La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

15 settembre 2010

Capitolo 12 - Giovani foggiani a foggia

Cari amici, dopo un breve periodo trascorso in Italia, che mi ha permesso di incontrare alcuni di voi, sono ora a proporvi il capitolo dodici del mio diario. Questa volta, però, il mio diario non è mio: è stato scritto da Gaetano Nino Santoro, giovane amico di Foggia che coopera al Centro Missionario della Diocesi di Foggia-Bovino. Mi piace proporre a tutti il “suo” diario di questa prima visita a Bigene di un piccolo gruppo di giovani foggiani: don Marco, Sergio, Gaetano, Antonio e Giuseppe. Sono stati giorni intensi, belli, pieni di comunione tra noi e con le persone incontrate in questa terra d’Africa. Buona lettura, e un grande grazie a questi amici che hanno riempito “foggia” (la casa dei missionari a Bigene) con la loro gioiosa presenza.

La partenza per Bissau: 18/08/2010

Certe persone decidono di partire per l’Africa spinti dalla curiosità di conoscere questa terra affascinante, altre, prese dal “mal d’Africa”, non possono fare a meno dal tornarci…. Se dovessi dare io una risposta sul perché ho deciso di intraprendere questo viaggio, non saprei darne una precisa, forse perché nei più poveri riesci davvero a scoprire il volto di Cristo e perché questa gente, nonostante le mille difficoltà, riesce ancora a sorridere molto più di quanto sappiamo farlo noi. Ma fatto sta che sentivo un forte desiderio di conoscere questa missione in uno dei paesi più poveri dell’Africa. La nostra avventura parte da Foggia; dopo un viaggio intenso, anche con la simpatica compagnia e condivisione di un ragazzo senegalese conosciuto in treno, ci ritroviamo tutti e sei (io, don Ivo, Marco, Sergio, Antonio e Giuseppe) all’aeroporto, pronti per spiccare il volo per Bissau. Il viaggio è lungo e stancante, ma grazie a un giro di Lisbona pensato da don Ivo, riusciamo a spezzare la monotonia delle ore di viaggio. Arrivati all’aeroporto nelle prime ore della notte, siamo accolti da Giusy che, felice di vedere un bel gruppetto di persone di Foggia, ci accompagna alla curia di Bissau dove finalmente possiamo riposarci e “ricaricarci” per la giornata, per la nostra prima giornata in Africa.

La nostra prima giornata africana a Bissau: 19/08/2010

Alle sei del mattino sono già sveglio. Il canto degli uccelli non mi ha permesso di smaltire la stanchezza, ma è un suono piacevole e preferisco alzarmi per guardare fuori. Siamo arrivati di notte, quando tutto era buio, e quindi solo adesso posso rendermi conto di quello che mi sono perso: tante bellissime piante con fiori colorati. Un po’ alla volta iniziano a svegliarsi anche i miei compagni di viaggio.
Fatta colazione, don Ivo ci propone di recarci in visita al lebbrosario di Cumura. Arrivati sul posto, troviamo tante persone in attesa di una visita; andiamo all’interno e, sempre cercando di non intralciare il lavoro dei medici, entriamo negli ambulatori e vediamo un ragazzo con una fasciatura al piede. Il dottore ci dice che il bambino ha la lebbra e, iniziando a perdere sensibilità al piede, senza accorgersi si provoca ferite che poi fanno infezione. Don Ivo cerca di rincuorarlo, ma nei suoi occhi la tristezza è tanta che a stento accenna ad alzare il capo. Ci rechiamo quindi, a poche centinaia di metri dal lebbrosario, a un centro di maternità che tra l’altro ospita anche donne sieropositive con i loro piccoli.

E’ qui il momento più triste della giornata; una donna porge tra le braccia di Marco il suo piccolo e, sapendo di essere sieropositiva e di non poter assicurare un futuro al bambino, gli dice: “Padre, portala con te”. Sono frasi che ti mettono di fronte alla dura realtà di questi posti e ti riempiono d’interrogativi…
Ci rechiamo quindi alla clinica pediatrica di Bor. Si tratta di una realtà molto bella, nata dal desiderio di due genitori di realizzare il sogno della loro figlia morta prematuramente. La ragazza, studentessa di medicina, esprimeva da qualche tempo il desiderio di partire in missione per la Guinea Bissau, ma subito dopo essersi laureata, si ammalò di tumore e morì poco tempo dopo. I genitori allora decisero di creare un’associazione che finanziò la nascita di questo centro, che tuttora rappresenta una bella realtà operante a Bissau.

Mentre siamo in giro all’interno della struttura, siamo coinvolti dall’allegria di una bambina che, divertita dal funzionamento della macchinetta digitale, ci aiuta a riprendere il sorriso.
Dopo la pausa pranzo e un breve riposino ci rechiamo a N’Dame alla casa delle suore Oblate, dove c’è un altro gruppo di Foggia venuto con Solidaunia. I giovani volontari da qualche giorno stanno coinvolgendo i bambini del posto con i giochi estivi. Una marea di bambini, felici di incontrare ragazzi che li facciano divertire. La cosa bella è che i giochi, oltre a intrattenere, hanno come obiettivo quello di trasmettere le buone norme dell’igiene per prevenire malattie pericolose come la malaria. Finiti i giochi, animatori e non, ci scateniamo in una partita di calcio. L’avvicinarsi del tramonto segna la fine della nostra partita; al calar del sole iniziano a lavorare le zanzare della malaria. Condividiamo con le suore, che ci hanno preparato la cena, l’ultima parte della giornata e poi con “segezia” (il fuoristrada di don Ivo) imbocchiamo la strada del ritorno.
La mia prima giornata africana termina. Prima di addormentarmi ripasso a mente tutti i momenti più belli della giornata. Ho avuto occasione di incontrare persone straordinarie, infermieri, suore e dottori che instancabilmente lavorano negli ospedali … come quel medico che a una battuta di don Ivo, se fosse andato in ferie, ha risposto dicendo che lui ci va tutti i giorni dalle dieci di sera alle cinque del mattino. Mi addormento stanco per la giornata e pronto per una nuova avventura: il viaggio verso Bigene.

Viaggio da Bissau a Bigene: 20/08/2010

Anche questa mattina la sveglia degli uccelli è efficace. Facciamo colazione, ma prima della partenza ci rechiamo al mercato per acquistare quelle cose che nel villaggio di Bigene saranno difficili da trovare. Per acquistare le patate ci occorrono più di dieci minuti. Don Ivo inizia a contrattare il prezzo con la signora della bancarella; la scena è divertente anche perché sulla merce non ci sono prezzi e quindi c’è un vero e proprio tira e molla. Alla fine l’accordo è fatto. Ci portiamo la sacchetta e dopo altre compere (molto rapide questa volta) ci incamminiamo per Bigene.
70 km di strada discretamente asfaltata (ma solo perché trattasi della strada internazionale di collegamento con il Senegal) e altri 30 km nella foresta. Quest’ultimo tratto è più che altro strada in terra battuta, che in questa stagione (che è quella delle piogge) è piena di pozzanghere di cui non si sa la profondità, quindi bisogna camminare a passo d’uomo.
A dieci chilometri da Bigene ci fermiamo: siamo a Liman, un villaggio dove don Ivo si reca a fare la catechesi. I bambini appena ci vedono arrivare si mettono a correre incontro alla macchina. Ci fermiamo e, dopo aver salutato il capovillaggio, don Ivo inizia a giocare con i bambini cantando un motivetto che sanno a memoria.

A un certo punto don Ivo nota un bambino molto piccolo con una ferita sulla gamba che ha fatto infezione. Chiama il capovillaggio per farglielo notare e lo rimprovera un po’, perché questo tipo d’infezione si ha quando non si recano in medicheria per far curare la ferita. Ci intratteniamo giusto qualche altro minuto e poi ripartiamo per percorrere l’ultimo chilometro.
L’ultimo tratto è il peggiore; dire che esista ancora qualcosa che assomiglia a una strada, è esagerato. La pioggia in questo periodo è così forte che crea veri e propri solchi, e riuscire a procedere diventa un’impresa. Finalmente riusciamo a superare l’ultimo tratto (don Ivo inizia a sentire l’odore della “sua Bigene” e nulla può più fermarlo) ed entriamo in Bigene. Ci fermiamo un attimo per salutare suor Teresa e poi diritti a casa. Il villaggio è davvero poverissimo, ma si respira un’aria familiare. Arriviamo a casa dopo quattro ore di viaggio (di cui due per fare 30 km) e dopo la cena ci godiamo il meritato riposo.

Lezioni di criolo: 21/08/2010


La notte è passata tranquilla. La casa è bella e accogliente e i letti sono comodi; infatti sono riuscito a dormire tutto di un tiro. Fuori piove, il tempo è grigio e non ci permette di uscire. In programma questa mattina c’è lezione di criolo e verrà a darci una mano Joakim. Certo non vogliamo imparare tutto in questi pochi giorni, ma almeno le frasi più comuni per comunicare un po’ con la gente del posto. Joakim è un ragazzo di trent’anni che da piccolo si ammalò di una grave malattia alla vista. Il padre si vergognava di ciò e aveva preferito non mandarlo a scuola, ma lui desiderava tanto studiare che alla fine di nascosto scappava lo stesso a scuola. Studiare con il problema alla vista gli creava tante difficoltà, ma nonostante ciò riuscì a completare l’undicesimo anno che corrisponde al nostro diploma. La lezione è molto interattiva e divertendoci iniziamo a masticare qualche parola di criolo. Il cielo nel frattempo inizia a schiarirsi e così, dopo aver pranzato, ci mettiamo in auto, direzione Senegal per acquistare gasolio. Verificheremo cosa si prova a fare il clandestino. Anche questa strada attraversa la foresta. Ai lati si scorgono le risaie. Basta alzare una mano e le donne sorridendo ti salutano. Passiamo alcuni villaggi ed è sempre uno spettacolo. La gente pur non conoscendoti ti sorride e salutandoti ti chiede: “Kuma?” (“Come stai?”). I bambini poi sono un qualcosa di eccezionale. Gridano e fanno festa al tuo passaggio. Dopo un po’ di strada arriviamo in un villaggio del Senegal. Abbiamo appena varcato il confine, ma quasi neanche si sa dove realmente finisca il territorio guineense e dove inizi quello senegalese. Una breve visita alle suore della missione di Samine e quindi a cercare chi possa venderci carburante per il generatore. Don Ivo incontra un ragazzo cristiano (la maggior parte sono musulmani) che, indovinate come si chiama? ... anche lui Ivo!! Si mette subito in contatto con uno del posto e riusciamo a trovare il gasolio. Partiamo alla volta di Temento, dove c’è un santuario molto importante del Senegal; qui ogni anno, per la festa della Madonna, accorrono centinaia di fedeli da ogni parte del Senegal e anche dalla Guinea. Ci fermiamo per una preghiera e per ammirare il panorama sulla riva del Casamanche. Il tramonto si avvicina e, vista la pericolosità della strada, ci avviamo verso casa.

La domenica a Bigene: 22/08/2010

Sveglia alle sette, e dopo la colazione tutti in chiesa per la Messa. La chiesa poco alla volta inizia a riempirsi e la gente incuriosita si volta a guardarci. Al contrario di come immaginavamo, la chiesa si riempie, chissà se per la curiosità suscitata dagli ospiti o per il desiderio di rivedere il parroco dopo un mese di assenza. I ragazzi del coro sono davvero bravi, con due bonghi (tamburi) e due cembali fatti con tappi di bottiglie riescono a creare una bella musicalità. Messa in criolo, ma fortunatamente il senso delle frasi si riesce a capirlo. L’omelia è molto partecipata perché don Ivo, anche con battute per non renderla pesante, coinvolge le persone facendo delle domande sulle letture ascoltate. Alla fine della Messa ci presenta all’assemblea, chiedendo quale potrebbe essere l’equivalente del nostro nome in criolo. Per il mio (Nino) non ci sono problemi, è uguale a quello dell’ex presidente; per fortuna non sono venuto qua con quest’ambizione (ex presidente perché è stato assassinato qualche mese fa). La gente sembra felice di ricevere gli ospiti e la conferma l’abbiamo quando, percorrendo la strada a piedi per andare a casa delle suore, qualcuno comincia a fermarci per chiedere come va. Fortunatamente le poche nozioni ricevute da Joakim si dimostrano sufficienti per evitare brutte figure. Nel primo pomeriggio ci rechiamo al villaggio di Liman, dove c’eravamo fermati di passaggio nel tragitto per Bigene. Dopo la solita accoglienza dei bambini, restiamo incuriositi da una signora che con un bastone batte il riso per pulirlo dalla pula. Sembra una cosa facile eppure Marco, nonostante sia abbastanza forzuto, trova faticoso farlo. Giriamo tra le capanne e finalmente troviamo il capovillaggio. Don Ivo chiede di fare un incontro con tutta la comunità cristiana. I primi a partire sono i bambini che, preso il loro sgabellino, si avviano verso una capanna che è utilizzata per varie attività; può diventare sala per la catechesi ma anche discoteca. Non vi nego che mi sento un po’ a disagio… Ci troviamo seduti noi da una parte e tutti loro di fronte. La cosa che più mi colpisce è che sono presenti tutte le generazioni, dai bambini più piccoli agli anziani; tutti per ascoltare le parole di don Ivo; proprio come accade durante le catechesi. Un interprete traduce quello che dice don Ivo. A un certo punto don Ivo chiede se qualcuno, tra noi e loro, vuole fare una domanda. Mi è difficile trovare qualcosa da chiedere…. pur essendo tutti giovani veniamo da mondi totalmente diversi. Giuseppe a un certo punto chiede se loro sanno dove si trova il nostro paese, l’Italia. Nessuno alza la mano, sanno che si trova nella terra dei bianchi, ma geograficamente non sanno dove. A un certo punto Joakim domanda cosa vorrebbero chiedere a don Ivo, e loro rispondono una chiesa. Sentono l’esigenza di avere un luogo sacro tutto per loro e chiedono un aiuto a don Ivo. Don Ivo fa capire che si può fare, ma se c’è qualcuno che sia disposto a dare una mano a realizzarla. I ragazzi e anche i più grandi ci pensano un po’, sentono la responsabilità della risposta che stanno per dare, ma alla fine alzano la mano. Il prossimo inverno inizieranno i lavori.
Salutiamo tutti, ma prima di andare via lasciamo al capovillaggio il cartone con i vestiti invernali del container organizzato da Foggia e Segezia. Imbocchiamo la strada del ritorno…… un’altra giornata sta per terminare.

Lavori straordinari: 23/08/2010

Sveglia alla solita ora, e dopo la Messa iniziamo i lavori di pulizia davanti alla casa insieme ai ragazzi di Bigene. Giusto un paio d’ore e poi lezione di criolo. Nel pomeriggio visita al villaggio di Farea. Impossibile arrivare con la macchina, a un certo punto bisogna andare a piedi in mezzo alla risaia. Arrivati nel villaggio, dopo la solita calorosa accoglienza, ci rechiamo nella chiesa. Si tratta di una capanna come le altre, unica differenza è che ci sono il crocefisso e qualche immagine attaccata al muro. Don Ivo saluta tutti, e dopo averci presentato, chiede se vogliono fare qualche domanda. Il primo a parlare è il capovillaggio che, dopo aver ringraziato gli ospiti per la visita, fa presente a don Ivo la sua preoccupazione per la scuola dove non sempre arriva il maestro, e per la strada che nella stagione delle piogge si allaga rendendo difficile il cammino. Poi una donna alza la mano, e in nome delle altre dice di essere stanca per il troppo lavoro. Devono battere a mano il riso per pulirlo dalla pula e dopo andare nelle risaie per preparare il terreno, e quindi tornano a casa stremate. Se si potesse acquistare un macchinario a gasolio per pulire il riso, ne beneficerebbe tutto il villaggio. L’intervento tuttavia che più mi rimane impresso è quello di una donna: fa notare che se delle persone come noi, pur essendo di razze diverse, stanno tutte unite a pregare lo stesso Dio, vuol dire che davvero siamo tutti fratelli. Effettivamente, vedendo questa comunità mi sembra di percepire le prime comunità cristiane, e la cosa mi colma di gioia. Anche questa volta, prima di andare via distribuiamo i vestiti invernali per i bambini e torniamo a casa.

Centro nutrizionale: 24/08/2010

Questa mattina ci aspetta un incarico particolare. Andremo al centro nutrizionale a distribuire il cibo alle donne con bambini denutriti, orfani e gemelli. Joakim aspetta il nostro arrivo prima di iniziare. Il lavoro consiste nel pesare i piccoli: s’inseriscono in un calzoncino con una bretella che si appende poi alla bilancia. Si stendono quindi su un tavolino per misurarne l’altezza con il metro, e infine si misura il diametro del loro braccio. Joakim ci fa collaborare; inutile dire che siamo impacciati. Infilare i piedini dei bambini in questa sacchetta è un’impresa (almeno per noi). Scalciano e strillano disperati, forse anche perché non sono abituati a vedere uomini bianchi. La maggior parte dei bimbi a stento supera la soglia di denutrizione.

A un certo punto una signora entra con un bambino piccolissimo. Ha due mesi e la bilancia segna 1,9 Kg. Vederle in televisione certe cose già fanno star male, ma prenderla tra le braccia questa piccola creatura ti lascia davvero senza parole. La fila è interminabile; il martedì è giorno di mercato e le donne, soprattutto quelle dei villaggi vicini, avranno approfittato per fermarsi prima lì, arrivando così tardi al centro. Terminiamo il lavoro per l’una, ma tanta gente non riesce a farcela e dovrà tornare domani. Nel pomeriggio ci incontriamo con Joakim per un’altra lezione di criolo, e durante l’esercitazione l’argomento cade sul “fanado”, che corrisponde al rito d’iniziazione dei ragazzi. Joakim ci spiega un po’ come funziona. Ogni ragazzo deve affrontarlo per diventare uomo. I più anziani lo portano nel bosco vestito solo di una tunica e qui deve restare per tre mesi. Vive nella capanna dove gli portano il cibo, ma se non finisce di mangiarlo rimane lì finché non l’ha finito. Se poi il ragazzo manca di rispetto al padre, qui lo provocano per metterlo alla prova, e se lui dovesse reagire lo picchiano per insegnargli il rispetto. In questo periodo se si dovesse ammalare non può allontanarsi per farsi curare, e quindi potrebbe rischiare anche la vita come alcune volte accade. Vista così, sembrerebbe un’usanza arcaica, eppure questa esperienza davvero aiuta i giovani a imparare a vedersela da soli e insegna loro il rispetto che è alla base della pacifica convivenza del villaggio. Il fatto che però i rischi di morire siano tanti, induce molti delle nuove generazioni a prendere le distanze da questa tradizione.

Funerale dei Balanta-Mané: 25/08/2010

Anche il mercoledì è giorno di apertura del centro nutrizionale e così ci rechiamo con Joakim per distribuire il cibo alle donne incinte. Facciamo per un’ora le stesse cose del giorno prima, poi don Ivo riceve una telefonata da suor Rosa: è morta una donna di un villaggio vicino e chiedono che il “padre” faccia una preghiera. Don Ivo decide di portarci tutti, più che altro per capire meglio le tradizioni guineensi. Arrivati nel villaggio, vediamo tantissima gente radunata in gruppetti. Non tutti i funerali hanno la stessa importanza. Quando una persona muore molto anziana, vuol dire che è stata una brava persona; gli spiriti (per spiriti loro intendono le anime dei defunti) l’hanno protetta e l’hanno fatta vivere a lungo. La nostra visita è un grande onore per loro e, infatti, ci vanno a prendere delle sedie. A un certo punto gli uomini iniziano a preparare delle aste di legno per la bara, anche se in concreto questa è più che altro una specie di barella da utilizzare solo per il trasporto.

Tutti i figli si distendono seminudi con la faccia a terra e la madre è fatta passare su di loro; è come se, con questo gesto, la madre si dimenticasse di loro. Se non facessero ciò, e qualche figlio per qualunque motivo dovesse stare male ed essere triste, la mamma potrebbe tornare a prenderlo (lo farebbe morire) per averlo con sé. Il corpo della donna è quindi adagiato sulla barella; noi ci mettiamo tutti in cerchio e recitiamo delle preghiere in criolo. Finita la preghiera, la processione parte verso il luogo dove verrà seppellita; vi partecipano solo gli uomini, ad eccezione delle figlie che possono restare vicino alla buca, ma con la faccia a terra e coperte da un telo per non guardare. È una buca profonda un paio di metri, e sul fondo è scavato un tunnel dove verrà inserito il corpo orizzontalmente. Poi le è coperto il volto, in modo che sia protetto quando sarà gettata la terra, e ricoperto tutto il corpo di frasche. Dopo la sepoltura della donna, inizierà la festa. Per loro una donna morta anziana, come dicevo prima, è una persona che deve essersi comportata bene e quindi bisogna fare festa. Noi andiamo via per pranzare, perché poi nel pomeriggio faremo un incontro con i giovani della parrocchia di Bigene.
Nel primo pomeriggio i ragazzi iniziano ad arrivare fino a essere circa una trentina. Ci presentiamo dicendo cosa facciamo nella vita. La maggior parte di loro studia a Bissau per arrivare al diploma (se si vuole fare un confronto con i nostri studi). Qualcuno lavoricchia, un altro ha addirittura studiato musica. È chiesto quali sarebbero le loro attese, o di cosa avrebbero bisogno. Le risposte sono varie. C’è chi vorrebbe una chitarra per la corale della chiesa. Chi vorrebbe dei professori per continuare la scuola oltre il quarto anno a Bigene, altri invece vorrebbero un centro di formazione professionale per imparare un mestiere e poter costruire un futuro. Certo per noi è più facile pensare che ci siano cose più importanti, come l’energia elettrica per tutti, le strade sistemate o un ospedale, ma loro sentono forte il desiderio di imparare un lavoro. Qualcuno chiede addirittura un corso d’informatica per usare internet e non restare isolati dal mondo. Sicuramente pensare a qualcosa che permetta di sfruttare meglio il terreno, ad esempio, potrebbe essere un’ottima idea … ma chi siamo noi per dire che queste scelte sono la cosa più giusta per loro?

La pioggia rovina la visita al villaggio: 26/08/2010

Questa mattina ci tocca continuare con i ragazzi il lavoro iniziato per pulire la “foresta” davanti alla casa. I ragazzi sono puntuali e alle otto e mezzo iniziamo. Faticoso zappare, ma alla fine c’è la soddisfazione di vedere molto più pulito.
Nel pomeriggio ci rechiamo nel villaggio di Bambea, ma la pioggia inizia a cadere violentemente e, siccome qui non c’è la chiesa, è in pratica impossibile svolgere l’incontro all’aperto. Stiamo per andare via quando sulla strada ci ferma un uomo. Sta male, su tutto il corpo ha come delle cisti e respira a fatica. Chiede se c’è la possibilità di essere portato da qualche parte per essere curato. Chiediamo se ha qualche carta con le analisi fatte in precedenza, qualcuno le trova; solo un paio di analisi, ma in una di queste si legge che l’uomo è risultato positivo al test dell’HIV. Non avrà più di quarant’anni, ma ha già l’AIDS e chissà quale altra malattia. Don Ivo rimane d’accordo che passerà a prenderlo domenica pomeriggio per portarlo all’ospedale di Bissau. Andiamo via con una grande tristezza nel cuore, sapendo che se anche riuscisse ad arrivare in ospedale, non avrebbe alcuna possibilità di stare meglio.

Bigene: 27/08/2010

Ci alziamo alla solita ora per partecipare alla Messa che si celebra ogni mattina nella cappellina delle suore, e poi torniamo a casa per continuare il lavoro. Il terreno intorno alla casa è molto esteso e con tutta questa pioggia l’erba cresce alta. Marco ed io ci fermiamo in casa per completare alcuni piccoli lavoretti mentre gli altri si danno da fare in giardino. Nonostante la casa sia stata completata ad aprile, non sono stati fatti gli ultimi ritocchi. Sistemiamo altri pensili e mensole, e le stanze diventano giorno dopo giorno più accoglienti anche per i “futuri ospiti” che vorranno venire.
Nel pomeriggio ci incamminiamo verso il villaggio di Bucaur, ma ancora una volta un forte temporale ci rovina la festa. Restiamo in casa a gustarci la buonissima pizza che ha cucinato suor Rosa.

L’amico di Antonio: 28/08/2010

La mattinata inizia come le altre tra lavoro e lezioni di criolo. Oggi però c’è una variante: il “professore” interroga… In altri tempi si sperava nella campanella ma, questa volta, è una visita inaspettata a salvarci da un “brutto voto”.

E’ un signore che ha fatto amicizia con Antonio: ritiene importante che un amico debba conoscere i suoi figli e quindi li ha portati con sé. Poi chiede se avremmo piacere di visitare la sua casa e don Ivo, senza farselo dire due volte, afferma di sì. La visita dura poco; ci ritroviamo attorniati dai bambini e l’attenzione si sposta su don Ivo che li fa divertire in tutte le maniere.

Iniziamo a camminare e i bambini si attaccano dappertutto: dita, braccia; è una gara a chi tiene per mano uno di noi, ma il bello deve ancora venire. Un bambino inizia a pizzicarsi con un altro perché vuol tenere per mano don Ivo; persino prova a morderlo, ma sbaglia mira colpendo il dito di don Ivo che scappa a casa a medicarsi.
La giornata termina a cena con il racconto di Joakim, che ha assistito alla scena e ride a crepapelle mentre la racconta.

La partenza di Marco e Sergio: 29/08/2010

È domenica e ci rechiamo a Messa. I parrocchiani ormai hanno imparato a conoscerci e ci hanno preparato una sorpresa: alcuni canti sono accompagnati da danze fatte da ragazzini che sono bravissimi. A fine Messa don Ivo invita Marco e Sergio a salutare la comunità, poiché nel pomeriggio dovranno partire. Il primo a parlare è Sergio, che ringrazia tutti per l’accoglienza e per aver avuto la possibilità di conoscere gente vera e con il sorriso. Un pezzo del suo cuore è rimasto qui e spera di tornare per collaborare con i giovani del posto. Poi è la volta di Marco. Anche lui ringrazia tutti e porta con sé il piacere di sapere che in questa terra, come nella nostra, ci sono fratelli che pregano lo stesso Padre e con le medesime parole. La sua speranza è che attraverso l’Associazione “Amici di Bissau” possa iniziare un cammino insieme. Gli amici partono nel pomeriggio e noi, dopo la cena dalle suore, abbiamo finalmente la possibilità di tornare a casa a piedi e goderci questo favoloso cielo stellato.

Il ritorno di don Ivo a Bigene: 30/08/2010

La mattinata scorre tra qualche lavoretto in casa e uno squisito pranzo dalle suore. Nel pomeriggio arriva don Ivo e ci dice che il viaggio fino a Bissau, anche grazie al tempo buono, è filato liscio. Sono riusciti a portare all’ospedale di Cumura quell’uomo incontrato al villaggio di Bambea e, come temevamo, non ci sono speranze. E’ una forma di tumore e, oltretutto, in ospedale non ci sono oncologi. L’unica cosa che si può fare è dargli qualche sedativo per alleviare le sofferenze dei suoi ultimi giorni.

Il temporale africano: 31/08/2010

È martedì e anche questa mattina ci rechiamo al centro nutrizionale. I bambini denutriti o con qualche malattia sono sempre tanti. Joakim, grazie a quel po’ di esperienza che si è fatto, riesce a preparare qualche medicina, ma se ci fosse qualche medico, si potrebbe fare di più. Il pomeriggio rimaniamo in casa per il solito temporale che non ci permette di muoverci. In tarda serata la pioggia diventa un vero e proprio temporale africano. Piove molte ore con una violenza esagerata …..praticamente il diluvio universale!

L’affetto dei piccoli di Bigene: 01/09/2010

Mercoledì Antonio ed io siamo di nuovo al centro nutrizionale, mentre Giuseppe è rimasto a casa; non si sente bene e ha passato la notte insonne. La gente è davvero tanta e in tutta la mattinata saranno passate circa una cinquantina di donne. Terminato il lavoro, decido di accompagnare suor Rosa a casa, anche perché ho proprio voglia di fare due passi. Tornando da solo ho la sensazione di sentirmi a casa. Le persone che ricordano il mio nome mi chiamano per salutarmi, mentre i più piccoli fanno a gara per afferrarmi per mano e accompagnarmi. Passiamo il resto della giornata in casa e mi addormento ripensando ai volti delle persone incontrate e agli occhioni neri del bambino del centro nutrizionale.

Il piccolo Diego: 02/09/2010

Questa mattina suor Rosa ci chiede di darle una mano a scuola: si tratta di scegliere i giocattoli buoni da uno scatolone donato da un’associazione portoghese. Apriamo il cartone e la sensazione è che la gente più che donarli abbia voluto disfarsene. La maggior parte sono rotti o in cattivo stato, tanto che se li vedessero i nostri bambini italiani, non li sfiorerebbero neanche con lo sguardo.
Mentre siamo qui, arriva il piccolo Diego, quel bambino con la ferita infetta che abbiamo incontrato di passaggio a Liman nel giorno del nostro arrivo. Con Joakim andiamo al centro e qui lui prepara un barattolo con della pomata da applicare sulla ferita. Io regalo a Diego delle caramelle e lui lecca anche la carta, perché non vuole perdersi nulla. Poi provo a giocare ma, a differenza degli altri bambini, non riesco a strappargli neanche un sorriso. Certo il piccolo avrà davvero una vita molto triste. I genitori sono in Gambia a lavorare, e i parenti non sembrano dargli molta retta. Purtroppo è la dura realtà di questa terra: i bambini sin da piccoli devono imparare a crescere da soli, ed è molto difficile che i genitori si lascino andare a gesti di affetto.

Finalmente al villaggio di Bucaur: 03/09/2010

Anche oggi il tempo non è dei migliori, ma bisogna cercare di andare nel villaggio di Bucaur. Nel pomeriggio le nuvole lasciano spazio a un po’ di sereno e finalmente partiamo per il villaggio, dove ci aspettano già da una settimana. Nel tragitto passiamo per il villaggio di Jamban. Ci fermiamo a salutare, e il capovillaggio ci informa che il giorno prima è morto un bambino di due anni e lo hanno già seppellito. Come ci era già stato spiegato, la morte di un bambino non ha la stessa importanza di quella di un anziano. Ci fermiamo per una piccola preghiera e lo chef (capovillaggio) ci dice che il piccolo da molti giorni aveva vomito e diarrea. Sembrerebbero i sintomi del colera, ma è un po’ difficile che accadano casi di colera in un villaggio. Joakim fa notare che i genitori vanno a lavorare e a volte tornano quando i piccoli già dormono. È lasciato a loro qualcosa da mangiare, ma rimanendo soli ed essendo troppo piccoli perché capiscano, finiscono per mangiare in condizioni igieniche pessime ed è facile così che contraggano le malattie. Il padre, poi, dei figli non si cura proprio; questa è una cosa di cui si occupa la mamma. Se ci sono soldi, si portano all’ospedale, altrimenti restano a casa …… e queste sono le conseguenze.
Ripartiamo per Bucaur, dove siamo accolti con gioia dalla gente. È una comunità cristiana nata da soli tre anni e che coinvolge più di cento persone, molto desiderose di continuare il cammino cristiano. Sentiamo da lontano una canzone. Quando arriviamo vicino alla chiesa, troviamo tutta la comunità (sempre dal più piccolo al più grande) già dentro e un piccolo coro che sta intonando una canzone, scritta per don Ivo, il proprio parroco. La chiesa è stata costruita con le loro stesse mani; l’unico sostegno chiesto a don Ivo è stato per la realizzazione del tetto in lamiera. Certo la struttura è grezza e sarebbero necessari almeno l’intonaco, un pavimento e una porta d’ingresso. Ogni domenica si riuniscono qui tutti insieme per fare la preghiera. Visitiamo anche la scuola. È messa maluccio, ma quello che più a loro preme è poter contare sulla sicura presenza di un professore per insegnare ai ragazzi. Andiamo via seguiti da una scia di bambini, ma le sorprese non finiscono. Sulla strada del ritorno, ripassando per il villaggio di Jamban, sentiamo della musica. Si tratta di un matrimonio e non possiamo non fermarci. Ballano tutti, dai più piccoli agli “omi-garandi” (gli anziani) e appena ci vedono coinvolgono anche noi.

La partenza si avvicina: 04/09/2010

La partenza si avvicina e trascorriamo in sostanza tutta la giornata nel sistemare le ultime cose. Al contrario di quello che si possa immaginare, sono più piene le nostre chiavette di memoria che le nostre valigie (o almeno per il momento). Ci scambiamo le foto fatte, cercando anche il più piccolo spazio dove poter salvare le immagini di quei volti o paesaggi che ci hanno accompagnato in questi giorni. Sono emozioni indescrivibili e non basterebbe un libro per provare a raccontarle tutte. Ho incontrato della gente semplice e sincera, che con la sua ospitalità mi ha fatto sentire a casa. Persone che passano le giornate a cercare di “sopravvivere”, ma che vivono molto più di noi; sono loro a dettare il tempo delle proprie giornate, al contrario di noi che lasciamo agli innumerevoli impegni l’incarico di scandire il tempo delle nostre. Ho incrociato i sorrisi e le risate dei bambini, che con la loro ingenuità mi hanno insegnato che si può essere allegri pur non avendo niente di niente. Domani si partirà per Bissau e, dopo la Messa e il triste momento del saluto alla comunità, non credo che avrò molto tempo per scrivere, quindi preferisco finire qui il mio diario, sotto la zanzariera che in queste notti ha protetto il mio sonno dall’attacco delle zanzare. Don Ivo mi perdonerà se ho scritto più io in venti giorni che lui in due anni, ma io dovevo concentrare il tutto in queste pagine, mentre lui avrà ancora dieci anni a disposizione per scrivere di Bigene. Le ultime righe sono per i ringraziamenti.

Ringrazio Dio per avermi dato la possibilità di realizzare questo grande desiderio, arricchendomi di tutte quelle cose belle che ho scoperto nelle persone incontrate.
Ringrazio don Ivo, suor Rosa e suor Teresa che mi hanno fatto vivere appieno questa esperienza, insegnandomi che la cosa più difficile non è costruire una scuola, una strada o qualcos’altro di materiale, ma quella di formare delle coscienze capaci di creare le basi per il loro futuro.
Ringrazio infine Joakim, il nostro professore di criolo, che ci ha insegnato almeno le parole più importanti per comunicare e ci ha permesso di scoprire le tradizioni guineensi; è una persona straordinaria e sono certo che, se i ragazzi di qui impareranno a ragionare come lui, questa terra meravigliosa potrà finalmente trovare un po’ di serenità.

7 settembre 2010

Conoscere l'Africa 7: Il cammino dell’Africa, ovvero l’Africa in cammino

Incontro con il presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace: le crisi in Nigeria e nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo. Il debito estero che attanaglia i governi del Continente africano. Ma anche i progressi e le speranze di quello che il Papa ha definito il “polmone sano dell’umanità”

Intervista con il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson di Roberto Rotondo e Davide Malacaria


Il cardinale Peter Kodwo Appiah Turkson, ghanese, da sei mesi presidente del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, è il più giovane porporato africano e il più alto in grado in Vaticano tra gli uomini di Curia del Continente nero. Nato a Wassaw Nsuta, nell’ovest del Ghana, è stato consacrato sacerdote per l’arcidiocesi di Cape Coast nel 1975, di cui diventò poi arcivescovo nel 1992. È stato presidente della Conferenza episcopale del Ghana dal 1997 al 2005. Ha studiato negli Stati Uniti e all’Istituto Biblico a Roma. Parla inglese, francese, italiano e tedesco. Conosce l’ebraico, il greco antico e il latino. Creato cardinale nel 2003 – primo porporato ghanese della storia –, è stato relatore generale al Sinodo speciale per l’Africa al termine del 2009. Con lui, che ha dichiarato più volte di voler portare nella sua nuova esperienza a Roma il «grande senso di solidarietà e di ricerca della giustizia» della gente dell’Africa, abbiamo fatto il punto su alcuni gravi problemi purtroppo “cronicizzati” dell’Africa subsahariana. E siamo partiti dal suo ultimo viaggio in Nigeria.

Nel marzo scorso lei si è recato in Nigeria, pochi giorni dopo il massacro di centinaia di persone in tre villaggi di contadini, per la maggioranza cattolici, della diocesi di Jos. Che idea si è fatto della situazione dopo gli attacchi del 7 marzo, che in un primo tempo erano stati frettolosamente attribuiti alla rivalità tra cristiani e islamici?
PETER KODWO APPIAH TURKSON: Quando mi è arrivata la notizia dei villaggi presi d’assalto di notte e delle centinaia di donne e bambini uccisi, ho pensato immediatamente di partire per aiutare l’arcivescovo di Jos, monsignor Ignatius Kaigama, a riportare la calma e a tenere a freno coloro che, volendo vendicarsi, rischiavano di alimentare così una drammatica spirale di violenza. Conosco bene Kaigama, è anche presidente del Consiglio per il Dialogo interreligioso nigeriano e ha sempre cercato di promuovere la pace, ma in quei giorni era rimasto quasi da solo a invitare la gente alla calma. Fin dal primo momento è apparso chiaro che si era trattato di una terribile vendetta tribale e anche L’Osservatore Romano aveva escluso la matrice religiosa, ma, nonostante questo, era passata sui mass media di tutto il mondo l’idea che in Nigeria la radice della violenza fosse lo scontro tra musulmani e cristiani.

E invece?
TURKSON: Invece, tragicamente, si è trattato di una rappresaglia dei pastori fulani, nomadi e in maggioranza islamici, contro i contadini, stanziali e in maggioranza cristiani. La causa della rappresaglia? L’uccisione di alcuni capi di bestiame e qualche episodio di violenza subito dai pastori fulani, accusati dai contadini di rovinare i raccolti con le loro mandrie, le quali, a causa della siccità, sono state spinte a sud nelle zone coltivate. Il fatto è che il bestiame per i fulani vale più della vita, ma anche per i contadini il raccolto è questione di vita o di morte.

Una tragica guerra tra poveri…
TURKSON: Sì, è un problema che va avanti da anni. La Chiesa locale cerca in tutti i modi di riportare la concordia, ma finché il governo della regione e lo Stato centrale non riusciranno a garantire sicurezza e giustizia la situazione resterà sempre a rischio. Proprio per questo, il 19 marzo, dopo aver presieduto una celebrazione eucaristica in suffragio delle vittime, in occasione della quale ho letto anche un messaggio di Benedetto XVI, abbiamo incontrato i responsabili del governo della regione e gli abbiamo ribadito come tutta questa povera gente – che durante ogni messa prega anche per il governo, per lo Stato, per il presidente – abbia il diritto di poter dormire sicura. La cosa che ha colpito di più, infatti, è che gli attacchi ai villaggi sono avvenuti alle due del mattino, quando la gente era in casa e dormiva, proprio per arrecare il maggior numero di danni. È stata insomma una vendetta a freddo, non un’esplosione irrazionale di violenza.

E da parte musulmana non c’è stata voglia di calmare gli animi?
TURKSON: A Jos ho incontrato anche il leader musulmano Amil che lavora a stretto contatto con Kaigama. Loro due vogliono essere scintille della pace ma da entrambe le parti c’è chi storce il naso: alcuni cristiani dicono che l’arcivescovo si fida troppo dei musulmani e alcuni musulmani affermano che l’emiro finirà per essere convertito dal vescovo al cristianesimo. Ma la loro strada è l’unica possibilità per la convivenza, la pace e lo sviluppo della zona. Ne hanno parlato anche con il sultano di Sokoto, che è la maggiore autorità dell’islam in Nigeria, e speriamo che tantissimi altri decideranno di seguire la strada del dialogo.

L’errata attribuzione degli scontri a una guerra di religione è anche frutto dell’incapacità da parte nostra di ascoltare e capire ciò che accade in Africa?
TURKSON: Sì, è così. Visto da qui, tutto sembra solo “Africa”: l’Africa affamata, l’Africa vittima delle violenze tribali, della lotta per le risorse naturali... Ma nell’Africa subsahariana ci sono 48 Stati nazionali, ognuno con una propria situazione, i propri problemi, i propri drammi, i propri progressi. Rispettare l’Africa vuol dire prima di tutto imparare a non generalizzare. In Ghana, dove sono nato, ad esempio, il presidente del Parlamento, il ministro della Giustizia e il capo della polizia sono donne, ma questo non vuol dire certo che l’Africa abbia imparato a valorizzare il ruolo della donna. Così i problemi relativi agli equilibri demografici, religiosi ed etnici cambiano da Paese a Paese: in Nigeria musulmani e cristiani numericamente si equivalgono, in Sierra Leone gli islamici sono la maggioranza. In Ghana, l’islam è in minoranza e rappresenta il 18 per cento della popolazione, così abbiamo un problema che altri non hanno: ci sono gruppi a cui non sta bene l’equilibrio religioso ed etnico raggiunto nel Paese e che permette la convivenza. E negli ultimi anni questi gruppi hanno messo in atto delle strategie per cambiare gli equilibri demografici. Non sto lanciando una crociata, ma siamo consapevoli che il fenomeno esiste e, come dicono sia gli italiani sia i francesi, uomo avvisato…

La situazione di crisi permanente nella zona nord-est della Repubblica Democratica del Congo (che è un’area a maggioranza cattolica) resta una ferita aperta nel Continente africano. Perché non si riesce a uscire da questa situazione di instabilità continua? È soltanto un problema di lotta per lo sfruttamento delle immense risorse naturali?
TURKSON: La lotta per le risorse è un fattore importante della crisi, ma non è il solo. Un altro elemento è la carenza di infrastrutture come strade o ponti: in un Paese così grande, questo rende il potere centrale lontano e lento a intervenire. Inoltre, le diverse appartenenze tribali ed etniche sono un ulteriore elemento di instabilità quando, anche a causa delle ingerenze di forze esterne al Congo, esse non riescono più a trovare un equilibrio tra loro. Parte della popolazione congolese, infatti, si considera ruandese o anche burundese. Questo è un problema comune a tante zone dell’Africa, in cui le frontiere dividono tribù, etnie o gruppi omogenei per storia e tradizioni. La stessa cosa accade anche da noi in Ghana: c’è un villaggio lungo il confine con il Togo in cui una strada è la linea di frontiera. Gli abitanti del villaggio che si trovano da un lato della strada sono ghanesi, quelli dall’altra sono togolesi. Da noi è solo una situazione bizzarra, ma nella zona del Kivu, nella Repubblica Democratica del Congo, ha assunto toni drammatici. Anche perché chi vuol portare via le immense risorse naturali della zona, siano oro o diamanti, legno o coltan, ha tutto l’interesse che regni uno stato di caos permanente. Quando c’è anarchia, confusione, anche con un piccolo gruppo di armati puoi terrorizzare interi villaggi, aprire miniere illegali, portare via tutto. Solo un governo centrale forte potrà risolvere un po’ alla volta la situazione.


Parlando dei problemi dell’Africa subsahariana lei ha detto che alcuni uomini della classe politica ed economica africana sono inadeguati e, a volte, anche corrotti e complici di quelle lobby esterne che sfruttano il continente…
TURKSON: La corruzione c’è sempre stata in ogni parte del mondo, anche nelle nazioni più progredite. Ma in ogni società evoluta c’è chi vigila e la tiene a freno. Da noi, il potere centrale e i politici molte volte non riescono a svolgere questa funzione perché sono costretti a pensare solo all’immediato senza poter realizzare nulla che abbia un minimo di respiro e di prospettiva. Mancano sempre le risorse per attuare ciò che di nobile si era prospettato in campagna elettorale, e tantissimi governi, già strozzati dai debiti contratti in anni precedenti, pensano solo a come reperire in fretta capitali per far fronte alle impellenze più urgenti. Così si fanno scelte dettate solo dall’emergenza, senza pensare se quelle scelte che oggi portano qualche capitale, domani avranno conseguenze negative. Come da noi, in Ghana: prima le miniere d’oro penetravano in profondità nel sottosuolo, oggi, invece, si preferisce fare degli immensi buchi sulla superficie del terreno, spazzando via la foresta. Nessuno si preoccupa se un giorno avremo, invece della foresta e dei campi coltivati, solo dei grandi crateri vuoti, perché il governo ha bisogno urgente di risorse finanziarie e tutto ciò che porta soldi a breve è preferibile a progetti a lungo termine.
Per questo il Messaggio per la pace del Santo Padre di quest’anno, che parla di solidarietà con l’ambiente e di solidarietà tra le generazioni attuali e quelle future, è molto concreto e ha delle implicazioni politiche, sociali, economiche molto sentite in Africa.

Nel 2000, dieci anni fa, ci fu la grande campagna per l’azzeramento del debito estero dei Paesi in via di sviluppo. Con quale risultato?
TURKSON: Il debito non è il problema più grande: se annullano i nostri debiti ma non abbiamo i mezzi per produrre beni e merci, non riusciremo mai a creare capitali. Ci indebiteremo di nuovo.

Ma in questo momento i Paesi africani riescono a malapena a pagare gli interessi, senza riuscire mai a estinguere il proprio debito…
TURKSON: Sarebbe più importante che i governi dei Paesi africani riuscissero ad aumentare la capacità produttiva e industriale, perché se continuiamo solo a vendere materie prime o prodotti non lavorati non riusciremo a creare un’economia forte e saremo sempre strozzati dai debiti. Il Ghana, per esempio, è tra i maggiori coltivatori di cacao nel mondo: ma quante fabbriche di cioccolato ci sono in Ghana? Di pomodori ne coltiviamo in abbondanza, ma quante fabbriche di conserva ci sono? È soprattutto nelle industrie manifatturiere che si può creare ricchezza e sviluppo stabile, ma è proprio lì che l’Africa è molto debole. Solo se sapremo convertire la pelle di bue in scarpe usciremo da questo circolo vizioso di prestiti e interessi.

Benedetto XVI al Sinodo speciale per l’Africa ha definito il continente il polmone sano dell’umanità. Ma cosa può dare l’Africa al mondo?
TURKSON: Il Papa si riferiva ai valori cristiani, religiosi e umani dell’Africa e ha detto che noi dobbiamo fare attenzione a non far ammalare questo polmone dell’umanità. È un polmone sano quando sa guardare a quei valori dell’Evangelium vitae di cui ci aveva parlato Giovanni Paolo II; e la fonte delle malattie sono il secolarismo e il relativismo, da cui l’Africa, fino a questo momento almeno, sembra essere protetta, anche se viviamo in un mondo globalizzato e ci sono tante minacce che arrivano da noi tramite mezzi che, di per sé, sono molto positivi. Per esempio internet, attraverso il quale giunge di tutto ai nostri ragazzi e senza mediazione alcuna. La rete porta tante cose belle, ma è possibile anche accedere a quei siti che ti spiegano come costruire una bomba e fomentano odio.

Lei è molto legato al Ghana e all’Africa, tanto che, a quanto si dice, il Papa ha faticato un pochino a convincerla a venire a Roma. Cosa ha portato con sé della sua esperienza di pastore?
TURKSON: Credo di aver fatto il minimo che potevo fare a Cape Coast, con la grazia e con l’aiuto di Dio. Ero il successore di un arcivescovo molto famoso e benvoluto, John Kodwo Amissah, il primo arcivescovo nativo del Ghana e forse anche il primo arcivescovo africano di tutta l’Africa occidentale. Fu una figura di riferimento durante il processo politico che ci avrebbe portato all’indipendenza dall’Inghilterra. Ricordo che, al momento della mia ordinazione, mi chiesero se mi sentissi tagliato per succedere a una figura così carismatica e io risposi, riprendendo un vecchio detto, che volevo calzare solo le mie scarpe, perché quelle degli altri potevano essere o troppo grandi o anche troppo piccole. Tutto dipendeva da ciò che il Signore mi avrebbe consentito di fare. Comunque sono stato lì dal 1993 fino al 2010, e ho cercato di fare fondamentalmente due cose: investire molto nella formazione dei preti – abbiamo un buon seminario maggiore con insegnanti preparati e da cui escono molti sacerdoti – e cercare di coinvolgere i giovani, anche con iniziative legate alla scuola, per riavvicinarli alla Chiesa cattolica.

Suo padre era cattolico e sua madre era metodista. Come è nata la sua vocazione sacerdotale?
TURKSON: Mia madre era metodista ma si convertì al cattolicesimo quando sposò mio padre. La storia della mia vocazione è molto semplice. Forse ogni vocazione sacerdotale nasce per un motivo apparentemente banale, ma poi in seminario cresce e si chiarifica. La vocazione è un po’ come lo starter delle automobili, la scintilla che avvia il motore, e la storia della mia vocazione è qualcosa di simile. Il motivo originale per cui sono entrato in seminario fu la figura di un prete olandese che ogni due mesi veniva a celebrare la messa nella piccola città dove sono cresciuto. Papà era falegname e la nostra era una piccola città vicino a una miniera di manganese. Non c’era un parroco stabile e ricordo questo sacerdote che veniva ogni tanto, dormiva in chiesa, e al mattino era sempre lì pronto ad aspettare l’arrivo della gente per la messa. Questo mi colpì e, in seguito, quando raggiunsi l’età per andare alla scuola secondaria, feci richiesta di entrare nel seminario minore. Lo dico sempre ai seminaristi, la storia della nostra vocazione comincia con qualcosa di molto piccolo, ma è il seminario, come ho accennato, il luogo dove la vocazione cresce e si chiarifica.

Il fatto che si trattasse di un sacerdote olandese fa anche pensare che oggi l’Africa, inviando tanti sacerdoti in Europa e negli Stati Uniti, stia restituendo ciò che ha ricevuto in passato…
TURKSON: C’è un proverbio da noi che dice: «Se uno si prende cura di te per farti crescere i denti, spetta a te prenderti cura di lui quando li perderà». L’Europa ci ha portato la fede cristiana e noi l’abbiamo accolta. E più questa fede è viva, più siamo grati a chi l’ha portata. Per questa gratitudine, se adesso in Europa o negli Usa si rischia di chiudere una chiesa a causa della mancanza di sacerdoti, noi siamo pronti ad aiutare a tenerla aperta, sperando sempre che con l’aiuto del Signore le cose cambieranno. In Ghana non c’è più alcun ordine missionario, a parte alcuni francescani autoctoni e due o tre gesuiti americani che insegnano nel nostro seminario: però ci sono tanti sacerdoti ghanesi nel mondo.


L’enciclica sociale del Papa Caritas in veritate, sulle cui linee di indirizzo sta lavorando il Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, è stata pubblicata in un periodo storico particolare, in cui la crisi economica mondiale ha messo in luce gli eccessi della finanza senza regole e le ingiustizie che ne derivano. A quasi un anno dalla pubblicazione, l’enciclica è oggi uno strumento di riflessione utile per uscire dalla crisi?
TURKSON: Come è noto la Caritas in veritate era stata preparata in vista del quarantesimo anniversario della Populorum progressio e la sua uscita fu rinviata proprio perché si potesse rielaborarla alla luce della crisi che aveva investito i mercati finanziari. Se sia utile o meno, sta al giudizio dei lettori, ma l’intento non era quello di dare una ricetta economica nuova, quanto ribadire il bisogno di introdurre l’uomo come criterio di base dell’economia, della finanza ma anche del progresso tecnologico. Uno sviluppo che non aiuta e che non assiste lo sviluppo della persona, non può essere considerato un vero sviluppo. Quindi è stato un appello a umanizzare l’economia e poi, dato che il mondo è sempre più globalizzato e che nessun Paese può affrontare la situazione da solo, il Santo Padre ha chiesto se non sia tempo di sviluppare un organismo mondiale che possa guidare la globalizzazione. So che alcuni negli Stati Uniti hanno criticato il Papa accusandolo di voler essere la guida spirituale di un governo mondiale, ma è una sciocchezza. Basterebbe leggere cosa accade nel mondo in questi giorni: nessuno è abbastanza forte per poter affrontare questi fenomeni e queste crisi da solo.

da "30 giorni", aprile 2010