Ci sono avvenimenti che si vorrebbero dimenticare in fretta. Toglierli dalla mente, e non pensarci più.
Ma quel fulmine non lo posso dimenticare: anche da un male così grande possiamo cogliere delle vere possibilità di bene.
Domenica 22 settembre, ore 17.30 del pomeriggio: siamo riuniti in quella che sia chiama “equipe missionaria”. È la riunione che si compie dentro le nostre missioni, per organizzare e verificare i programmi della nostra pastorale missionaria. Tutti i missionari di una missione, suore, sacerdoti e laici, si mettono assieme per questo servizio pastorale. Adesso che sono arrivati anche don Marco e suor Narliene, ci troviamo maggiormente coinvolti in questa pastorale missionaria comunitaria.
Con suor Merione e suor Nella, oltre ai “nuovi” missionari, eravamo seduti al tavolo di “casa foggia”, verificando le evangelizzazioni compiute lo scorso anno nel nostro territorio. Siamo stati dolcemente accompagnati da un bellissimo temporale: atteso e benvoluto. C’è scarsità di acqua in questa estate, come nel 2011. Era proprio un bel temporale, con tanta acqua, a rallegrare la nostra riunione.
Poi è arrivato lui. Senza alcun preavviso, senza mandare i suoi compagni che iniziano a farsi sentire da lontano, e così ci si può preparare. È arrivato all’improvviso. Veloce. Assordante. Da solo.
Il fulmine è sceso qui! Sulla casa dei sacerdoti, o qui vicinissimo. Siamo sobbalzati sulle sedie; suor Narliene, molto più “agile” di me, è letteralmente saltata sulla sedia. Immediatamente la corrente elettrica è saltata. Vado alla sala delle batterie dove sono collegati i due sistemi fotovoltaici e vi sono le centraline elettriche. Ad un primo momento mi sembra che ci sia del fumo. Don Marco controlla meglio: mi sono sbagliato. Proviamo a riattivare l’impianto elettrico e tutto funziona. Tiro un bel sospiro di sollievo: l’impianto con la messa a terra ha funzionato bene. Però, che spavento….
Riprendiamo il nostro lavoro senza pensare a quello che, invece, era tragicamente accaduto accanto a noi. Il rumore della pioggia sui tetti della casa non ci permette di udire le prime grida di chi, disperato, iniziava un lungo pianto, che non si sarebbe fermato….
Joaquim arriva di corsa, dopo pochissimi minuti. Lui è il nostro operatore fisso nel Centro di Recupero Nutrizionale. Parla in modo confuso, e non riusciamo subito a capire quello che sta dicendo. Ci rendiamo conto di qualcosa di grave che poi riesce a spiegarci con più calma. Prima quasi increduli, ma subito poi coinvolti nell’angoscia, ci rendiamo conto che il fulmine è sceso nella casa davanti alla nostra, a pochi metri dal portone di ingresso al territorio della missione. E ha seminato morte.
Joaquim parla di cinque persone coinvolte: una mamma, i suoi tre bambini, e un uomo. Sono stati portati tutti al nostro ospedale di Bigene, ma la mamma è sicuramente già morta, ha una visibile ferita alla testa causata dal fulmine. Ci spiega velocemente tutto e ci invita ad andare a vedere, perché potrebbe esserci bisogno di noi. E l’uomo è molto grave, è Leandro, uno dei nostri professori alla scuola della missione.
Decidiamo di correre tutti davanti all’ospedale, e spostiamo le nostre due macchine, per ogni evenienza che possa accadere per soccorrere queste persone. L’ospedale di Bigene è chiamato così, ospedale, dalla gente del luogo. Ma non ha niente a che vedere con un ospedale! È una struttura dello stato dove operano un infermiere e una ostetrica, sostenuti dalla presenza di un analista e di un portinaio. Una sala parto e una sala per gli ammalati, un ingresso e sempre tanta gente che aspetta fuori quando un ammalato ricorre a questa struttura.
Ci sono centinaia di persone nella piazza del paese, davanti all’ospedale. È come la piazza principale, accanto alla chiesa, a cui si affacciano alcuni negozietti. La pioggia sta terminando. I volti sono bagnati. Alcuni volti sono bagnati anche dalle lacrime. Tensione alle stelle, via vai di persone dall’ospedale. Le notizie si accavallano, ma dopo pochi minuti emerge la situazione reale.
La giovane mamma è morta subito. È rinchiusa nella sala parto, dove nessuno deve entrare. E nessuno deve dire che è morta: ci sono i suoi tre bambini nella sala di ingresso.
Leandro sta morendo. Il fulmine ha toccato il suo corpo, il cuore batte senza regolarità, l’infermiere sta compiendo le sue azioni necessarie a tentare di rimettere il cuore in norma. Ma niente.
Telefono alla dottora Pina, che è a Bissau, per sapere se c’è qualcosa che possiamo fare. Pina conosce bene le emergenze e conosce bene cosa abbiamo e cosa non abbiamo a Bigene. Quanto mi insegna, al telefono, l’infermiere lo sta già compiendo.
Gli sguardi di tutti sono molto tirati. Molte persone mi guardano per capire dalle mie espressioni che cosa sta accadendo. Entro per parlare con l’infermiere, se riesco. E per capire qualcosa di più.
Leandro ha terminato la sua vita su questa terra. Mi preoccupo dei tre bambini. Sono di età tra i sei e i dieci anni. Il più grande lo riconosco subito, siamo amici. È il più sofferente. Anche i due più piccoli stanno male. Ma non stanno male per il colpo diretto del fulmine, che sembra abbia prodotto solo un forte calore alla base dei piedi. Stanno male per lo spavento, e perché hanno visto la mamma in quello stato. Il piccolo amico, quando mi vede, si riprende un pochino. Gli dico che deve avere il coraggio di essere il fratello più grande dei tre, e di non temere, che non c’è più motivo di spaventarsi. Parlo con la bocca, ma nel cuore vorrei stringerlo per piangere con lui…
Con l’infermiere decidiamo i passi da compiere. E così avviene.
Un aiutante dell’ospedale prende i tre bambini e li fa uscire: i bambini non devono vedere i defunti, e non devono assistere a ciò che sta per accadere. Tutti capisco che questa è la prima scena. I tre piccini si tengono stretti tra di loro, quasi fanno fatica a camminare: sguardo fisso a terra, nessuno che si rivolge a loro, e tutti che pensano a chi deve uscire adesso da quella porta.
Dopo due minuti la porta si riapre: esce il corpo della mamma. Le donne della piazza gridano il loro dolore, i giovani piangono quasi sottovoce: non c’è più tempo per guardarci negli occhi, tutti che guardano quel corpo sollevato dalle mani degli uomini. Alcune donne si rotolano a terra, in mezzo al fango: è un loro modo per manifestare la loro disperazione verso la morte della loro amica. Il corpo sale sulla mia macchina e viene accompagnato a casa. Solo i suoi familiari seguono la defunta, mentre la macchina procede lentamente.
Poi la macchina ritorna indietro; e tutti comprendono ancora cosa sta per succedere. Qualche uomo comincia a gridare, a chiamare il nome di Leandro, e tutti capiscono. Esce il corpo dalla finestra: mani vigorose lo appoggiano sulla mia macchina e tutti gli uomini piangono. Non succede mai: qui gli uomini non piangono mai, e se lo fanno, lo fanno di nascosto. Ma è troppo questo dolore per questa scomparsa così furtiva dell’amico conosciuto in tutta Bigene. E anche gli uomini piangono.
La macchina porta il corpo alla sua abitazione. Per tutta la notte si sentono le lamentazioni tipiche della mia gente. Sono come dei ritornelli cantati e ripetuti per ore e ore.
Anche noi missionari ritorniamo nelle nostre case. La nostra presenza non è servita a niente. O forse è stata molto utile a dimostrare, ancora una volta, che siamo qui a gioire con chi gioisce e a piangere con chi piange.
Il lunedì mattina celebriamo la S. Messa con partecipazione dei nostri amici cristiani. Al termine ci rechiamo tutti alla casa di Leandro. La mamma dei tre bambini è stata portata via, durante la notte: il suo funerale sarà eseguito al paese nativo, lontano dallo sguardo dei suoi bambini, come si usa fare qui. I bambini vengono sempre allontanati dai funerali: si pensa che poi potrebbero fare brutti sogni, e potrebbero stare molto male.
Alla casa di Leandro ci sono già molte persone, i parenti lontani sono in viaggio. Gli uomini anziani stanno già procedendo per iniziare gli scavi della fossa dove sarà sepolto il corpo, nel giardino di casa. Sono gli uomini anziani che organizzano tutto quello che serve per i funerali. Noi rimaniamo in silenzio, guardiamo, salutiamo i familiari. Non si esprimono parole: la presenza parla più di tutto.
Leandro non era cristiano. Non era nemmeno musulmano. Un bravo uomo, insegnante di lingua francese alla scuola dello stato e alla scuola della missione. Una persona seria e rispettata da tutti. Nel momento del fulmine era sotto la veranda di casa dove stava preparando del cibo cotto sul fuoco. Aveva in mano degli strumenti di ferro per cucinare. Anche la donna, dall’altra parte della casa, stava cucinando per i suoi bambini. Anche lei teneva i ferri in mano. Dentro la casa vi erano altre persone che non sono state toccate dal fulmine, solo toccate dallo spavento. Come noi nella nostra casa.
Dopo i nostri doverosi saluti ci ritiriamo, e ci diamo appuntamento, con tutti i cristiani, per il pomeriggio, nell’ora in cui Leandro sarà sepolto. Dobbiamo essere presenti, con la nostra preghiera silenziosa, ma presenti.
Nel pomeriggio ci ritroviamo tutti, ma avviene qualcosa di inaspettato. Un cugino del defunto mi chiede esplicitamente di andare a pregare. Con la preghiera della chiesa cattolica. Naturalmente dico subito di si, dopo aver verificato che nella famiglia sono tutti d’accordo per ricevere la preghiera cristiana cattolica. Dico questo perché, a volte, succede che nella stessa famiglia ci siano persone di altre chiese, o altre religioni, ed è prudente chiedere che tutti siano sereni nell’accettare la mia preghiera.
Rimango comunque sorpreso: non me l’aspettavo.
Arriviamo alla casa e iniziano le loro cerimonie. Il corpo del defunto è portato davanti casa e rivestito di vari panni. Una confusione fatta di pianti, di canti, di ordini pronunciati dagli anziani su come si devono compiere queste azioni. Noi cristiani rimaniamo scostati, in attesa.
Poi qualcuno detta l’ordine: “Adesso ascoltiamo la preghiera del padre!”.
Si apre un varco per farmi avvicinare al defunto. Scende un silenzio profondo. Chiedo di allargare il cerchio per permettere che i cristiani si riuniscano in preghiera attorno a Leandro. Il corpo è lì, avvolto nei suoi panni, disteso a terra su una stuoia.
Introduco la preghiera spiegando a tutti che è la famiglia a chiedermi di pregare, e che tutti, anche i non cristiani, possono ascoltare, senza alcun problema. Mi aspetto che i musulmani presenti si spostino dal cerchio della preghiera; anche altri non credenti, di solito, lasciano spazio a chi desidera pregare.
Ma questa volta non si muove nessuno. Forse il dolore che ci unisce è così forte che fa superare tutte le nostre distinzioni di fede. Commento il passo delle beatitudini dopo aver letto il Vangelo. Ho come la sensazione che mi stiano tutti ascoltando. E quando parlo di Dio che è Padre e che è ricco di misericordia con tutti, noto alcuni uomini anziani, non cristiani, confermare con il segno del capo le mie parole. Forte di questa impressione, affermo che dobbiamo essere tutti sempre più uniti, perché grande è il nostro dolore, e grande deve essere la nostra unione oltre il dolore di questo giorno.
È come se qualcosa avesse toccato i loro cuori: vedo gli anziani che confermano, con il capo, tutto quello che dico. E quando un anziano fa capire la sua approvazione, quella emozione è di tutti i presenti, nessuno si permette di non essere in sintonia con gli anziani.
Non è accaduto nulla di preciso, ma ho la forte sensazione che qualcosa di nuovo è accaduto. Nei giorni seguenti noto alcuni anziani che mi salutano con più attenzione, alcuni si fermano a dialogare sul dramma accaduto in mezzo alle nostre case.
La morte è sempre un male. Sempre.
Ma da questi avvenimenti dolorosi è come se fosse cresciuta, tra la mia gente, una amicizia ancor più profonda. Noi cristiani siamo la minoranza. Ma una minoranza che cresce e che sempre più si fa sentire. E dobbiamo crescere in rapporti di fraternità e solidarietà con chi vive in mezzo a noi, accanto alle nostre case. Le lacrime e i dolori, a volte, ci fanno anche crescere. E se i non cristiani ci chiamano per stare con loro, per pregare per loro, penso che Gesù sia molto contento.
Nessun commento:
Posta un commento