport. È un’opportunità stupenda e tutti i giorni benedico Dio per questo miracolo. Del resto credo che l’evento sia stato organizzato benissimo, che bianchi e neri insieme abbiano investito tutto il loro orgoglio per fare di questa festa dello sport un successo. Ho trascorso tre anni a ricostruire la vicenda tumultuosa di questo Paese, a ripercorrere dei destini eccezionali come quello di Nelson Mandela, e sono entusiasta che finalmente il pianeta si interessi più a fondo di questo Paese, che ospita persone eccezionali. Chi non ha letto i 7 volumi di testimonianze della Commissione di Verità e Riconciliazione, creata dall’arcivescovo anglicano nero Desmond Tutu, non può immaginare gli orrori commessi in Sudafrica. Ebbene, che invece di condannare i colpevoli di tali orrori si sia potuto proporre loro di andare a testimoniare davanti a una Commissione, davanti alle famiglie delle vittime sulle atrocità commesse e domandare un’amnistia piuttosto che una condanna, è una possibilità verificatasi molto raramente nella storia.
Il Sudafrica ovviamente ha ancora gravissimi problemi: la disoccupazione, la criminalità, soprattutto quella terribile malattia che si chiama Aids; oggi il 20% della popolazione sudafricana è affetta da Hiv, ma per fortuna il nuovo presidente ha preso le misure dell’epidemia e ha cominciato a dare ai sudafricani malati i benefici delle terapie che permettono almeno di prolungare la vita. Un altro problema può essere quello del razzismo tra neri e neri: la maggioranza della popolazione vive in condizioni di grande povertà e non accetta facilmente l’immigrazione delle popolazioni nere miserabili che provengono dai Paesi confinanti, come lo Zimbabwe, per cercare lavoro o condizioni di maggiore sicurezza. Se ci saranno azioni di rivendicazione contro gli organizzatori del campionato del mondo, dunque, saranno per ragioni di stato sociale, non di colore; problemi e rischi ci sono sempre, però il razzismo istituzionale – così com’è esistito ai tempi del regime diabolico dell’apartheid – è scomparso per sempre. E questo è il miglior messaggio che l’esperienza del Sudafrica, magari anche attraverso i Mondiali di calcio, può lanciare al mondo. Perciò sono davvero felice che centinaia di migliaia di visitatori vengano da tutto il pianeta per scoprire questo Paese: uno dei più magnifici dell’Africa.
tratto da Avvenire, 30 maggio 2010
di Dominique Lapierre
Lapierre nacque a Châtelaillon-Plage e si diplomò al Lafayette College, in Pennsylvania. È stato corrispondente del Paris Match per quattordici anni. Ha una sorella, Alexandra, anche lei scrittrice. È sposato, dal 1980, con Dominique Conchon-Lapierre con cui condivide l'impegno della fondazione "Action pour les enfants des lépreux de Calcutta" nata dopo l'esperienza vissuta nella città indiana, da cui è nato il romanzo "La città della gioia".
Ebbene, un atto di tale generosità, ma anche di così grande intelligenza politica, è davvero diventato una lezione per il resto del pianeta. E i Mondiali sono un’occasione internazionale per dire al Sudafrica che è definitivamente tornato nel concerto delle nazioni. Spesso mi dico che è una sfortuna per il mondo che non ci sia in Israele e in Palestina un altro Nelson Mandela, un uomo cioè con una visione avanzata nel futuro, capace di imporre la riconciliazione tra i nemici... Il giorno in cui divenne primo presidente della Repubblica sudafricana indipendente, col mondo intero venuto a presenziare, Mandela invitò due uomini ai primi posti della sala dove si svolgeva la cerimonia: il procuratore che aveva chiesto contro di lui l’ergastolo e il giudice bianco che l’aveva decretato. Mandela è stato un grande ammiratore di Gandhi: il profeta dell’India, altro Paese che amo moltissimo. E forse non a caso Gandhi ha cominciato la sua crociata proprio in Sudafrica: partendo da lì è riuscito a liberare centinaia di milioni di uomini senza un colpo di fucile, è stato un messaggero dell’amore, dell’indipendenza, della liberazione ovunque sia passato. Ancora oggi ci sono molti giovani sudafricani che si richiamano al suo messaggio e io credo che Mandela esprima le medesime virtù, le stesse qualità del Mahatma: anche lui è una «grande anima». Nel film "Invictus" Mandela convince il capitano (bianco) della nazionale sudafricana di rugby a svolgere un’importante missione di unità nazionale dopo la fine dell’apartheid: che lo sport sia usato per arrivare a questa riconciliazione è una cosa magnifica.
Spero che anche il calcio, che è stato il gioco di tutti i neri anche al tempo dell’apartheid, possa oggi unire le nazioni del mondo per una grande festa dello sport. È un’opportunità stupenda e tutti i giorni benedico Dio per questo miracolo. Del resto credo che l’evento sia stato organizzato benissimo, che bianchi e neri insieme abbiano investito tutto il loro orgoglio per fare di questa festa dello sport un successo. Ho trascorso tre anni a ricostruire la vicenda tumultuosa di questo Paese, a ripercorrere dei destini eccezionali come quello di Nelson Mandela, e sono entusiasta che finalmente il pianeta si interessi più a fondo di questo Paese, che ospita persone eccezionali. Chi non ha letto i 7 volumi di testimonianze della Commissione di Verità e Riconciliazione, creata dall’arcivescovo anglicano nero Desmond Tutu, non può immaginare gli orrori commessi in Sudafrica. Ebbene, che invece di condannare i colpevoli di tali orrori si sia potuto proporre loro di andare a testimoniare davanti a una Commissione, davanti alle famiglie delle vittime sulle atrocità commesse e domandare un’amnistia piuttosto che una condanna, è una possibilità verificatasi molto raramente nella storia.
Il Sudafrica ovviamente ha ancora gravissimi problemi: la disoccupazione, la criminalità, soprattutto quella terribile malattia che si chiama Aids; oggi il 20% della popolazione sudafricana è affetta da Hiv, ma per fortuna il nuovo presidente ha preso le misure dell’epidemia e ha cominciato a dare ai sudafricani malati i benefici delle terapie che permettono almeno di prolungare la vita. Un altro problema può essere quello del razzismo tra neri e neri: la maggioranza della popolazione vive in condizioni di grande povertà e non accetta facilmente l’immigrazione delle popolazioni nere miserabili che provengono dai Paesi confinanti, come lo Zimbabwe, per cercare lavoro o condizioni di maggiore sicurezza. Se ci saranno azioni di rivendicazione contro gli organizzatori del campionato del mondo, dunque, saranno per ragioni di stato sociale, non di colore; problemi e rischi ci sono sempre, però il razzismo istituzionale – così com’è esistito ai tempi del regime diabolico dell’apartheid – è scomparso per sempre. E questo è il miglior messaggio che l’esperienza del Sudafrica, magari anche attraverso i Mondiali di calcio, può lanciare al mondo. Perciò sono davvero felice che centinaia di migliaia di visitatori vengano da tutto il pianeta per scoprire questo Paese: uno dei più magnifici dell’Africa.
tratto da Avvenire, 30 maggio 2010
di Dominique Lapierre
Lapierre nacque a Châtelaillon-Plage e si diplomò al Lafayette College, in Pennsylvania. È stato corrispondente del Paris Match per quattordici anni. Ha una sorella, Alexandra, anche lei scrittrice. È sposato, dal 1980, con Dominique Conchon-Lapierre con cui condivide l'impegno della fondazione "Action pour les enfants des lépreux de Calcutta" nata dopo l'esperienza vissuta nella città indiana, da cui è nato il romanzo "La città della gioia".
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