DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI VESCOVI, AI PRESBITERI E AI DIACONI
ALLE PERSONE CONSACRATE E AI FEDELI LAICI
SULL'ANNUNCIO DEL VANGELO NEL MONDO ATTUALE
CAPITOLO QUARTO
LA DIMENSIONE SOCIALE DELL'EVANGELIZZAZIONE
Confessione della fede e impegno
sociale [178-179]
Il Regno che ci chiama [180-181]
L'insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali [182-185]
Il Regno che ci chiama [180-181]
L'insegnamento della Chiesa sulle questioni sociali [182-185]
Uniti a Dio ascoltiamo un grido [187-192]
Fedeltà al Vangelo per non correre invano [193-196]
Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio [197-201]
Economia e distribuzione delle entrate [202-208]
Avere cura della fragilità [209-216]
Fedeltà al Vangelo per non correre invano [193-196]
Il posto privilegiato dei poveri nel Popolo di Dio [197-201]
Economia e distribuzione delle entrate [202-208]
Avere cura della fragilità [209-216]
Il tempo è superiore allo spazio [222-225]
L’unità prevale sul conflitto [226-230]
La realtà è più importante dell’idea [231-233]
Il tutto è superiore alla parte [234-237]
L’unità prevale sul conflitto [226-230]
La realtà è più importante dell’idea [231-233]
Il tutto è superiore alla parte [234-237]
Il dialogo tra la fede, la ragione e
le scienze [242-243]
Il dialogo ecumenico [244-246]
Le relazioni con l’Ebraismo [247-249]
Il dialogo interreligioso [250-254]
Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa [255-258]
Il dialogo ecumenico [244-246]
Le relazioni con l’Ebraismo [247-249]
Il dialogo interreligioso [250-254]
Il dialogo sociale in un contesto di libertà religiosa [255-258]
177. Il kerygma possiede un
contenuto ineludibilmente sociale: nel cuore stesso del Vangelo vi sono la vita
comunitaria e l’impegno con gli altri. Il contenuto del primo annuncio ha
un’immediata ripercussione morale il cui centro è la carità.
178. Confessare un Padre che ama
infinitamente ciascun essere umano implica scoprire che « con ciò stesso gli
conferisce una dignità infinita ».[141]
Confessare che il Figlio di Dio ha assunto la nostra carne umana significa che
ogni persona umana è stata elevata al cuore stesso di Dio. Confessare che Gesù
ha dato il suo sangue per noi ci impedisce di conservare il minimo dubbio circa
l’amore senza limiti che nobilita ogni essere umano. La sua redenzione ha un
significato sociale perché « Dio, in Cristo, non redime solamente la singola
persona, ma anche le relazioni sociali tra gli uomini ».[142]
Confessare che lo Spirito Santo agisce in tutti implica riconoscere che Egli
cerca di penetrare in ogni situazione umana e in tutti i vincoli sociali: « Lo
Spirito Santo possiede un’inventiva infinita, propria della mente divina, che
sa provvedere e sciogliere i nodi delle vicende umane anche più complesse e
impenetrabili ».[143]
L’evangelizzazione cerca di cooperare anche con tale azione liberatrice dello
Spirito. Lo stesso mistero della Trinità ci ricorda che siamo stati creati a
immagine della comunione divina, per cui non possiamo realizzarci né salvarci
da soli. Dal cuore del Vangelo riconosciamo l’intima connessione tra
evangelizzazione e promozione umana, che deve necessariamente esprimersi e
svilupparsi in tutta l’azione evangelizzatrice. L’accettazione del primo
annuncio, che invita a lasciarsi amare da Dio e ad amarlo con l’amore che Egli
stesso ci comunica, provoca nella vita della persona e nelle sue azioni una
prima e fondamentale reazione: desiderare, cercare e avere a cuore il bene
degli altri.
179. Questo indissolubile legame tra
l’accoglienza dell’annuncio salvifico e un effettivo amore fraterno è espressa
in alcuni testi della Scrittura che è bene considerare e meditare attentamente
per ricavarne tutte le conseguenze. Si tratta di un messaggio al quale
frequentemente ci abituiamo, lo ripetiamo quasi meccanicamente, senza però
assicurarci che abbia una reale incidenza nella nostra vita e nelle nostre
comunità. Com’è pericolosa e dannosa questa assuefazione che ci porta a perdere
la meraviglia, il fascino, l’entusiasmo di vivere il Vangelo della fraternità e
della giustizia! La Parola di Dio insegna che nel fratello si trova il permanente
prolungamento dell’Incarnazione per ognuno di noi: « Tutto quello che avete
fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me » (Mt
25,40). Quanto facciamo per gli altri ha una dimensione trascendente: « Con la
misura con la quale misurate sarà misurato a voi » (Mt 7,2); e risponde
alla misericordia divina verso di noi: « Siate misericordiosi, come il Padre
vostro è misericordioso. Non giudicate e non sarete giudicati; non condannate e
non sarete condannati; perdonate e sarete perdonati. Date e vi sarà dato […]
Con la misura con la quale misurate, sarà misurato a voi in cambio » (Lc
6,36-38). Ciò che esprimono questi testi è l’assoluta priorità dell’ « uscita
da sé verso il fratello » come uno dei due comandamenti principali che fondano
ogni norma morale e come il segno più chiaro per fare discernimento sul cammino
di crescita spirituale in risposta alla donazione assolutamente gratuita di
Dio. Per ciò stesso « anche il servizio della carità è una dimensione
costitutiva della missione della Chiesa ed è espressione irrinunciabile della
sua stessa essenza ».[144]
Come la Chiesa è missionaria per natura, così sgorga inevitabilmente da tale
natura la carità effettiva per il prossimo, la compassione che comprende,
assiste e promuove.
180. Leggendo le Scritture risulta
peraltro chiaro che la proposta del Vangelo non consiste solo in una relazione
personale con Dio. E neppure la nostra risposta di amore dovrebbe intendersi
come una mera somma di piccoli gesti personali nei confronti di qualche
individuo bisognoso, il che potrebbe costituire una sorta di “carità à la
carte”, una serie di azioni tendenti solo a tranquillizzare la propria
coscienza. La proposta è il Regno di Dio (Lc 4,43); si tratta di
amare Dio che regna nel mondo. Nella misura in cui Egli riuscirà a regnare tra
di noi, la vita sociale sarà uno spazio di fraternità, di giustizia, di pace,
di dignità per tutti. Dunque, tanto l’annuncio quanto l’esperienza cristiana
tendono a provocare conseguenze sociali. Cerchiamo il suo Regno: « Cercate
anzitutto il Regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno
date in aggiunta » (Mt 6,33). Il progetto di Gesù è instaurare il Regno
del Padre suo; Egli chiede ai suoi discepoli: « Predicate, dicendo che il Regno
dei cieli è vicino » (Mt 10,7).
181. Il Regno che viene anticipato e
cresce tra di noi riguarda tutto e ci ricorda quel principio del discernimento
che Paolo VI proponeva in relazione al vero sviluppo: « ogni uomo
e tutto l’uomo ».[145]
Sappiamo che « l’evangelizzazione non sarebbe completa se non tenesse conto del
reciproco appello, che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta,
personale e sociale, dell’uomo ».[146]
Si tratta del criterio di universalità,
proprio della dinamica del Vangelo, dal momento che il Padre desidera che tutti
gli uomini si salvino e il suo disegno di salvezza consiste nel ricapitolare
tutte le cose, quelle del cielo e quelle della terra, sotto un solo Signore,
che è Cristo (cfr Ef 1,10). Il mandato è: « Andate in tutto il mondo
e proclamate il Vangelo ad ogni creatura » (Mc 16,15), perché
« l’ardente aspettativa della creazione è protesa verso la rivelazione dei
figli di Dio » (Rm 8,19). Tutta la creazione vuol dire anche tutti gli
aspetti della natura umana, in modo che « la missione dell’annuncio della Buona
Novella di Gesù Cristo possiede una destinazione universale. Il suo mandato
della carità abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza, tutte le persone,
tutti gli ambienti della convivenza e tutti i popoli. Nulla di quanto è umano
può risultargli estraneo ».[147]
La vera speranza cristiana, che cerca il Regno escatologico, genera sempre
storia.
182. Gli insegnamenti della Chiesa
sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e
possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere
concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi
sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno.
Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché « possano con efficacia
incidere anche nelle complesse situazioni odierne ».[148]
I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di
emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento
che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale
di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi
all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo.
Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra,
benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose
« perché possiamo goderne » (1 Tm 6,17), perché tutti possano
goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare
« specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del
bene comune ».[149]
183. Di conseguenza, nessuno può
esigere da noi che releghiamo la religione alla segreta intimità delle persone,
senza alcuna influenza sulla vita sociale e nazionale, senza preoccuparci per
la salute delle istituzioni della società civile, senza esprimersi sugli
avvenimenti che interessano i cittadini. Chi oserebbe rinchiudere in un tempio
e far tacere il messaggio di san Francesco di Assisi e della beata Teresa di
Calcutta? Essi non potrebbero accettarlo. Una fede autentica – che non è mai
comoda e individualista – implica sempre un profondo desiderio di cambiare il
mondo, di trasmettere valori, di lasciare qualcosa di migliore dopo il nostro
passaggio sulla terra. Amiamo questo magnifico pianeta dove Dio ci ha posto, e
amiamo l’umanità che lo abita, con tutti i suoi drammi e le sue stanchezze, con
i suoi aneliti e le sue speranze, con i suoi valori e le sue fragilità. La
terra è la nostra casa comune e tutti siamo fratelli. Sebbene « il giusto
ordine della società e dello Stato sia il compito principale della politica »,
la Chiesa « non può né deve rimanere ai margini della lotta per la giustizia ».[150]
Tutti i cristiani, anche i Pastori, sono chiamati a preoccuparsi della
costruzione di un mondo migliore. Di questo si tratta, perché il pensiero
sociale della Chiesa è in primo luogo positivo e propositivo, orienta un’azione
trasformatrice, e in questo senso non cessa di essere un segno di speranza che
sgorga dal cuore pieno d’amore di Gesù Cristo. Al tempo stesso, unisce « il
proprio impegno a quello profuso nel campo sociale dalle altre Chiese e
Comunità Ecclesiali, sia a livello di riflessione dottrinale sia a livello
pratico ».[151]
184. Non è il momento qui per
sviluppare tutte le gravi questioni sociali che segnano il mondo attuale,
alcune delle quali ho commentato nel secondo capitolo. Questo non è un
documento sociale, e per riflettere su quelle varie tematiche disponiamo di uno
strumento molto adeguato nel Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa,
il cui uso e studio raccomando vivamente. Inoltre, né il Papa né la Chiesa
posseggono il monopolio dell’interpretazione della realtà sociale o della
proposta di soluzioni per i problemi contemporanei. Posso ripetere qui ciò che
lucidamente indicava Paolo VI: « Di fronte a situazioni tanto diverse, ci è
difficile pronunciare una parola unica e proporre una soluzione di valore
universale. Del resto non è questa la nostra ambizione e neppure la nostra
missione. Spetta alle comunità cristiane analizzare obiettivamente la
situazione del loro paese ».[152]
185. Nel seguito cercherò di
concentrarmi su due grandi questioni che mi sembrano fondamentali in questo
momento della storia. Le svilupperò con una certa ampiezza perché considero che
determineranno il futuro dell’umanità. Si tratta, in primo luogo, della inclusione
sociale dei poveri e, inoltre, della pace e del dialogo sociale.
186. Dalla nostra fede in Cristo
fattosi povero, e sempre vicino ai poveri e agli esclusi, deriva la
preoccupazione per lo sviluppo integrale dei più abbandonati della società.
187. Ogni cristiano e ogni comunità
sono chiamati ad essere strumenti di Dio per la liberazione e la promozione dei
poveri, in modo che essi possano integrarsi pienamente nella società; questo
suppone che siamo docili e attenti ad ascoltare il grido del povero e
soccorrerlo. È sufficiente scorrere le Scritture per scoprire come il Padre
buono desidera ascoltare il grido dei poveri: « Ho osservato la miseria del mio
popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sovrintendenti:
conosco le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo … Perciò va’! Io ti mando »
(Es 3,7-8.10), e si mostra sollecito verso le sue necessità: « Poi [gli
israeliti] gridarono al Signore ed egli fece sorgere per loro un salvatore » (Gdc
3,15). Rimanere sordi a quel grido, quando noi siamo gli strumenti di Dio per
ascoltare il povero, ci pone fuori dalla volontà del Padre e dal suo progetto,
perché quel povero « griderebbe al Signore contro di te e un peccato sarebbe su
di te » (Dt 15,9). E la mancanza di solidarietà verso le sue necessità
influisce direttamente sul nostro rapporto con Dio: « Se egli ti maledice
nell’amarezza del cuore, il suo creatore ne esaudirà la preghiera » (Sir
4,6). Ritorna sempre la vecchia domanda: « Se uno ha ricchezze di questo mondo
e, vedendo il suo fratello in necessità, gli chiude il proprio cuore, come
rimane in lui l’amore di Dio? » (1 Gv 3,17). Ricordiamo anche con quanta
convinzione l’Apostolo Giacomo riprendeva l’immagine del grido degli oppressi:
« Il salario dei lavoratori che hanno mietuto sulle vostre terre, e che voi non
avete pagato, grida, e le proteste dei mietitori sono giunte agli orecchi del
Signore onnipotente » (5,4).
188. La Chiesa ha riconosciuto che
l’esigenza di ascoltare questo grido deriva dalla stessa opera liberatrice
della grazia in ciascuno di noi, per cui non si tratta di una missione
riservata solo ad alcuni: « La Chiesa, guidata dal Vangelo della misericordia e
dall’amore all’essere umano, ascolta il grido per la giustizia e
desidera rispondervi con tutte le sue forze ».[153]
In questo quadro si comprende la richiesta di Gesù ai suoi discepoli: « Voi
stessi date loro da mangiare » (Mc 6,37), e ciò implica sia la
collaborazione per risolvere le cause strutturali della povertà e per
promuovere lo sviluppo integrale dei poveri, sia i gesti più semplici e
quotidiani di solidarietà di fronte alle miserie molto concrete che
incontriamo. La parola “solidarietà” si è un po’ logorata e a volte la si
interpreta male, ma indica molto di più di qualche atto sporadico di
generosità. Richiede di creare una nuova mentalità che pensi in termini di
comunità, di priorità della vita di tutti rispetto all’appropriazione dei beni
da parte di alcuni.
189. La solidarietà è una reazione
spontanea di chi riconosce la funzione sociale della proprietà e la
destinazione universale dei beni come realtà anteriori alla proprietà privata.
Il possesso privato dei beni si giustifica per custodirli e accrescerli in modo
che servano meglio al bene comune, per cui la solidarietà si deve vivere come
la decisione di restituire al povero quello che gli corrisponde. Queste
convinzioni e pratiche di solidarietà, quando si fanno carne, aprono la strada
ad altre trasformazioni strutturali e le rendono possibili. Un cambiamento
nelle strutture che non generi nuove convinzioni e atteggiamenti farà sì che
quelle stesse strutture presto o tardi diventino corrotte, pesanti e
inefficaci.
190. A volte si tratta di ascoltare
il grido di interi popoli, dei popoli più poveri della terra, perché « la pace
si fonda non solo sul rispetto dei diritti dell’uomo, ma anche su quello dei
diritti dei popoli ».[154]
Deplorevolmente, persino i diritti umani possono essere utilizzati come
giustificazione di una difesa esacerbata dei diritti individuali o dei diritti
dei popoli più ricchi. Rispettando l’indipendenza e la cultura di ciascuna
Nazione, bisogna ricordare sempre che il pianeta è di tutta l’umanità e per
tutta l’umanità, e che il solo fatto di essere nati in un luogo con minori
risorse o minor sviluppo non giustifica che alcune persone vivano con minore
dignità. Bisogna ripetere che « i più favoriti devono rinunciare ad alcuni dei
loro diritti per mettere con maggiore liberalità i loro beni al servizio degli
altri ».[155]
Per parlare in modo appropriato dei nostri diritti dobbiamo ampliare
maggiormente lo sguardo e aprire le orecchie al grido di altri popoli o di
altre regioni del nostro Paese. Abbiamo bisogno di crescere in una solidarietà
che « deve permettere a tutti i popoli di giungere con le loro forze ad essere
artefici del loro destino »,[156]
così come « ciascun essere umano è chiamato a svilupparsi ».[157]
191. In ogni luogo e circostanza i
cristiani, incoraggiati dai loro Pastori, sono chiamati ad ascoltare il grido
dei poveri, come hanno affermato così bene i Vescovi del Brasile: « Desideriamo
assumere, ogni giorno, le gioie e le speranze, le angosce e le tristezze del
popolo brasiliano, specialmente delle popolazioni delle periferie urbane e
delle zone rurali – senza terra, senza tetto, senza pane, senza salute –
violate nei loro diritti. Vedendo le loro miserie, ascoltando le loro grida e
conoscendo la loro sofferenza, ci scandalizza il fatto di sapere che esiste
cibo sufficiente per tutti e che la fame si deve alla cattiva distribuzione dei
beni e del reddito. Il problema si aggrava con la pratica generalizzata dello
spreco ».[158]
192. Desideriamo però ancora di più,
il nostro sogno vola più alto. Non parliamo solamente di assicurare a tutti il
cibo, o un « decoroso sostentamento », ma che possano avere « prosperità nei
suoi molteplici aspetti ».[159]
Questo implica educazione, accesso all’assistenza sanitaria, e specialmente
lavoro, perché nel lavoro libero, creativo, partecipativo e solidale, l’essere
umano esprime e accresce la dignità della propria vita. Il giusto salario
permette l’accesso adeguato agli altri beni che sono destinati all’uso comune.
193. L’imperativo di ascoltare il
grido dei poveri si fa carne in noi quando ci commuoviamo nel più intimo di
fronte all’altrui dolore. Rileggiamo alcuni insegnamenti della Parola di Dio
sulla misericordia, perché risuonino con forza nella vita della Chiesa. Il
Vangelo proclama: « Beati i misericordiosi, perché troveranno misericordia » (Mt
5,7).
L’Apostolo Giacomo insegna che la
misericordia verso gli altri ci permette di uscire trionfanti nel giudizio
divino: « Parlate e agite come persone che devono essere giudicate secondo una
legge di libertà, perché il giudizio sarà senza misericordia contro chi non
avrà usato misericordia. La misericordia ha sempre la meglio sul giudizio”
(2,12-13). In questo testo, Giacomo si mostra erede della maggiore ricchezza
della spiritualità ebraica del post-esilio, che attribuiva alla misericordia
uno speciale valore salvifico: « Sconta i tuoi peccati con l’elemosina e le tue
iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere
lunga prosperità » (Dn 4,24).
In questa stessa prospettiva, la
letteratura sapienziale parla dell’elemosina come esercizio concreto della
misericordia verso i bisognosi: « L’elemosina salva dalla morte e purifica da
ogni peccato » (Tb 12,9). In modo più plastico lo esprime anche il
Siracide: « L’acqua spegne il fuoco che divampa, l’elemosina espia i peccati »
(3,30). La medesima sintesi appare contenuta nel Nuovo Testamento:
« Soprattutto conservate tra voi una carità fervente, perché la carità copre
una moltitudine di peccati » (1 Pt 4,8). Questa verità penetrò
profondamente la mentalità dei Padri della Chiesa ed esercitò una resistenza
profetica, come alternativa culturale, di fronte all’individualismo edonista
pagano. Ricordiamo solo un esempio: « Come, in pericolo d’incendio, corriamo a
cercare acqua per spegnerlo, […] allo stesso modo, se dalla nostra paglia
sorgesse la fiamma del peccato e per tale motivo ne fossimo turbati, una volta
che ci venga data l’occasione di un’opera di misericordia, rallegriamoci di
tale opera come se fosse una fonte che ci viene offerta perché possiamo
soffocare l’incendio ».[160]
194. È un messaggio così chiaro,
così diretto, così semplice ed eloquente, che nessuna ermeneutica ecclesiale ha
il diritto di relativizzarlo. La riflessione della Chiesa su questi testi non
dovrebbe oscurare o indebolire il loro significato esortativo, ma piuttosto
aiutare a farli propri con coraggio e fervore. Perché complicare ciò che è così
semplice? Gli apparati concettuali esistono per favorire il contatto con la
realtà che si vuole spiegare e non per allontanarci da essa. Questo vale
soprattutto per le esortazioni bibliche che invitano con tanta determinazione
all’amore fraterno, al servizio umile e generoso, alla giustizia, alla
misericordia verso il povero. Gesù ci ha indicato questo cammino di
riconoscimento dell’altro con le sue parole e con i suoi gesti. Perché oscurare
ciò che è così chiaro? Non preoccupiamoci solo di non cadere in errori
dottrinali, ma anche di essere fedeli a questo cammino luminoso di vita e di
sapienza. Perché « ai difensori “dell’ortodossia” si rivolge a volte il
rimprovero di passività, d’indulgenza o di colpevoli complicità rispetto a
situazioni di ingiustizia intollerabili e verso i regimi politici che le
mantengono ».[161]
195. Quando san Paolo si recò dagli
Apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o aveva corso invano
(cfr Gal 2,2), il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu
che non si dimenticasse dei poveri (cfr Gal 2,10). Questo grande
criterio, affinché le comunità paoline non si lasciassero trascinare dallo
stile di vita individualista dei pagani, ha una notevole attualità nel contesto
presente, dove tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista. La bellezza
stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma
c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che
la società scarta e getta via.
196. A volte siamo duri di cuore e
di mente, ci dimentichiamo, ci divertiamo, ci estasiamo con le immense
possibilità di consumo e di distrazione che offre questa società. Così si
produce una specie di alienazione che ci colpisce tutti, poiché « è alienata
una società che, nelle sue forme di organizzazione sociale, di produzione e di
consumo, rende più difficile la realizzazione di questa donazione e la
formazione di quella solidarietà interumana ».[162]
197. Nel cuore di Dio c’è un posto
preferenziale per i poveri, tanto che Egli stesso « si fece povero » (2 Cor
8,9). Tutto il cammino della nostra redenzione è segnato dai poveri. Questa
salvezza è giunta a noi attraverso il “si” di una umile ragazza di un piccolo paese sperduto nella periferia
di un grande impero. Il Salvatore è nato in un presepe, tra gli animali, come
accadeva per i figli dei più poveri; è stato presentato al Tempio con due
piccioni, l’offerta di coloro che non potevano permettersi di pagare un agnello
(cfr Lc 2,24; Lv 5,7); è cresciuto in una casa di semplici
lavoratori e ha lavorato con le sue mani per guadagnarsi il pane. Quando iniziò
ad annunciare il Regno, lo seguivano folle di diseredati, e così manifestò
quello che Egli stesso aveva detto: « Lo Spirito del Signore è sopra di me;
perché mi ha consacrato con l’unzione e mi ha mandato a portare ai poveri il
lieto annuncio » (Lc 4,18). A quelli che erano gravati dal dolore,
oppressi dalla povertà, assicurò che Dio li portava al centro del suo cuore:
« Beati voi, poveri, perché vostro è il Regno di Dio » (Lc 6,20); e con
essi si identificò: « Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare », insegnando
che la misericordia verso di loro è la chiave del cielo (cfr Mt 25,35s).
198. Per la Chiesa l’opzione per i
poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o
filosofica. Dio concede loro « la sua prima misericordia ».[163]
Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i
cristiani, chiamati ad avere « gli stessi sentimenti di Gesù » (Fil
2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri
intesa come una « forma speciale di primazia nell’esercizio della carità
cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa ».[164]
Questa opzione – insegnava Benedetto XVI – « è implicita nella fede cristologica in quel Dio
che si è fatto povero per noi, per arricchirci mediante la sua povertà ».[165]
Per questo desidero una Chiesa povera per i poveri. Essi hanno molto da
insegnarci. Oltre a partecipare del sensus fidei, con le proprie
sofferenze conoscono il Cristo sofferente. È necessario che tutti ci lasciamo
evangelizzare da loro. La nuova evangelizzazione è un invito a riconoscere la
forza salvifica delle loro esistenze e a porle al centro del cammino della
Chiesa. Siamo chiamati a scoprire Cristo in loro, a prestare ad essi la nostra
voce nelle loro cause, ma anche ad essere loro amici, ad ascoltarli, a
comprenderli e ad accogliere la misteriosa sapienza che Dio vuole comunicarci
attraverso di loro.
199. Il nostro impegno non consiste
esclusivamente in azioni o in programmi di promozione e assistenza; quello che
lo Spirito mette in moto non è un eccesso di attivismo, ma prima di tutto un’attenzione
rivolta all’altro « considerandolo come un’unica cosa con se stesso ».[166]
Questa attenzione d’amore è l’inizio di una vera preoccupazione per la sua
persona e a partire da essa desidero cercare effettivamente il suo bene. Questo
implica apprezzare il povero nella sua bontà propria, col suo modo di essere,
con la sua cultura, con il suo modo di vivere la fede. L’amore autentico è
sempre contemplativo, ci permette di servire l’altro non per necessità o
vanità, ma perché è bello, al di là delle apparenze. « Dall’amore per cui a uno
è gradita l’altra persona dipende il fatto che le dia qualcosa gratuitamente ».[167]
Il povero, quando è amato, « è considerato di grande valore »,[168]
e questo differenzia l’autentica opzione per i poveri da qualsiasi ideologia,
da qualunque intento di utilizzare i poveri al servizio di interessi personali
o politici. Solo a partire da questa vicinanza reale e cordiale possiamo
accompagnarli adeguatamente nel loro cammino di liberazione. Soltanto questo
renderà possibile che « i poveri si sentano, in ogni comunità cristiana, come
“a casa loro”. Non sarebbe, questo stile, la più grande ed efficace
presentazione della buona novella del Regno? ».[169]
Senza l’opzione preferenziale per i più poveri, « l’annuncio del Vangelo, che
pur è la prima carità, rischia di essere incompreso o di affogare in quel mare
di parole a cui l’odierna società della comunicazione quotidianamente ci
espone ».[170]
200. Dal momento che questa
Esortazione è rivolta ai membri della Chiesa Cattolica, desidero affermare con
dolore che la peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di
attenzione spirituale. L’immensa maggioranza dei poveri possiede una speciale
apertura alla fede; hanno bisogno di Dio e non possiamo tralasciare di offrire
loro la sua amicizia, la sua benedizione, la sua Parola, la celebrazione dei
Sacramenti e la proposta di un cammino di crescita e di maturazione nella fede.
L’opzione preferenziale per i poveri deve tradursi principalmente in
un’attenzione religiosa privilegiata e prioritaria.
201. Nessuno dovrebbe dire che si
mantiene lontano dai poveri perché le sue scelte di vita comportano di prestare
più attenzione ad altre incombenze. Questa è una scusa frequente negli ambienti
accademici, imprenditoriali o professionali, e persino ecclesiali. Sebbene si
possa dire in generale che la vocazione e la missione propria dei fedeli laici
è la trasformazione delle varie realtà terrene affinché ogni attività umana sia
trasformata dal Vangelo,[171]
nessuno può sentirsi esonerato dalla preoccupazione per i poveri e per la
giustizia sociale: « La conversione spirituale, l’intensità dell’amore a Dio e
al prossimo, lo zelo per la giustizia e la pace, il significato evangelico dei
poveri e della povertà sono richiesti a tutti ».[172]
Temo che anche queste parole siano solamente oggetto di qualche commento senza
una vera incidenza pratica. Nonostante ciò, confido nell’apertura e nelle buone
disposizioni dei cristiani, e vi chiedo di cercare comunitariamente nuove
strade per accogliere questa rinnovata proposta.
202. La necessità di risolvere le
cause strutturali della povertà non può attendere, non solo per una esigenza
pragmatica di ottenere risultati e di ordinare la società, ma per guarirla da
una malattia che la rende fragile e indegna e che potrà solo portarla a nuove
crisi. I piani assistenziali, che fanno fronte ad alcune urgenze, si dovrebbero
considerare solo come risposte provvisorie. Finché non si risolveranno
radicalmente i problemi dei poveri, rinunciando all’autonomia assoluta dei
mercati e della speculazione finanziaria e aggredendo le cause strutturali
della inequità,[173]
non si risolveranno i problemi del mondo e in definitiva nessun problema.
L’inequità è la radice dei mali sociali.
203. La dignità di ogni persona
umana e il bene comune sono questioni che dovrebbero strutturare tutta la
politica economica, ma a volte sembrano appendici aggiunte dall’esterno per
completare un discorso politico senza prospettive né programmi di vero sviluppo
integrale. Quante parole sono diventate scomode per questo sistema! Dà fastidio
che si parli di etica, dà fastidio che si parli di solidarietà mondiale, dà
fastidio che si parli di distribuzione dei beni, dà fastidio che si parli di
difendere i posti di lavoro, dà fastidio che si parli della dignità dei deboli,
dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia. Altre
volte accade che queste parole diventino oggetto di una manipolazione
opportunista che le disonora. La comoda indifferenza di fronte a queste
questioni svuota la nostra vita e le nostre parole di ogni significato. La
vocazione di un imprenditore è un nobile lavoro, sempre che si lasci
interrogare da un significato più ampio della vita; questo gli permette di servire
veramente il bene comune, con il suo sforzo di moltiplicare e rendere più
accessibili per tutti i beni di questo mondo.
204. Non possiamo più confidare
nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità
esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede
decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una
migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro,
a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo.
Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più
ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di
aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo
nuovi esclusi.
205. Chiedo a Dio che cresca il
numero di politici capaci di entrare in un autentico dialogo che si orienti
efficacemente a sanare le radici profonde e non l’apparenza dei mali del nostro
mondo! La politica, tanto denigrata, è una vocazione altissima, è una delle
forme più preziose della carità, perché cerca il bene comune.[174]
Dobbiamo convincerci che la carità « è il principio non solo delle
micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma anche delle
macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici ».[175]
Prego il Signore che ci regali più politici che abbiano davvero a cuore la
società, il popolo, la vita dei poveri! È indispensabile che i governanti e il
potere finanziario alzino lo sguardo e amplino le loro prospettive, che
facciano in modo che ci sia un lavoro degno, istruzione e assistenza sanitaria
per tutti i cittadini. E perché non ricorrere a Dio affinché ispiri i loro
piani? Sono convinto che a partire da un’apertura alla trascendenza potrebbe
formarsi una nuova mentalità politica ed economica che aiuterebbe a superare la
dicotomia assoluta tra l’economia e il bene comune sociale.
206. L’economia, come indica la
stessa parola, dovrebbe essere l’arte di raggiungere un’adeguata
amministrazione della casa comune, che è il mondo intero. Ogni azione economica
di una certa portata, messa in atto in una parte del pianeta, si ripercuote sul
tutto; perciò nessun governo può agire al di fuori di una comune
responsabilità. Di fatto, diventa sempre più difficile individuare soluzioni a
livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale
si riempie di problemi da risolvere. Se realmente vogliamo raggiungere una sana
economia mondiale, c’è bisogno in questa fase storica di un modo più efficiente
di interazione che, fatta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il
benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi.
207. Qualsiasi comunità della
Chiesa, nella misura in cui pretenda di stare tranquilla senza occuparsi
creativamente e cooperare con efficacia affinché i poveri vivano con dignità e
per l’inclusione di tutti, correrà anche il rischio della dissoluzione, benché
parli di temi sociali o critichi i governi. Facilmente finirà per essere
sommersa dalla mondanità spirituale, dissimulata con pratiche religiose, con
riunioni infeconde o con discorsi vuoti.
208. Se qualcuno si sente offeso
dalle mie parole, gli dico che le esprimo con affetto e con la migliore delle
intenzioni, lontano da qualunque interesse personale o ideologia politica. La
mia parola non è quella di un nemico né di un oppositore. Mi interessa
unicamente fare in modo che quelli che sono schiavi di una mentalità
individualista, indifferente ed egoista, possano liberarsi da quelle indegne
catene e raggiungano uno stile di vita e di pensiero più umano, più nobile, più
fecondo, che dia dignità al loro passaggio su questa terra.
209. Gesù, l’evangelizzatore per
eccellenza e il Vangelo in persona, si identifica specialmente con i più
piccoli (cfr Mt 25,40). Questo ci ricorda che tutti noi cristiani siamo
chiamati a prenderci cura dei più fragili della Terra. Ma nel vigente modello
“di successo” e “privatistico”, non sembra abbia senso investire affinché
quelli che rimangono indietro, i deboli o i meno dotati possano farsi strada
nella vita.
210. È indispensabile prestare
attenzione per essere vicini a nuove forme di povertà e di fragilità in cui
siamo chiamati a riconoscere Cristo sofferente, anche se questo apparentemente
non ci porta vantaggi tangibili e immediati: i senza tetto, i
tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli
e abbandonati, ecc. I migranti mi pongono una particolare sfida perché sono
Pastore di una Chiesa senza frontiere che si sente madre di tutti. Perciò
esorto i Paesi ad una generosa apertura, che invece di temere la distruzione
dell’identità locale sia capace di creare nuove sintesi culturali. Come sono belle
le città che superano la sfiducia malsana e integrano i differenti, e che fanno
di tale integrazione un nuovo fattore di sviluppo! Come sono belle le città
che, anche nel loro disegno architettonico, sono piene di spazi che collegano,
mettono in relazione, favoriscono il riconoscimento dell’altro!
211. Mi ha sempre addolorato la
situazione di coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone.
Vorrei che si ascoltasse il grido di Dio che chiede a tutti noi: « Dov’è tuo
fratello? » (Gen 4,9). Dov’è il tuo fratello schiavo? Dov’è quello che
stai uccidendo ogni giorno nella piccola fabbrica clandestina, nella rete della
prostituzione, nei bambini che utilizzi per l’accattonaggio, in quello che deve
lavorare di nascosto perché non è stato regolarizzato? Non facciamo finta di
niente. Ci sono molte complicità. La domanda è per tutti! Nelle nostre città è
impiantato questo crimine mafioso e aberrante, e molti hanno le mani che
grondano sangue a causa di una complicità comoda e muta.
212. Doppiamente povere sono le donne
che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, perché spesso
si trovano con minori possibilità di difendere i loro diritti. Tuttavia, anche
tra di loro troviamo continuamente i più ammirevoli gesti di quotidiano eroismo
nella difesa e nella cura della fragilità delle loro famiglie.
213. Tra questi deboli, di cui la
Chiesa vuole prendersi cura con predilezione, ci sono anche i bambini nascituri,
che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la
dignità umana al fine di poterne fare quello che si vuole, togliendo loro la
vita e promuovendo legislazioni in modo che nessuno possa impedirlo.
Frequentemente, per ridicolizzare allegramente la difesa che la Chiesa fa delle
vite dei nascituri, si fa in modo di presentare la sua posizione come qualcosa
di ideologico, oscurantista e conservatore. Eppure questa difesa della vita
nascente è intimamente legata alla difesa di qualsiasi diritto umano. Suppone
la convinzione che un essere umano è sempre sacro e inviolabile, in qualunque
situazione e in ogni fase del suo sviluppo. È un fine in sé stesso e mai un
mezzo per risolvere altre difficoltà. Se cade questa convinzione, non rimangono
solide e permanenti fondamenta per la difesa dei diritti umani, che sarebbero
sempre soggetti alle convenienze contingenti dei potenti di turno. La sola
ragione è sufficiente per riconoscere il valore inviolabile di ogni vita umana,
ma se la guardiamo anche a partire dalla fede, « ogni violazione della dignità
personale dell’essere umano grida vendetta al cospetto di Dio e si configura
come offesa al Creatore dell’uomo ».[176]
214. Proprio perché è una questione
che ha a che fare con la coerenza interna del nostro messaggio sul valore della
persona umana, non ci si deve attendere che la Chiesa cambi la sua posizione su
questa questione. Voglio essere del tutto onesto al riguardo. Questo non è un
argomento soggetto a presunte riforme o a “modernizzazioni”. Non è progressista
pretendere di risolvere i problemi eliminando una vita umana. Però è anche vero
che abbiamo fatto poco per accompagnare adeguatamente le donne che si trovano
in situazioni molto dure, dove l’aborto si presenta loro come una rapida
soluzione alle loro profonde angustie, particolarmente quando la vita che
cresce in loro è sorta come conseguenza di una violenza o in un contesto di estrema
povertà. Chi può non capire tali situazioni così dolorose?
215. Ci sono altri esseri fragili e
indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di
un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri
umani non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante
la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci
circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e
possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione. Non
lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che
colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni.[177]
In questo senso, faccio proprio il lamento bello e profetico che diversi anni
fa hanno espresso i Vescovi delle Filippine: « Un’incredibile varietà d’insetti
viveva nella selva ed erano impegnati con ogni sorta di compito proprio […] Gli
uccelli volavano nell’aria, le loro brillanti piume e i loro differenti canti
aggiungevano colore e melodie al verde dei boschi [...] Dio ha voluto questa terra
per noi, sue creature speciali, ma non perché potessimo distruggerla e
trasformarla in un terreno desertico [...] Dopo una sola notte di pioggia,
guarda verso i fiumi marron-cioccolato dei tuoi paraggi, e ricorda che si
portano via il sangue vivo della terra verso il mare [...] Come potranno
nuotare i pesci in fogne come il rio Pasig e tanti altri fiumi che abbiamo
contaminato? Chi ha trasformato il meraviglioso mondo marino in cimiteri
subacquei spogliati di vita e di colore? ».[178]
216. Piccoli ma forti nell’amore di
Dio, come san Francesco d’Assisi, tutti i cristiani siamo chiamati a prenderci
cura della fragilità del popolo e del mondo in cui viviamo.
217. Abbiamo parlato molto della
gioia e dell’amore, ma la Parola di Dio menziona anche il frutto della pace
(cfr Gal 5,22).
218. La pace sociale non può essere
intesa come irenismo o come una mera assenza di violenza ottenuta mediante
l’imposizione di una parte sopra le altre. Sarebbe parimenti una falsa pace
quella che servisse come scusa per giustificare un’organizzazione sociale che
metta a tacere o tranquillizzi i più poveri, in modo che quelli che godono dei
maggiori benefici possano mantenere il loro stile di vita senza scosse mentre
gli altri sopravvivono come possono. Le rivendicazioni sociali, che hanno a che
fare con la distribuzione delle entrate, l’inclusione sociale dei poveri e i
diritti umani, non possono essere soffocate con il pretesto di costruire un
consenso a tavolino o un’effimera pace per una minoranza felice. La dignità
della persona umana e il bene comune stanno al di sopra della tranquillità di
alcuni che non vogliono rinunciare ai loro privilegi. Quando questi valori
vengono colpiti, è necessaria una voce profetica.
219. La pace « non si riduce ad
un’assenza di guerra, frutto dell’equilibrio sempre precario delle forze. Essa
si costruisce giorno per giorno, nel perseguimento di un ordine voluto da Dio,
che comporta una giustizia più perfetta tra gli uomini ».[179]
In definitiva, una pace che non sorga come frutto dello sviluppo integrale di
tutti, non avrà nemmeno futuro e sarà sempre seme di nuovi conflitti e di varie
forme di violenza.
220. In ogni nazione, gli abitanti
sviluppano la dimensione sociale della loro vita configurandosi come cittadini
responsabili in seno ad un popolo, non come massa trascinata dalle forze
dominanti. Ricordiamo che « l’essere fedele cittadino è una virtù e la partecipazione
alla vita politica è un’obbligazione morale ».[180]
Ma diventare un popolo è qualcosa di più, e richiede un costante
processo nel quale ogni nuova generazione si vede coinvolta. È un lavoro lento
e arduo che esige di volersi integrare e di imparare a farlo fino a sviluppare
una cultura dell’incontro in una pluriforme armonia.
221. Per avanzare in questa
costruzione di un popolo in pace, giustizia e fraternità, vi sono quattro
principi relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale.
Derivano dai grandi postulati della Dottrina Sociale della Chiesa, i quali
costituiscono « il primo e fondamentale parametro di riferimento per
l’interpretazione e la valutazione dei fenomeni sociali ».[181]
Alla luce di essi desidero ora proporre questi quattro principi che orientano
specificamente lo sviluppo della convivenza sociale e la costruzione di un
popolo in cui le differenze si armonizzino all’interno di un progetto comune.
Lo faccio nella convinzione che la loro applicazione può rappresentare
un’autentica via verso la pace all’interno di ciascuna nazione e nel mondo
intero.
222. Vi è una tensione bipolare tra
la pienezza e il limite. La pienezza provoca la volontà di possedere tutto e il
limite è la parete che ci si pone davanti. Il “tempo”, considerato in senso
ampio, fa riferimento alla pienezza come espressione dell’orizzonte che ci si
apre dinanzi, e il momento è espressione del limite che si vive in uno spazio
circoscritto. I cittadini vivono in tensione tra la congiuntura del momento e
la luce del tempo, dell’orizzonte più grande, dell’utopia che ci apre al futuro
come causa finale che attrae. Da qui emerge un primo principio per progredire
nella costruzione di un popolo: il tempo è superiore allo spazio.
223. Questo principio permette di
lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Aiuta a
sopportare con pazienza situazioni difficili e avverse, o i cambiamenti dei
piani che il dinamismo della realtà impone. È un invito ad assumere la tensione
tra pienezza e limite, assegnando priorità al tempo. Uno dei peccati che a
volte si riscontrano nell’attività socio-politica consiste nel privilegiare gli
spazi di potere al posto dei tempi dei processi. Dare priorità allo spazio
porta a diventar matti per risolvere tutto nel momento presente, per tentare di
prendere possesso di tutti gli spazi di potere e di autoaffermazione. Significa
cristallizzare i processi e pretendere di fermarli. Dare priorità al tempo
significa occuparsi di iniziare processi più che di possedere spazi. Il
tempo ordina gli spazi, li illumina e li trasforma in anelli di una catena in
costante crescita, senza retromarce. Si tratta di privilegiare le azioni che
generano nuovi dinamismi nella società e coinvolgono altre persone e gruppi che
le porteranno avanti, finché fruttifichino in importanti avvenimenti storici.
Senza ansietà, però con convinzioni chiare e tenaci.
224. A volte mi domando chi sono
quelli che nel mondo attuale si preoccupano realmente di dar vita a processi
che costruiscano un popolo, più che ottenere risultati immediati che producano
una rendita politica facile, rapida ed effimera, ma che non costruiscono la
pienezza umana. La storia forse li giudicherà con quel criterio che enunciava
Romano Guardini: « L’unico modello per valutare con successo un’epoca è
domandare fino a che punto si sviluppa in essa e raggiunge un’autentica ragion
d’essere la pienezza dell’esistenza umana, in accordo con il carattere
peculiare e le possibilità della medesima epoca ».[182]
225. Questo criterio è molto
appropriato anche per l’evangelizzazione, che richiede di tener presente
l’orizzonte, di adottare i processi possibili e la strada lunga. Il Signore
stesso nella sua vita terrena fece intendere molte volte ai suoi discepoli che
vi erano cose che non potevano ancora comprendere e che era necessario attendere
lo Spirito Santo (cfr Gv 16,12-13). La parabola del grano e della
zizzania (cfr Mt 13, 24-30) descrive un aspetto importante
dell’evangelizzazione, che consiste nel mostrare come il nemico può occupare lo
spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del
grano che si manifesta con il tempo.
226. Il conflitto non può essere
ignorato o dissimulato. Dev’essere accettato. Ma se rimaniamo intrappolati in
esso, perdiamo la prospettiva, gli orizzonti si limitano e la realtà stessa
resta frammentata. Quando ci fermiamo nella congiuntura conflittuale, perdiamo
il senso dell’unità profonda della realtà.
227. Di fronte al conflitto, alcuni
semplicemente lo guardano e vanno avanti come se nulla fosse, se ne lavano le
mani per poter continuare con la loro vita. Altri entrano nel conflitto in modo
tale che ne rimangono prigionieri, perdono l’orizzonte, proiettano sulle
istituzioni le proprie confusioni e insoddisfazioni e così l’unità diventa
impossibile. Vi è però un terzo modo, il più adeguato, di porsi di fronte al
conflitto. È accettare di sopportare il conflitto, risolverlo e trasformarlo in
un anello di collegamento di un nuovo processo. « Beati gli operatori di pace »
(Mt 5,9).
228. In questo modo, si rende
possibile sviluppare una comunione nelle differenze, che può essere favorita
solo da quelle nobili persone che hanno il coraggio di andare oltre la
superficie conflittuale e considerano gli altri nella loro dignità più
profonda. Per questo è necessario postulare un principio che è indispensabile
per costruire l’amicizia sociale: l’unità è superiore al conflitto. La
solidarietà, intesa nel suo significato più profondo e di sfida, diventa così
uno stile di costruzione della storia, un ambito vitale dove i conflitti, le
tensioni e gli opposti possono raggiungere una pluriforme unità che genera
nuova vita. Non significa puntare al sincretismo, né all’assorbimento di uno
nell’altro, ma alla risoluzione su di un piano superiore che conserva in sé le
preziose potenzialità delle polarità in contrasto.
229. Questo criterio evangelico ci
ricorda che Cristo ha unificato tutto in Sé: cielo e terra, Dio e uomo, tempo
ed eternità, carne e spirito, persona e società. Il segno distintivo di questa
unità e riconciliazione di tutto in Sé è la pace. Cristo « è la nostra pace » (Ef
2,14). L’annuncio evangelico inizia sempre con il saluto di pace, e la pace
corona e cementa in ogni momento le relazioni tra i discepoli. La pace è
possibile perché il Signore ha vinto il mondo e la sua permanente
conflittualità avendolo « pacificato con il sangue della sua croce » (Col 1,20).
Ma se andiamo a fondo in questi testi biblici, scopriremo che il primo ambito
in cui siamo chiamati a conquistare questa pacificazione nelle differenze è la
propria interiorità, la propria vita, sempre minacciata dalla dispersione
dialettica.[183]
Con cuori spezzati in mille frammenti sarà difficile costruire un’autentica
pace sociale.
230. L’annuncio di pace non è quello
di una pace negoziata, ma la convinzione che l’unità dello Spirito armonizza
tutte le diversità. Supera qualsiasi conflitto in una nuova, promettente
sintesi. La diversità è bella quando accetta di entrare costantemente in un
processo di riconciliazione, fino a sigillare una specie di patto culturale che
faccia emergere una “diversità riconciliata”, come ben insegnarono i Vescovi
del Congo: « La diversità delle nostre etnie è una ricchezza [...] Solo con
l’unità, con la conversione dei cuori e con la riconciliazione potremo far
avanzare il nostro Paese ».[184]
231. Esiste anche una tensione
bipolare tra l’idea e la realtà. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora.
Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca
per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola,
dell’immagine, del sofisma. Da qui si desume che occorre postulare un terzo
principio: la realtà è superiore all’idea. Questo implica di evitare diverse
forme di occultamento della realtà: i purismi angelicati, i totalitarismi del
relativo, i nominalismi dichiarazionisti, i progetti più formali che reali, i
fondamentalismi antistorici, gli eticismi senza bontà, gli intellettualismi
senza saggezza.
232. L’idea – le elaborazioni
concettuali – è in funzione del cogliere, comprendere e dirigere la realtà.
L’idea staccata dalla realtà origina idealismi e nominalismi inefficaci, che al
massimo classificano o definiscono, ma non coinvolgono. Ciò che coinvolge è la
realtà illuminata dal ragionamento. Bisogna passare dal nominalismo formale
all’oggettività armoniosa. Diversamente si manipola la verità, così come si
sostituisce la ginnastica con la cosmesi.[185]
Vi sono politici – e anche dirigenti religiosi – che si domandano perché il
popolo non li comprende e non li segue, se le loro proposte sono così logiche e
chiare. Probabilmente è perché si sono collocati nel regno delle pure idee e
hanno ridotto la politica o la fede alla retorica. Altri hanno dimenticato la
semplicità e hanno importato dall’esterno una razionalità estranea alla gente.
233. La realtà è superiore all’idea.
Questo criterio è legato all’incarnazione della Parola e alla sua messa in
pratica: « In questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che
riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio » (1 Gv 4,2). Il
criterio di realtà, di una Parola già incarnata e che sempre cerca di
incarnarsi, è essenziale all’evangelizzazione. Ci porta, da un lato, a
valorizzare la storia della Chiesa come storia di salvezza, a fare memoria dei
nostri santi che hanno inculturato il Vangelo nella vita dei nostri popoli, a raccogliere
la ricca tradizione bimillenaria della Chiesa, senza pretendere di elaborare un
pensiero disgiunto da questo tesoro, come se volessimo inventare il Vangelo.
Dall’altro lato, questo criterio ci spinge a mettere in pratica la Parola, a
realizzare opere di giustizia e carità nelle quali tale Parola sia feconda. Non
mettere in pratica, non condurre la Parola alla realtà, significa costruire
sulla sabbia, rimanere nella pura idea e degenerare in intimismi e gnosticismi
che non danno frutto, che rendono sterile il suo dinamismo.
234. Anche tra la globalizzazione e
la localizzazione si produce una tensione. Bisogna prestare attenzione alla
dimensione globale per non cadere in una meschinità quotidiana. Al tempo
stesso, non è opportuno perdere di vista ciò che è locale, che ci fa camminare
con i piedi per terra. Le due cose unite impediscono di cadere in uno di questi
due estremi: l’uno, che i cittadini vivano in un universalismo astratto e
globalizzante, passeggeri mimetizzati del vagone di coda, che ammirano i fuochi
artificiali del mondo, che è di altri, con la bocca aperta e applausi
programmati; l’altro, che diventino un museo folkloristico di eremiti
localisti, condannati a ripetere sempre le stesse cose, incapaci di lasciarsi
interpellare da ciò che è diverso e di apprezzare la bellezza che Dio diffonde
fuori dai loro confini.
235. Il tutto è più della parte, ed
è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo
ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo
sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi.
Però occorre farlo senza evadere, senza sradicamenti. È necessario affondare le
radici nella terra fertile e nella storia del proprio luogo, che è un dono di
Dio. Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più
ampia. Allo stesso modo, una persona che conserva la sua personale peculiarità
e non nasconde la sua identità, quando si integra cordialmente in una comunità,
non si annulla ma riceve sempre nuovi stimoli per il proprio sviluppo. Non è né
la sfera globale che annulla, né la parzialità isolata che rende sterili.
236. Il modello non è la sfera, che
non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi
sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette
la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro
originalità. Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di
raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri,
con la loro cultura, i loro progetti e le loro proprie potenzialità. Persino le
persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da
apportare che non deve andare perduto. È l’unione dei popoli, che, nell’ordine
universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una
società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti.
237. A noi cristiani questo
principio parla anche della totalità o integrità del Vangelo che la Chiesa ci
trasmette e ci invia a predicare. La sua ricchezza piena incorpora gli
accademici e gli operai, gli imprenditori e gli artisti, tutti. La “mistica
popolare” accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo incarna in espressioni di
preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa. La Buona Notizia è
la gioia di un Padre che non vuole che si perda nessuno dei suoi piccoli. Così
sboccia la gioia nel Buon Pastore che incontra la pecora perduta e la riporta
nel suo ovile. Il Vangelo è lievito che fermenta tutta la massa e città che
brilla sull’alto del monte illuminando tutti i popoli. Il Vangelo possiede un
criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia
finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le
dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del
Regno. Il tutto è superiore alla parte.
238. L’evangelizzazione implica
anche un cammino di dialogo. Per la Chiesa, in questo tempo ci sono in modo
particolare tre ambiti di dialogo nei quali deve essere presente, per adempiere
un servizio in favore del pieno sviluppo dell’essere umano e perseguire il bene
comune: il dialogo con gli Stati, con la società – che comprende il dialogo con
le culture e le scienze – e quello con altri credenti che non fanno parte della
Chiesa cattolica. In tutti i casi « la Chiesa parla a partire da quella luce
che le offre la fede »,[186]
apporta la sua esperienza di duemila anni e conserva sempre nella memoria le
vite e le sofferenze degli esseri umani. Questo va aldilà della ragione umana,
ma ha anche un significato che può arricchire quelli che non credono e invita
la ragione ad ampliare le sue prospettive.
239. La Chiesa proclama « il vangelo
della pace » (Ef 6,15) ed è aperta alla collaborazione con tutte le autorità
nazionali e internazionali per prendersi cura di questo bene universale tanto
grande. Nell’annunciare Gesù Cristo, che è la pace in persona (cfr Ef
2,14), la nuova evangelizzazione sprona ogni battezzato ad essere strumento di
pacificazione e testimonianza credibile di una vita riconciliata.[187]
È tempo di sapere come progettare, in una cultura che privilegi il dialogo come
forma d’incontro, la ricerca di consenso e di accordi, senza però separarla
dalla preoccupazione per una società giusta, capace di memoria e senza
esclusioni. L’autore principale, il soggetto storico di questo processo, è la
gente e la sua cultura, non una classe, una frazione, un gruppo, un’élite.
Non abbiamo bisogno di un progetto di pochi indirizzato a pochi, o di una
minoranza illuminata o testimoniale che si appropri di un sentimento
collettivo. Si tratta di un accordo per vivere insieme, di un patto sociale e
culturale.
240. Allo Stato compete la cura e la
promozione del bene comune della società.[188]
Sulla base dei principi di sussidiarietà e di solidarietà, e con un notevole
sforzo di dialogo politico e di creazione del consenso, svolge un ruolo
fondamentale, che non può essere delegato, nel perseguire lo sviluppo integrale
di tutti. Questo ruolo, nelle circostanze attuali, esige una profonda umiltà
sociale.
241. Nel dialogo con lo Stato e con
la società, la Chiesa non dispone di soluzioni per tutte le questioni
particolari. Tuttavia, insieme con le diverse forze sociali, accompagna le
proposte che meglio possono rispondere alla dignità della persona umana e al
bene comune. Nel farlo, propone sempre con chiarezza i valori fondamentali
dell’esistenza umana, per trasmettere convinzioni che poi possano tradursi in
azioni politiche.
242. Anche il dialogo tra scienza e
fede è parte dell’azione evangelizzatrice che favorisce la pace.[189]
Lo scientismo e il positivismo si rifiutano di « ammettere come valide forme di
conoscenza diverse da quelle proprie delle scienze positive ».[190]
La Chiesa propone un altro cammino, che esige una sintesi tra un uso responsabile
delle metodologie proprie delle scienze empiriche e gli altri saperi come la
filosofia, la teologia, e la stessa fede, che eleva l’essere umano fino al
mistero che trascende la natura e l’intelligenza umana. La fede non ha paura
della ragione; al contrario, la cerca e ha fiducia in essa, perché « la luce
della ragione e quella della fede provengono ambedue da Dio »,[191]
e non possono contraddirsi tra loro. L’evangelizzazione è attenta ai progressi
scientifici per illuminarli con la luce della fede e della legge naturale,
affinché rispettino sempre la centralità e il valore supremo della persona
umana in tutte le fasi della sua esistenza. Tutta la società può venire
arricchita grazie a questo dialogo che apre nuovi orizzonti al pensiero e
amplia le possibilità della ragione. Anche questo è un cammino di armonia e di
pacificazione.
243. La Chiesa non pretende di
arrestare il mirabile progresso delle scienze. Al contrario, si rallegra e
perfino gode riconoscendo l’enorme potenziale che Dio ha dato alla mente umana.
Quando il progresso delle scienze, mantenendosi con rigore accademico nel campo
del loro specifico oggetto, rende evidente una determinata conclusione che la
ragione non può negare, la fede non la contraddice. Tanto meno i credenti
possono pretendere che un’opinione scientifica a loro gradita, e che non è
stata neppure sufficientemente comprovata, acquisisca il peso di un dogma di
fede. Però, in alcune occasioni, alcuni scienziati vanno oltre l’oggetto
formale della loro disciplina e si sbilanciano con affermazioni o conclusioni
che eccedono il campo propriamente scientifico. In tal caso, non è la ragione
ciò che si propone, ma una determinata ideologia, che chiude la strada ad un
dialogo autentico, pacifico e fruttuoso.
244. L’impegno ecumenico risponde
alla preghiera del Signore Gesù che chiede che « tutti siano una sola cosa » (Gv
17,21). La credibilità dell’annuncio cristiano sarebbe molto più grande se i
cristiani superassero le loro divisioni e la Chiesa realizzasse « la pienezza
della cattolicità a lei propria in quei figli che le sono certo uniti col
battesimo, ma sono separati dalla sua piena comunione ».[192]
Dobbiamo sempre ricordare che siamo pellegrini, e che peregriniamo insieme. A
tale scopo bisogna affidare il cuore al compagno di strada senza sospetti,
senza diffidenze, e guardare anzitutto a quello che cerchiamo: la pace nel
volto dell’unico Dio. Affidarsi all’altro è qualcosa di artigianale, la pace è
artigianale. Gesù ci ha detto: « Beati gli operatori di pace » (Mt 5,9).
In questo impegno, anche tra di noi, si compie l’antica profezia: « Spezzeranno
le loro spade e ne faranno aratri » (Is 2,4).
245. In questa luce, l’ecumenismo è
un apporto all’unità della famiglia umana. La presenza al Sinodo del Patriarca
di Costantinopoli, Sua Santità Bartolomeo I, e dell’Arcivescovo di Canterbury,
Sua Grazia Rowan Douglas Williams,[193]
è stato un autentico dono di Dio e una preziosa testimonianza cristiana.
246. Data la gravità della
controtestimonianza della divisione tra cristiani, particolarmente in Asia e
Africa, la ricerca di percorsi di unità diventa urgente. I missionari in quei
continenti menzionano ripetutamente le critiche, le lamentele e le derisioni
che ricevono a causa dello scandalo dei cristiani divisi. Se ci concentriamo
sulle convinzioni che ci uniscono e ricordiamo il principio della gerarchia
delle verità, potremo camminare speditamente verso forme comuni di annuncio, di
servizio e di testimonianza. L’immensa moltitudine che non ha accolto
l’annuncio di Gesù Cristo non può lasciarci indifferenti. Pertanto, l’impegno
per un’unità che faciliti l’accoglienza di Gesù Cristo smette di essere mera
diplomazia o un adempimento forzato, per trasformarsi in una via
imprescindibile dell’evangelizzazione. I segni di divisione tra cristiani in
Paesi che già sono lacerati dalla violenza, aggiungono altra violenza da parte
di coloro che dovrebbero essere un attivo fermento di pace. Sono tante e tanto
preziose le cose che ci uniscono! E se realmente crediamo nella libera e
generosa azione dello Spirito, quante cose possiamo imparare gli uni dagli
altri! Non si tratta solamente di ricevere informazioni sugli altri per
conoscerli meglio, ma di raccogliere quello che lo Spirito ha seminato in loro
come un dono anche per noi. Solo per fare un esempio, nel dialogo con i
fratelli ortodossi, noi cattolici abbiamo la possibilità di imparare qualcosa
di più sul significato della collegialità episcopale e sulla loro esperienza
della sinodalità. Attraverso uno scambio di doni, lo Spirito può condurci sempre
di più alla verità e al bene.
247. Uno sguardo molto speciale si
rivolge al popolo ebreo, la cui Alleanza con Dio non è mai stata revocata,
perché « i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (Rm 11,29). La
Chiesa, che condivide con l’Ebraismo una parte importante delle Sacre
Scritture, considera il popolo dell’Alleanza e la sua fede come una radice
sacra della propria identità cristiana (cfr Rm 11,16-18). Come cristiani
non possiamo considerare l’Ebraismo come una religione estranea, né includiamo
gli ebrei tra quanti sono chiamati ad abbandonare gli idoli per convertirsi al
vero Dio (cfr 1 Ts 1,9). Crediamo insieme con loro nell’unico Dio che
agisce nella storia, e accogliamo con loro la comune Parola rivelata.
248. Il dialogo e l’amicizia con i
figli d’Israele sono parte della vita dei discepoli di Gesù. L’affetto che si è
sviluppato ci porta sinceramene ed amaramente a dispiacerci per le terribili
persecuzioni di cui furono e sono oggetto, particolarmente per quelle che
coinvolgono o hanno coinvolto cristiani.
249. Dio continua ad operare nel
popolo dell’Antica Alleanza e fa nascere tesori di saggezza che scaturiscono
dal suo incontro con la Parola divina. Per questo anche la Chiesa si
arricchisce quando raccoglie i valori dell’Ebraismo. Sebbene alcune convinzioni
cristiane siano inaccettabili per l’Ebraismo, e la Chiesa non possa rinunciare
ad annunciare Gesù come Signore e Messia, esiste una ricca complementarietà che
ci permette di leggere insieme i testi della Bibbia ebraica e aiutarci
vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola, come pure di
condividere molte convinzioni etiche e la comune preoccupazione per la
giustizia e lo sviluppo dei popoli.
250. Un atteggiamento di apertura nella
verità e nell’amore deve caratterizzare il dialogo con i credenti delle
religioni non cristiane, nonostante i vari ostacoli e le difficoltà,
particolarmente i fondamentalismi da ambo le parti. Questo dialogo
interreligioso è una condizione necessaria per la pace nel mondo, e pertanto è
un dovere per i cristiani, come per le altre comunità religiose. Questo dialogo
è in primo luogo una conversazione sulla vita umana o semplicemente, come
propongono i vescovi dell’India « un' atteggiamento di apertura verso di loro,
condividendo le loro gioie e le loro pene ».[194]
Così impariamo ad accettare gli altri nel loro differente modo di essere, di
pensare e di esprimersi. Con questo metodo, potremo assumere insieme il dovere
di servire la giustizia e la pace, che dovrà diventare un criterio fondamentale
di qualsiasi interscambio. Un dialogo in cui si cerchi la pace sociale e la
giustizia è in sé stesso, al di là dell’aspetto meramente pragmatico, un
impegno etico che crea nuove condizioni sociali. Gli sforzi intorno ad un tema
specifico possono trasformarsi in un processo in cui, mediante l’ascolto
dell’altro, ambo le parti trovano purificazione e arricchimento. Pertanto,
anche questi sforzi possono avere il significato di amore per la verità.
251. In questo dialogo, sempre
affabile e cordiale, non si deve mai trascurare il vincolo essenziale tra
dialogo e annuncio, che porta la Chiesa a mantenere ed intensificare le
relazioni con i non cristiani.[195]
Un sincretismo conciliante sarebbe in ultima analisi un totalitarismo di quanti
pretendono di conciliare prescindendo da valori che li trascendono e di cui non
sono padroni. La vera apertura implica il mantenersi fermi nelle proprie
convinzioni più profonde, con un’identità chiara e gioiosa, ma aperti « a
comprendere quelle dell’altro » e « sapendo che il dialogo può arricchire
ognuno ».[196]
Non ci serve un’apertura diplomatica, che dice sì a tutto per evitare i
problemi, perché sarebbe un modo di ingannare l’altro e di negargli il bene che
uno ha ricevuto come un dono da condividere generosamente. L’evangelizzazione e
il dialogo interreligioso, lungi dall’opporsi tra loro, si sostengono e si
alimentano reciprocamente.[197]
252. In quest’epoca acquista una
notevole importanza la relazione con i credenti dell’Islam, oggi
particolarmente presenti in molti Paesi di tradizione cristiana dove essi possono
celebrare liberamente il loro culto e vivere integrati nella società. Non
bisogna mai dimenticare che essi, « professando di avere la fede di Abramo,
adorano con noi un Dio unico, misericordioso, che giudicherà gli uomini nel
giorno finale ».[198]
Gli scritti sacri dell’Islam conservano parte degli insegnamenti cristiani;
Gesù Cristo e Maria sono oggetto di profonda venerazione ed è ammirevole vedere
come giovani e anziani, donne e uomini dell’Islam sono capaci di dedicare
quotidianamente tempo alla preghiera e di partecipare fedelmente ai loro riti
religiosi. Al tempo stesso, molti di loro sono profondamente convinti che la
loro vita, nella sua totalità, è di Dio e per Lui. Riconoscono anche la
necessità di rispondere a Dio con un impegno etico e con la misericordia verso
i più poveri.
253. Per sostenere il dialogo con
l’Islam è indispensabile la formazione adeguata degli interlocutori, non solo
perché siano solidamente e gioiosamente radicati nella loro identità, ma perché
siano capaci di riconoscere i valori degli altri, di comprendere le
preoccupazioni soggiacenti alle loro richieste e di fare emergere le
convinzioni comuni. Noi cristiani dovremmo accogliere con affetto e rispetto
gli immigrati dell’Islam che arrivano nei nostri Paesi, così come speriamo e
preghiamo di essere accolti e rispettati nei Paesi di tradizione islamica.
Prego, imploro umilmente tali Paesi affinché assicurino libertà ai cristiani
affinché possano celebrare il loro culto e vivere la loro fede, tenendo conto
della libertà che i credenti dell’Islam godono nei paesi occidentali! Di fronte
ad episodi di fondamentalismo violento che ci preoccupano, l’affetto verso gli
autentici credenti dell’Islam deve portarci ad evitare odiose generalizzazioni,
perché il vero Islam e un’adeguata interpretazione del Corano si oppongono ad
ogni violenza.
254. I non cristiani, per la
gratuita iniziativa divina, e fedeli alla loro coscienza, possono vivere
« giustificati mediante la grazia di Dio »,[199]
e in tal modo « associati al mistero pasquale di Gesù Cristo ».[200]
Ma, a causa della dimensione sacramentale della grazia santificante, l’azione
divina in loro tende a produrre segni, riti, espressioni sacre, che a loro
volta avvicinano altri ad una esperienza comunitaria di cammino verso Dio.[201]
Non hanno il significato e l’efficacia dei Sacramenti istituiti da Cristo, ma
possono essere canali che lo stesso Spirito suscita per liberare i non
cristiani dall’immanentismo ateo o da esperienze religiose meramente
individuali. Lo stesso Spirito suscita in ogni luogo forme di saggezza pratica
che aiutano a sopportare i disagi dell’esistenza e a vivere con più pace e
armonia. Anche noi cristiani possiamo trarre profitto da tale ricchezza
consolidata lungo i secoli, che può aiutarci a vivere meglio le nostre
peculiari convinzioni.
255. I Padri sinodali hanno
ricordato l’importanza del rispetto per la libertà religiosa, considerata come
un diritto umano fondamentale.[202]
Essa comprende « la libertà di scegliere la religione che si considera vera e
di manifestare pubblicamente la propria fede ».[203]
Un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali, non
implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al
silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del
recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee. Si tratterebbe,
in definitiva, di una nuova forma di discriminazione e di autoritarismo. Il
rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi
in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti
o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose. Questo alla lunga
fomenterebbe più il risentimento che la tolleranza e la pace.
256. Al momento di interrogarsi
circa l’incidenza pubblica della religione, bisogna distinguere diversi modi di
viverla. Sia gli intellettuali sia i commenti giornalistici cadono
frequentemente in grossolane e poco accademiche generalizzazioni quando parlano
dei difetti delle religioni e molte volte non sono in grado di distinguere che
non tutti i credenti – né tutte le autorità religiose – sono uguali. Alcuni
politici approfittano di questa confusione per giustificare azioni discriminatorie.
Altre volte si disprezzano gli scritti che sono sorti nell’ambito di una
convinzione credente, dimenticando che i testi religiosi classici possono
offrire un significato destinato a tutte le epoche, posseggono una forza
motivante che apre sempre nuovi orizzonti, stimola il pensiero, allarga la
mente e la sensibilità. Vengono disprezzati per la ristrettezza di visione dei
razionalismi. È ragionevole e intelligente relegarli nell’oscurità solo perché
sono nati nel contesto di una
credenza religiosa? Portano in sé principi profondamente umanistici, che hanno un valore razionale benché siano pervasi di simboli e dottrine religiose.
credenza religiosa? Portano in sé principi profondamente umanistici, che hanno un valore razionale benché siano pervasi di simboli e dottrine religiose.
257. Come credenti ci sentiamo
vicini anche a quanti, non riconoscendosi parte di alcuna tradizione religiosa,
cercano sinceramente la verità, la bontà e la bellezza, che per noi trovano la
loro massima espressione e la loro fonte in Dio. Li sentiamo come preziosi
alleati nell’impegno per la difesa della dignità umana, nella costruzione di
una convivenza pacifica tra i popoli e nella custodia del creato. Uno spazio
peculiare è quello dei cosiddetti nuovi Areopaghi, come il “Cortile dei
Gentili”, dove « credenti e non credenti possono dialogare sui temi
fondamentali dell’etica, dell’arte, e della scienza, e sulla ricerca della trascendenza ».[204]
Anche questa è una via di pace per il nostro mondo ferito.
258. A partire da alcuni temi
sociali, importanti in ordine al futuro dell’umanità, ho cercato ancora una
volta di esplicitare l’ineludibile dimensione sociale dell’annuncio del
Vangelo, per incoraggiare tutti i cristiani a manifestarla sempre nelle loro
parole, atteggiamenti e azioni.
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