La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

17 ottobre 2012

Camminare con la Chiesa 12: Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2012

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
PER LA GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2012

“Chiamati a far risplendere la Parola di verità”
(Lett. ap. Porta fidei, 6)


Cari fratelli e sorelle!

La celebrazione della Giornata Missionaria Mondiale si carica quest’anno di un significato tutto particolare. La ricorrenza del 50° anniversario dell'inizio del Concilio Vaticano II, l’apertura dell’Anno della fede e il Sinodo dei Vescovi sul tema della nuova evangelizzazione concorrono a riaffermare la volontà della Chiesa di impegnarsi con maggiore coraggio e ardore nella missio ad gentes perché il Vangelo giunga fino agli estremi confini della terra.

Il Concilio Ecumenico Vaticano II, con la partecipazione dei Vescovi cattolici provenienti da ogni angolo della terra, è stato un segno luminoso dell’universalità della Chiesa, accogliendo, per la prima volta, un così alto numero di Padri Conciliari provenienti dall’Asia, dall’Africa, dall’America Latina e dall’Oceania. Vescovi missionari e Vescovi autoctoni, Pastori di comunità sparse fra popolazioni non cristiane, che portavano nell’Assise conciliare l’immagine di una Chiesa presente in tutti i Continenti e che si facevano interpreti delle complesse realtà dell’allora cosiddetto “Terzo Mondo”. Ricchi dell’esperienza derivata dall’essere Pastori di Chiese giovani ed in via di formazione, animati dalla passione per la diffusione del Regno di Dio, essi hanno contribuito in maniera rilevante a riaffermare la necessità e l’urgenza dell’evangelizzazione ad gentes, e quindi a portare al centro dell’ecclesiologia la natura missionaria della Chiesa.


Ecclesiologia missionaria

Questa visione oggi non è venuta meno, anzi, ha conosciuto una feconda riflessione teologica e pastorale e, al tempo stesso, si ripropone con rinnovata urgenza perché si è dilatato il numero di coloro che non conoscono ancora Cristo: “Gli uomini che attendono Cristo sono ancora in numero immenso”, affermava il beato Giovanni Paolo II nell’Enciclica Redemptoris missio sulla permanente validità del mandato missionario, e aggiungeva: “Non possiamo restarcene tranquilli, pensando ai milioni di nostri fratelli e sorelle, anch’essi redenti dal sangue di Cristo, che vivono ignari dell’amore di Dio” (n. 86). Anch’io, nell’indire l’Anno della fede, ho scritto che Cristo “oggi come allora, ci invia per le strade del mondo per proclamare il suo Vangelo a tutti i popoli della terra” (Lett. ap. Porta fidei, 7); proclamazione che, come si esprimeva anche il Servo di Dio Paolo VI nell’Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, “non è per la Chiesa un contributo facoltativo: è il dovere che le incombe per mandato del Signore Gesù, affinché gli uomini possano credere ed essere salvati. Sì, questo messaggio è necessario. È unico. È insostituibile” (n. 5). Abbiamo bisogno quindi di riprendere lo stesso slancio apostolico delle prime comunità cristiane, che, piccole e indifese, furono capaci, con l’annuncio e la testimonianza, di diffondere il Vangelo in tutto il mondo allora conosciuto.

Non meraviglia quindi che il Concilio Vaticano II e il successivo Magistero della Chiesa insistano in modo speciale sul mandato missionario che Cristo ha affidato ai suoi discepoli e che deve essere impegno dell’intero Popolo di Dio, Vescovi, sacerdoti, diaconi, religiosi, religiose, laici. La cura di annunziare il Vangelo in ogni parte della terra spetta primariamente ai Vescovi, diretti responsabili dell’evangelizzazione nel mondo, sia come membri del collegio episcopale, sia come Pastori delle Chiese particolari. Essi, infatti, “sono stati consacrati non soltanto per una diocesi, ma per la salvezza di tutto il mondo” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 63), “messaggeri di fede che portano nuovi discepoli a Cristo” (Ad gentes, 20) e rendono “visibile lo spirito e l’ardore missionario del Popolo di Dio, sicché la diocesi tutta si fa missionaria” (ibid., 38).


La priorità dell’evangelizzare

Il mandato di predicare il Vangelo non si esaurisce perciò, per un Pastore, nell’attenzione verso la porzione del Popolo di Dio affidata alle sue cure pastorali, né nell’invio di qualche sacerdote, laico o laica fidei donum. Esso deve coinvolgere tutta l’attività della Chiesa particolare, tutti i suoi settori, in breve, tutto il suo essere e il suo operare. Il Concilio Vaticano II lo ha indicato con chiarezza e il Magistero successivo l’ha ribadito con forza. Ciò richiede di adeguare costantemente stili di vita, piani pastorali e organizzazione diocesana a questa dimensione fondamentale dell’essere Chiesa, specialmente nel nostro mondo in continuo cambiamento. E questo vale anche per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, come pure per i Movimenti ecclesiali: tutte le componenti del grande mosaico della Chiesa devono sentirsi fortemente interpellate dal mandato del Signore di predicare il Vangelo, affinché Cristo sia annunciato ovunque. Noi Pastori, i religiosi, le religiose e tutti i fedeli in Cristo, dobbiamo metterci sulle orme dell’apostolo Paolo, il quale, “prigioniero di Cristo per i pagani” (Ef 3,1), ha lavorato, sofferto e lottato per far giungere il Vangelo in mezzo ai pagani (cfr Col 1,24-29), senza risparmiare energie, tempo e mezzi per far conoscere il Messaggio di Cristo.

Anche oggi la missione ad gentes deve essere il costante orizzonte e il paradigma di ogni attività ecclesiale, perché l’identità stessa della Chiesa è costituita dalla fede nel Mistero di Dio, che si è rivelato in Cristo per portarci la salvezza, e dalla missione di testimoniarlo e annunciarlo al mondo, fino al suo ritorno. Come san Paolo, dobbiamo essere attenti verso i lontani, quelli che non conoscono ancora Cristo e non hanno sperimentato la paternità di Dio, nella consapevolezza che “la cooperazione missionaria si deve allargare oggi a forme nuove includendo non solo l’aiuto economico, ma anche la partecipazione diretta all’evangelizzazione” (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Redemptoris missio, 82). La celebrazione dell’Anno della fede e del Sinodo dei Vescovi sulla nuova evangelizzazione saranno occasioni propizie per un rilancio della cooperazione missionaria, soprattutto in questa seconda dimensione.


Fede e annuncio

L’ansia di annunciare Cristo ci spinge anche a leggere la storia per scorgervi i problemi, le aspirazioni e le speranze dell’umanità, che Cristo deve sanare, purificare e riempire della sua presenza. Il suo Messaggio, infatti, è sempre attuale, si cala nel cuore stesso della storia ed è capace di dare risposta alle inquietudini più profonde di ogni uomo. Per questo la Chiesa, in tutte le sue componenti, deve essere consapevole che “gli orizzonti immensi della missione ecclesiale, la complessità della situazione presente chiedono oggi modalità rinnovate per poter comunicare efficacemente la Parola di Dio” (Benedetto XVI, Esort. ap. postsin. Verbum Domini, 97). Questo esige, anzitutto, una rinnovata adesione di fede personale e comunitaria al Vangelo di Gesù Cristo, “in un momento di profondo cambiamento come quello che l’umanità sta vivendo” (Lett. ap. Porta fidei, 8).

Uno degli ostacoli allo slancio dell’evangelizzazione, infatti, è la crisi di fede, non solo del mondo occidentale, ma di gran parte dell’umanità, che pure ha fame e sete di Dio e deve essere invitata e condotta al pane di vita e all’acqua viva, come la Samaritana che si reca al pozzo di Giacobbe e dialoga con Cristo. Come racconta l’Evangelista Giovanni, la vicenda di questa donna è particolarmente significativa (cfr Gv 4,1-30): incontra Gesù, che le chiede da bere, ma poi le parla di un’acqua nuova, capace di spegnere la sete per sempre. La donna all’inizio non capisce, rimane a livello materiale, ma lentamente è condotta dal Signore a compiere un cammino di fede che la porta a riconoscerlo come il Messia. E a questo proposito sant’Agostino afferma: “dopo aver accolto nel cuore Cristo Signore, che altro avrebbe potuto fare [questa donna] se non abbandonare l’anfora e correre ad annunziare la buona novella?” (In Ioannis Ev., 15, 30). L’incontro con Cristo come Persona viva che colma la sete del cuore non può che portare al desiderio di condividere con altri la gioia di questa presenza e di farlo conoscere perché tutti la possano sperimentare. Occorre rinnovare l’entusiasmo di comunicare la fede per promuovere una nuova evangelizzazione delle comunità e dei Paesi di antica tradizione cristiana, che stanno perdendo il riferimento a Dio, in modo da riscoprire la gioia del credere. La preoccupazione di evangelizzare non deve mai rimanere ai margini dell’attività ecclesiale e della vita personale del cristiano, ma caratterizzarla fortemente, nella consapevolezza di essere destinatari e, al tempo stesso, missionari del Vangelo. Il punto centrale dell’annuncio rimane sempre lo stesso: il Kerigma del Cristo morto e risorto per la salvezza del mondo, il Kerigma dell’amore di Dio assoluto e totale per ogni uomo ed ogni donna, culminato nell’invio del Figlio eterno e unigenito, il Signore Gesù, il quale non disdegnò di assumere la povertà della nostra natura umana, amandola e riscattandola, per mezzo dell’offerta di sé sulla croce, dal peccato e dalla morte.

La fede in Dio, in questo disegno di amore realizzato in Cristo, è anzitutto un dono e un mistero da accogliere nel cuore e nella vita e di cui ringraziare sempre il Signore. Ma la fede è un dono che ci è dato perché sia condiviso; è un talento ricevuto perché porti frutto; è una luce che non deve rimanere nascosta, ma illuminare tutta la casa. E’ il dono più importante che ci è stato fatto nella nostra esistenza e che non possiamo tenere per noi stessi.


L’annuncio si fa carità

“Guai a me se non annuncio il Vangelo!”, diceva l’apostolo Paolo (1 Cor 9,16). Questa parola risuona con forza per ogni cristiano e per ogni comunità cristiana in tutti i Continenti. Anche per le Chiese nei territori di missione, Chiese per lo più giovani, spesso di recente fondazione, la missionarietà è diventata una dimensione connaturale, anche se esse stesse hanno ancora bisogno di missionari. Tanti sacerdoti, religiosi e religiose, da ogni parte del mondo, numerosi laici e addirittura intere famiglie lasciano i propri Paesi, le proprie comunità locali e si recano presso altre Chiese per testimoniare e annunciare il Nome di Cristo, nel quale l’umanità trova la salvezza. Si tratta di un’espressione di profonda comunione, condivisione e carità tra le Chiese, perché ogni uomo possa ascoltare o riascoltare l’annuncio che risana e accostarsi ai Sacramenti, fonte della vera vita.

Insieme a questo alto segno della fede che si trasforma in carità, ricordo e ringrazio le Pontificie Opere Missionarie, strumento per la cooperazione alla missione universale della Chiesa nel mondo. Attraverso la loro azione l’annuncio del Vangelo si fa anche intervento in aiuto del prossimo, giustizia verso i più poveri, possibilità di istruzione nei più sperduti villaggi, assistenza medica in luoghi remoti, emancipazione dalla miseria, riabilitazione di chi è emarginato, sostegno allo sviluppo dei popoli, superamento delle divisioni etniche, rispetto per la vita in ogni sua fase.

Cari fratelli e sorelle, invoco sull’opera di evangelizzazione ad gentes, ed in particolare sui suoi operai, l’effusione dello Spirito Santo, perché la Grazia di Dio la faccia camminare più decisamente nella storia del mondo. Con il beato John Henry Newman vorrei pregare: “Accompagna, o Signore, i tuoi missionari nelle terre da evangelizzare, metti le parole giuste sulle loro labbra, rendi fruttuosa la loro fatica”. La Vergine Maria, Madre della Chiesa e Stella dell’evangelizzazione, accompagni tutti i missionari del Vangelo.


Dal Vaticano, 6 gennaio 2012, Solennità dell’Epifania del Signore


BENEDICTUS PP. XVI

4 ottobre 2012

Dicono di noi 10: Ho visto cose di... un altro mondo!


Tra le esperienze che hanno riempito la mia estate, il viaggio in Africa, per conoscere la missione in cui opera padre Ivo Cavraro, è stato certamente il più significativo. Questa avventura si è arricchita anche della presenza di don Marco Camiletti- che tra qualche mese affiancherà padre Ivo come missionario fidei donum - e di altri giovani accomunati dallo stesso desiderio di incontrare il volto dell’Africa.

Il presente non vuole essere tanto un articolo di cronaca, quanto piuttosto una testimonianza di quello che i miei occhi hanno potuto vedere. E i miei occhi, in terra di Bigene- lì dove 5 anni fa il nostro vescovo ha deciso di aprire una missione in collaborazione con le suore Oblate del S. Cuore che già operavano da prima- hanno visto cose dell’altro mondo!

Hanno visto un popolo a cui manca il necessario per poter vivere dignitosamente, secondo quei canoni che per noi, spesso abituati a vivere nel troppo, sono scontati ma che, di fatto, risultano essere essenziali. Hanno visto un popolo in cui il futuro sembra avere soltanto i tratti di un domani che si contende con il presente il duello della sopravvivenza. Hanno visto donne gravide o lattanti fare la fila presso un centro nutrizionale, non per monitorare lo sviluppo del feto nel proprio grembo o per acquistare prodotti che assicurino una crescita migliore al nascituro, ma per fare l’elemosina di quei beni di prima necessità che permettano a entrambi di poter superare la prova di una bilancia tristemente abituata a pesare bimbi e donne quasi sempre al di sotto del peso ideale. Hanno visto bimbi, disabili o gemelli, essere abbandonati prima che dai propri genitori, da una cultura disumana che, assieme agli ammalati, li relega ai margini della società perché ritenuti essere posseduti da spiriti cattivi. Hanno visto lacrime rigare volti umani, quasi per manifestare quella impotenza nei confronti di una vita così piena di amarezze e stanchezze.

Ma questi occhi hanno potuto vedere anche cose di un altro mondo! Di un mondo segnato dalla fede, spinto verso un futuro carico di speranza, trasformato dalla carità. Di un mondo in cui puoi constatare come il Vangelo diventi il lievito per far fermentare quell’umanità che abita nelle profondità il cuore di ogni uomo e donna. Di un mondo in cui, conosciuto Dio, lo si fa entrare in tutte gli eventi che costellano la quotidianità di una persona e del vivere insieme. Di un mondo in cui la terra vibra sotto i piedi, perché la vita la si prende al ritmo di una danza dalle movenze energiche e gioiose. Di un mondo in cui i sorrisi dei bambini e le loro mani alzate hanno la capacità di farti stupire continuamente della bellezza della vita e che ti fanno accorgere che spesso basta davvero poco per rendere felice chi ti sta accanto. Di un mondo in cui i gesti di attenzione degli adulti e degli anziani si pongono a custodia del tempo che scorre e del bene che ti appartiene. Questi occhi hanno visto come la persona umana non è un’isola autosufficiente ma si dà, nella sua pienezza, solo all’interno di una rete relazionale: è il senso della vita organizzata in villaggi (le tabanke), era il senso delle polis greche, sarebbe dovuto essere stato il senso delle nostre metropoli! Questi occhi hanno visto la solidarietà umana spalancare le proprie braccia, anche in situazioni di indigenza estrema, e donare tutto il possibile a chi gli è rimasta una sola ricchezza: la vita. Questi occhi hanno potuto vedere che l’ospitalità fraterna e senza pregiudizi è un perno della società civile e, forse, per la prima volta, questi occhi si sono dovuti mettere dalla parte di chi, dopo mille peripezie, approda a Nord del globo terrestre e bussa ai portoni delle Nazioni del “Primo mondo” chiedendo accoglienza non tanto per una vita migliore ma per una vita che abbia soltanto il profumo della dignità.

Tornando a casa, questi occhi si sono accorti che un po’ d’Africa c’è anche qui perché la persona umana, dovunque si trovi e a qualunque stato sociale appartenga, di qualunque colore sia la sua pelle e in qualunque modo chiami Dio, sperimenta comunque la propria contingenza. Questa verità ha lasciato in me la grande consapevolezza di sapermi fragile e bisognoso e mi ha dato di imparare a guardare gli altri con gli occhi della misericordia, quegli stessi occhi che duemila anni fa si sono posati sugli uomini e le donne di Palestina e che hanno detto loro che siamo stati fatti per cose più grandi: per amare ed essere amati. E questa verità mi è stata confermata dalla vita di chi, mettendosi alla sequela del Rabbi di Galilea, sta imparando che essa vale nella misura in cui diventa un dono.

Michele Caputo, seminarista V anno, Foggia.

da "Voce di popolo", settimanale diocesano di Foggia-Bovino, 21/09/2012