La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati

La missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati
Il territorio della missione di Bigene: 58 villaggi su 300 km quadrati, a nord della Guinea-Bissau e confinante con il Senegal.

28 ottobre 2013

Storie di Bigene 9: "La preghiera, i musulmani e la capra"

Bigene, 15 ottobre 2013
Domani a Bigene i musulmani celebrano la festa del “tabaskin”: la festa che ricorda il sacrificio ordinato da Dio ad Abramo per metterlo alla prova. Abramo doveva immolare il figlio Isacco, ma all’ultimo momento un angelo del Signore lo ha fermato. L’episodio, che è raccontato nella Bibbia, è importantissimo per i nostri fratelli musulmani, che in questa festa vogliono dimostrare la loro fede e la loro totale sottomissione a Dio. E dopo una solenne preghiera che faranno tutti assieme, dentro e fuori della moschea, mangeranno carne dei loro animali, preparati per l’occasione. Al poveretto del capovillaggio di Indaià gli è morta la capra da qualche giorno. Una festa senza la capra da mangiare non è festa: anche il fedele Abramo si è mangiato la capra dopo la dimostrazione della sua fedeltà a Dio! Allora ha pensato bene di chiedere soccorso al capovillaggio di Bigene, che tutti sanno essere mio amico, e che questa mattina è venuto a raccontarmi il guaio che è accaduto al suo amico di Indaià. Va bene, aiutiamo i musulmani a mangiare la capra! Ho fatto il mio dovere di solidarietà, e per la contentezza il capovillaggio mi ha invitato alla loro preghiera dentro la moschea. Mi ha detto che conserverà un angolo tutto per me. Bella questa! Dir di no, come facevo? Gli ho detto di sì, e quello mi ha sorriso con tanta soddisfazione. E adesso che gli ho detto di sì??? Io non sono mai entrato in una moschea durante la loro preghiera. Per tanti motivi, soprattutto per rispetto alle persone che pregano mentre io non capisco una parola di quello che dicono. Sono felice di fare questa nuova esperienza, che permetterà una ulteriore crescita nei nostri rapporti di fraternità e amicizia. Ma non mi è ancora chiaro come mi devo comportare, cosa devo o non devo fare… loro pregheranno secondo le loro modalità di fede musulmana e io pregherò nel mio cuore. Così dovrebbe andar bene. Però, finita la preghiera, non chiedetemi anche di andare a mangiare la "mia" capra: non me la sento proprio…. Domani vi racconto: vediamo cosa mi succede!

Bigene, 16 ottobre 2013
Eccomi tutto pronto per andare a vedere e ascoltare la preghiera dei miei fratelli musulmani di Bigene. Arrivo davanti alla moschea per primo, alle 9.30. Mi aspettavo movimento di persone e invece c’è una calma incredibile, quasi silenzio. Qualcuno si stupisce della mia presenza davanti alla moschea, ancora chiusa, e mi viene a chiedere se ho bisogno di qualcosa. Alla mia spiegazione che il capovillaggio mi ha invitato alla preghiera scatta come una molla: tre giovani vengono chiamati, da luoghi differenti, per essere mandati a casa di Alfonsene. Questo è il suo nome. Dopo un minuto arrivano due sedie: una per me e una per chi mi deve fare compagnia. Così ci sediamo sotto l’albero accanto alla moschea, e in pochi minuti passano a sedervi varie persone che vengono a salutarmi e ringraziano dei miei auguri per la loro festa. Ho il tempo per vedere vari ragazzi che stanno pulendo un ampio spazio sotto il baobab, dall’altra parte della moschea: intuisco che deve succedere qualcosa in quello spazio.
Dopo alcuni minuti arriva di corsa un signore che non conosco, vestito in modo non usuale, con un turbante di stoffa color oro in testa, un copri corpo nero e le scarpe bianche. Sembra quasi una bandiera! Viene diretto verso di me e viene a scusarsi perché non ha ancora fatto il richiamo alla gente che deve venire a pregare. L’ho scambiato per il nostro sacrestano…. E invece è lui che guiderà la preghiera! Non oso dire che è l’imam di Bigene, mi sembra una parola grossa per questa simpatica persona, che poi mi verrà presentata come il “padre” dei musulmani. Sì, avete capito bene: i “miei” musulmani di Bigene copiano i termini della chiesa cattolica, e chi guida la loro preghiera è chiamato “padre”. Come me. Mi viene da sorridere… troppo belli! Ma aspetta! Mi rendo conto che cominciano ad arrivare di corsa altri fedeli della moschea e qualcuno chiede di fare presto perché il “padre della chiesa” sta già aspettando. Insomma: come se fosse la mia presenza a richiamare i musulmani alla preghiera.
Mentre il “padre musulmano” richiama i suoi fedeli alla preghiera con l’altoparlante e le sue melodie incomprensibili per me, sotto il baobab si cominciano a stendere delle stuoie di plastica e dei tappeti. La preghiera non si svolge dentro la moschea, un edificio nuovo, finanziato dalla comunità musulmana dello Yemen. Lo spazio è insufficiente per raccogliere tutte le persone che arrivano con gli abiti della festa. Molti uomini adulti e anziani, vari giovani, tanti bambini e poche donne. Immagino che le donne siano poche perché impegnate nei preparativi per le famose capre!
In pochi minuti è tutto pronto, e Alfonsene manda un suo aiutante a dirmi dove mi posso accomodare, vicino al luogo della preghiera e all’ombra di una piccola casa.
Cari amici: inizia uno spettacolo di umanità. Saranno in trecento persone che immediatamente si mettono in silenzio quando Alfonsene, al centro e davanti a tutti, ricorda le regole che i musulmani devono seguire per uccidere gli animali che oggi saranno mangiati. Alfonsene è un uomo di età avanzata, magrissimo, con un filo di voce. Ma tutti lo ascoltano con attenzione. Al termine di questi avvisi del capovillaggio inizia la preghiera guidata dalla loro guida, il cosiddetto padre dei musulmani. La preghiera si svolge in lingua araba, intercalata da gesti precisi del corpo che tutta l’assemblea ripete. Sono attratto dalla partecipazione di questa preghiera: vedo uomini adulti e anziani seguire con grossa partecipazione le varie formule pronunciate e i vari movimenti del corpo. Quando si inchinano tutti, con il capo fino a terra, mi rimane un senso di grande coralità e comunione che non sempre, noi cristiani, abbiamo nelle nostre assemblee liturgiche. Rimango ammirato nel guardare gli anziani che pregano. Non riesco a vedere bene le donne, sono lontane da me. Ma questi uomini che pregano davanti a me mi lasciano un grande senso di pace.
Adesso so di toccare un argomento che i miei lettori potranno sentire in modo diverso. Io penso una cosa. Anzi due. Nessuno si deve permettere di giudicare una persona che prega, dubitando della verità di quella preghiera. Solo Dio conosce il cuore dell’uomo e la verità che è presente nelle sue intenzioni e i suoi gesti. Questo vale anche per noi cristiani, quando qualcuno si permette di giudicare le persone che vanno in chiesa e poi afferma che nella vita non sono coerenti. A costoro rispondo chiaramente: “E chi sei, tu, per giudicare il cuore e l’animo di chi va in chiesa? Credi proprio di essere un altro padreterno che leggi i nostri cuori???”. Allo stesso modo, mi sento di dire che non possiamo dubitare sulla lealtà di cuore di queste persone che pregano, anche se di una religione differente e con modalità differenti.
E la seconda cosa che mi sento di affermare con decisione: queste persone pregano! Per dirla chiara chiara: preferisco una persona che prega alla persona che non prega. Troppo facile dire che si prega nel cuore e che Dio conosce tutto. Ma se non preghi, non preghi!
Penso a tutto questo e cerco di guardare ad uno ad uno i volti di chi sta pregando, degli uomini della prima fila. Ne riconosco molti di loro. E Mi viene un altro pensiero forte e chiaro: questi uomini musulmani sono gli uomini di Bigene che, oltre i cristiani, mi salutano tante volte con attenzione e rispetto. A differenza di altri, non musulmani, che a volte non mi considerano proprio. Non dico questo perché voglio essere riconosciuto, ma per evidenziare che questi uomini musulmani hanno, verso di me, che sono sempre uno straniero per loro e il responsabile di una chiesa che comunica una fede diversa, hanno un atteggiamento di attenzione e di rispetto che altri non hanno. Guardo i loro volti e ricordo i tanti sorrisi ricevuti, i saluti, gli auguri per la salute e la mia famiglia, e tante altre cose che fanno parte di una bella convivenza di pace.
Mi rendo conto che questi musulmani sono veramente delle belle persone. E li ammiro.
Non fraintendetemi, per favore. La mia professione di fede non si sposta di una virgola. Ma sento il dovere di affermare che tanti giudizi, che a volte colgo anche in tanti ambienti italiani, sono degli esatti pre-giudizi. I miei musulmani di Bigene sono brave persone, e mi vogliono bene. Sarà che l’aria di Bigene ci rende tutti più buoni e belli???
La preghiera non dura molto tempo. Mi aspettavo di contemplare questo spettacolo di fede a lungo. Invece è breve. Quindici minuti, non di più.
E poi succede quello che non mi aspettavo, e che mi ha letteralmente toccato il cuore.
Terminato il loro rito il padre dei musulmani viene verso di me, accerchiato da tutti gli anziani. Viene a ringraziarmi, a manifestare tutta la sua gioia nel vedere la mia presenza alla loro festa, affermando che la mia presenza è un miracolo. Sì, usa proprio questa parola. È la prima volta che un padre della chiesa viene ad ascoltare la loro preghiera e ad onorare la loro festa. Tutti gli anziani mi guardano con una gioia e una riconoscenza commovente, da sentirmi quasi in imbarazzo. Non avevo fatto niente per loro. Solo ero lì. Anche don Marco era accanto a me. Non abbiamo fatto niente. Abbiamo guardato e ascoltato, senza capire. Ma ci siamo stati.
Penso che basta così poco per diventare persone che sanno convivere in fraternità. Ne abbiamo bisogno. Alla guida spirituale rispondo che dobbiamo pregare, e chi non prega non è un uomo completo. Apprezzano molto questa immagine che lascio alle loro parole, e chiedo di continuare a pregare per la Guinea-Bissau, che va sempre peggio. Continuano a manifestare le loro approvazioni alle mie parole. Ma non voglio approfittare: altrimenti va a finire che sono io a fare la predica a loro! Che volete: è la tentazione dei preti!
Ma non è ancora finita: termino le mie parole e si mettono a pregare attorno a me. Fanno come noi cristiani, con le mani aperte verso l’alto. Non capisco se pregano Dio, come immagino, o se pregano Dio per me. Capisco che vogliono concludere il loro cordialissimo saluto con una ulteriore preghiera. Ditemi una cosa: persone così, non sono un dono di Dio anche se sono di un’altra religione?
Vi è anche una ultima aggiunta finale che mi crea tanti pensieri buoni. Chiedo ad Alfonsene se posso entrare nella moschea per fare una visita. E sapete che cosa mi risponde? Non ci crederete, ma mi dice esattamente: “Tu puoi tutto, tu puoi entrare dappertutto, perché tu sei uno di noi”.
Se qualcuno mi venisse a raccontare queste cose, farei fatica a credere che siano state pronunciate queste parole. Ma sono testimone diretto di quanto accaduto. E sono molto contento. Siatelo anche voi.
Aspetta aspetta: e la capra???
E qui ti voglio! Volete sapere se poi sono andato a mangiare la capra?
No, non ci sono andato. Nessuno mi ha invitato e non ci sono andato. Grazie a Dio!
In compenso, adesso che termino queste righe, corro dalle suore che mi aspettano per una gustosissima pizza: è una bella festa a Bigene! Grazie Signore!

15 ottobre 2013

storie di Bigene 8: "I Mandjako, conoscere Dio e il pozzo".

Volentieri condivido l’incontro che abbiamo svolto questa mattina al villaggio di Samudje. Ci siamo recati con don Marco, suor Merione, suor Narliene ed io. Hanno partecipato anche alcuni amici del villaggio vicino di Facam, dove i cristiani sono ben presenti e vivono con impegno la loro fede.
Una rappresentanza del villaggio era venuta nei giorni scorsi a Bigene, per incontrarsi con me e chiedere l’inizio della evangelizzazione. Questo è un villaggio molto grande, di 900 abitanti, a maggioranza musulmana. Hanno costruito lo scorso anno una nuova moschea con un finanziamento proveniente dai paesi arabi. Io sono convinto che proprio la costruzione della moschea sia stata occasione opportuna per la gente del villaggio che non è musulmana. Immagino che si siano chiesti: “E noi, quale percorso vogliamo fare se non siamo musulmani?”. Prendo questa domanda dalla condivisione che uno di loro ha offerto a tutti noi. Forse questa loro domanda parte anche da una convivenza con i musulmani che non è difficile, ma che distingue i due gruppi. Gli abitanti dell’etnia Balanta-Mané sono musulmani; quelli che appartengono alla etnia Mandjako si definiscono cristiani. Ma è una definizione che danno di se stessi solo per non confondersi con la religione dei musulmani. Ci sono due scuole: la scuola comunitaria comprende bambini Mandjako e qualche bambino Balanta-Mané, la scuola coranica ha solo bambini Balanta-Mané. Le due scuole sono molto diverse; quella comunitaria educa i bambini alle materie richieste dallo stato, come in Italia: lingua portoghese, matematica, scienze e altro. La scuola coranica è ben diversa.
Anche territorialmente le due etnie si distinguono: una parte del villaggio è per i Balanta-Mané, l’altra parte è per i Mandjako. Ma a parte queste distinzioni nette ed evidenti, quando siamo arrivati abbiamo incrociato un anziano musulmano con il quale non ho potuto parlare, ma che ha affermato la sua contentezza se i Mndjako iniziano la evangelizzazione della Chiesa Cattolica. Anche durante l’incontro ho potuto verificare che non ci sono difficoltà da parte dei musulmani se noi iniziamo questo nuovo percorso. Un percorso proprio nuovo, perché questi fratelli non hanno mai chiesto a nessuno di essere aiutati a “conoscere Dio”. E nemmeno nessuno è mai andato da loro ad offrire questo aiuto, come è accaduto in altri villaggi per mano della “Chiesa Nuova Apostolica”: una chiesa nata in ambiente protestante del Brasile che ha tentato di fare proseliti attorno a Bigene, con risultati scarsi.
Mi permetto di parlare di proselitismo per un fatto a me molto chiaro: non sono io che vado nel villaggio a proporre la mia fede. È il villaggio che viene da me a chiedermi se vado da loro. E quando vado, come oggi, vado ad ascoltare le loro richieste e a dimostrare la mia disponibilità alla loro domanda di conoscere Dio. Altri vanno per i villaggi con sacchi di riso per tutti, o con soldi per costruire luoghi di culto. Vi è una differenza evidente nel modo di proporre la nostra fede cattolica. Anche noi costruiamo chiese nei villaggi, dopo che per anni gli abitanti di quei villaggi ci chiedono la casa per pregare. Anche noi aiutiamo i villaggi in tanti modi, come le scuole, i pozzi, le strade… ma non è per questo che chiediamo di evangelizzare, e quello che costruiamo è per tutti, senza alcuna distinzione di religione.
L’incontro è stato buono. Non vi era molta gente: è tempo di lavoro intenso nelle risaie e in altre coltivazioni agricole. Ma ci siamo conosciuti, ci siamo ascoltati, e mi è sembrato che l’uomo-grande dei Mandjako, il loro responsabile, sia stato molto preciso nella richiesta: “Noi non possiamo continuare a non conoscere Dio, e vogliamo conoscere Dio con la catechesi della Chiesa di Bigene!”. Poi abbiamo scoperto che ci sono tra loro due donne già battezzate, provenienti dal vicino Senegal: non gli sembrava vero che noi fossimo arrivati nel loro villaggio. La loro fede si è allentata perché non hanno più avuto contatto con la Parola di Dio da molti anni, ma non hanno perso la speranza di continuare a vivere da brave cristiane. La loro gioia sarà un esempio per tutti gli altri, ne sono convinto.
Dopo questo primo incontro sarà necessario parlarne con gli altri catechisti, e nella comunità cristiana: non sono io da solo che decido di iniziare una nuova evangelizzazione. Ci vorrà del tempo per delle altre verifiche necessarie, da compiere nel villaggio. Dovrò incontrare il capovillaggio e gli altri uomini anziani per presentarmi, e sentire la loro parola.
Dopo due ore di buon dialogo, ci siamo scambiati i numeri di telefono e ci siamo dati appuntamento per il sabato 9 novembre. Per quel giorno vorrei recarmi in quel villaggio per un incontro più ampio, con più persone del villaggio stesso, e con più amici di Facam, e con gli ospiti di Foggia che saranno a Bigene per quella data. Ospiti importanti! Vi dirò…
Una cosa, però, la vorrei dire subito: ho intuito che i Mandjako non hanno un pozzo vicino alle loro case. I pozzi ci sono nel villaggio, ma sono tutti dall’altra parte… Mi sa tanto che il prossimo pozzo che potrò costruire sarà proprio qui!
Aspetta. Ho ancora un’ultima cosa da dirti: questi diventeranno bravi cristiani. Me lo sento!
Bigene, 5 ottobre 2013

11 ottobre 2013

Camminare con la Chiesa 16: Messaggio per la Giornata Missionaria Mondiale 2013

MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
PER LA GIORNATA MISSIONARIA MONDIALE 2013

Cari fratelli e sorelle,

quest’anno celebriamo la Giornata Missionaria Mondiale mentre si sta concludendo l'Anno della fede, occasione importante per rafforzare la nostra amicizia con il Signore e il nostro cammino come Chiesa che annuncia con coraggio il Vangelo. In questa prospettiva, vorrei proporre alcune riflessioni.

1. La fede è dono prezioso di Dio, il quale apre la nostra mente perché lo possiamo conoscere ed amare. Egli vuole entrare in relazione con noi per farci partecipi della sua stessa vita e rendere la nostra vita più piena di significato, più buona, più bella. Dio ci ama! La fede, però, chiede di essere accolta, chiede cioè la nostra personale risposta, il coraggio di affidarci a Dio, di vivere il suo amore, grati per la sua infinita misericordia. E' un dono, poi, che non è riservato a pochi, ma che viene offerto con generosità. Tutti dovrebbero poter sperimentare la gioia di sentirsi amati da Dio, la gioia della salvezza! Ed è un dono che non si può tenere solo per se stessi, ma che va condiviso. Se noi vogliamo tenerlo soltanto per noi stessi, diventeremo cristiani isolati, sterili e ammalati. L’annuncio del Vangelo fa parte dell’essere discepoli di Cristo ed è un impegno costante che anima tutta la vita della Chiesa. «Lo slancio missionario è un segno chiaro della maturità di una comunità ecclesiale» (Benedetto XVI, Esort. ap. Verbum Domini, 95). Ogni comunità è “adulta” quando professa la fede, la celebra con gioia nella liturgia, vive la carità e annuncia senza sosta la Parola di Dio, uscendo dal proprio recinto per portarla anche nelle “periferie”, soprattutto a chi non ha ancora avuto l’opportunità di conoscere Cristo. La solidità della nostra fede, a livello personale e comunitario, si misura anche dalla capacità di comunicarla ad altri, di diffonderla, di viverla nella carità, di testimoniarla a quanti ci incontrano e condividono con noi il cammino della vita.

2. L'Anno della fede, a cinquant’anni dall’inizio del Concilio Vaticano II, è di stimolo perché l'intera Chiesa abbia una rinnovata consapevolezza della sua presenza nel mondo contemporaneo, della sua missione tra i popoli e le nazioni. La missionarietà non è solo una questione di territori geografici, ma di popoli, di culture e di singole persone, proprio perché i “confini" della fede non attraversano solo luoghi e tradizioni umane, ma il cuore di ciascun uomo e di ciascuna donna, Il Concilio Vaticano II ha sottolineato in modo speciale come il compito missionario, il compito di allargare i confini della fede, sia proprio di ogni battezzato e di tutte le comunità cristiane: «Poiché il popolo di Dio vive nelle comunità, specialmente in quelle diocesane e parrocchiali, ed in esse in qualche modo appare in forma visibile, tocca anche a queste comunità rendere testimonianza a Cristo di fronte alle nazioni» (Decr. Ad gentes, 37). Ciascuna comunità è quindi interpellata e invitata a fare proprio il mandato affidato da Gesù agli Apostoli di essere suoi «testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e fino ai confini della terra» (At 1,8), non come un aspetto secondario della vita cristiana, ma come un aspetto essenziale: tutti siamo inviati sulle strade del mondo per camminare con i fratelli, professando e testimoniando la nostra fede in Cristo e facendoci annunciatori del suo Vangelo. Invito i Vescovi, i Presbiteri, i Consigli presbiterali e pastorali, ogni persona e gruppo responsabile nella Chiesa a dare rilievo alla dimensione missionaria nei programmi pastorali e formativi, sentendo che il proprio impegno apostolico non è completo se non contiene il proposito di “rendere testimonianza a Cristo di fronte alle nazioni”, di fronte a tutti i popoli. La missionarietà non è solamente una dimensione programmatica nella vita cristiana, ma anche una dimensione paradigmatica che riguarda tutti gli aspetti della vita cristiana.

3. Spesso l'opera di evangelizzazione trova ostacoli non solo all'esterno, ma all’interno della stessa comunità ecclesiale. A volte sono deboli il fervore, la gioia, il coraggio, la speranza nell’annunciare a tutti il Messaggio di Cristo e nell’aiutare gli uomini del nostro tempo ad incontrarlo. A volte si pensa ancora che portare la verità del Vangelo sia fare violenza alla libertà. Paolo VI ha parole illuminanti al riguardo: «Sarebbe ... un errore imporre qualcosa alla coscienza dei nostri fratelli. Ma proporre a questa coscienza la verità evangelica e la salvezza di Gesù Cristo con piena chiarezza e nel rispetto assoluto delle libere opzioni che essa farà ... è un omaggio a questa libertà» (Esort, ap. Evangelii nuntiandi, 80). Dobbiamo avere sempre il coraggio e la gioia di proporre, con rispetto, l’incontro con Cristo, di farci portatori del suo Vangelo. Gesù è venuto in mezzo a noi per indicare la via della salvezza, ed ha affidato anche a noi la missione di farla conoscere a tutti, fino ai confini della terra. Spesso vediamo che sono la violenza, la menzogna, l’errore ad essere messi in risalto e proposti. E’ urgente far risplendere nel nostro tempo la vita buona del Vangelo con l’annuncio e la testimonianza, e questo dall’interno stesso della Chiesa. Perché, in questa prospettiva, è importante non dimenticare mai un principio fondamentale per ogni evangelizzatore: non si può annunciare Cristo senza la Chiesa. Evangelizzare non è mai un atto isolato, individuale, privato, ma sempre ecclesiale. Paolo VI scriveva che «quando il più sconosciuto predicatore, missionario, catechista o Pastore, annuncia il Vangelo, raduna la comunità, trasmette la fede, amministra un Sacramento, anche se è solo, compie un atto di Chiesa». Egli non agisce «per una missione arrogatasi, né in forza di un'ispirazione personale, ma in unione con la missione della Chiesa e in nome di essa» (ibidem). E questo dà forza alla missione e fa sentire ad ogni missionario ed evangelizzatore che non è mai solo, ma parte di un unico Corpo animato dallo Spirito Santo.

4. Nella nostra epoca, la mobilità diffusa e la facilità di comunicazione attraverso i new media hanno mescolato tra loro i popoli, le conoscenze, le esperienze. Per motivi di lavoro intere famiglie si spostano da un continente all'altro; gli scambi professionali e culturali, poi, il turismo e fenomeni analoghi spingono a un ampio movimento di persone. A volte risulta difficile persino per le comunità parrocchiali conoscere in modo sicuro e approfondito chi è di passaggio o chi vive stabilmente sul territorio. Inoltre, in aree sempre più ampie delle regioni tradizionalmente cristiane cresce il numero di coloro che sono estranei alla fede, indifferenti alla dimensione religiosa o animati da altre credenze. Non di rado poi, alcuni battezzati fanno scelte di vita che li conducono lontano dalla fede, rendendoli così bisognosi di una “nuova evangelizzazione”. A tutto ciò si aggiunge il fatto che ancora un'ampia parte dell'umanità non è stata raggiunta dalla buona notizia di Gesù Cristo. Viviamo poi in un momento di crisi che tocca vari settori dell'esistenza, non solo quello dell’economia, della finanza, della sicurezza alimentare, dell’ambiente, ma anche quello del senso profondo della vita e dei valori fondamentali che la animano. Anche la convivenza umana è segnata da tensioni e conflitti che provocano insicurezza e fatica di trovare la via per una pace stabile. In questa complessa situazione, dove l'orizzonte del presente e del futuro sembrano percorsi da nubi minacciose, si rende ancora più urgente portare con coraggio in ogni realtà il Vangelo di Cristo, che è annuncio di speranza, di riconciliazione, di comunione, annuncio della vicinanza di Dio, della sua misericordia, della sua salvezza, annuncio che la potenza di amore di Dio è capace di vincere le tenebre del male e guidare sulla via del bene. L’uomo del nostro tempo ha bisogno di una luce sicura che rischiara la sua strada e che solo l’incontro con Cristo può donare. Portiamo a questo mondo, con la nostra testimonianza, con amore, la speranza donata dalla fede! La missionarietà della Chiesa non è proselitismo, bensì testimonianza di vita che illumina il cammino, che porta speranza e amore. La Chiesa - lo ripeto ancora una volta - non è un’organizzazione assistenziale, un’impresa, una ONG, ma è una comunità di persone, animate dall'azione dello Spirito Santo, che hanno vissuto e vivono lo stupore dell’incontro con Gesù Cristo e desiderano condividere questa esperienza di profonda gioia, condividere il Messaggio di salvezza che il Signore ci ha portato. E’ proprio lo Spirito Santo che guida la Chiesa in questo cammino.

5. Vorrei incoraggiare tutti a farsi portatori della buona notizia di Cristo e sono grato in modo particolare ai missionari e alle missionarie, ai presbiteri fidei donum, ai religiosi e alle religiose, ai fedeli laici - sempre più numerosi - che, accogliendo la chiamata del Signore, lasciano la propria patria per servire il Vangelo in terre e culture diverse. Ma vorrei anche sottolineare come le stesse giovani Chiese si stiano impegnando generosamente nell’invio di missionari alle Chiese che si trovano in difficoltà - non raramente Chiese di antica cristianità - portando così la freschezza e l’entusiasmo con cui esse vivano la fede che rinnova la vita e dona speranza. Vivere in questo respiro universale, rispondendo al mandato di Gesù «andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28, 19) è una ricchezza per ogni Chiesa particolare, per ogni comunità, e donare missionari e missionarie non è mai una perdita, ma un guadagno. Faccio appello a quanti avvertono tale chiamata a corrispondere generosamente alla voce dello Spirito, secondo il proprio stato di vita, e a non aver paura dì essere generosi con il Signore. Invito anche i Vescovi, le famiglie religiose, le comunità e tutte le aggregazioni cristiane a sostenere, con lungimiranza e attento discernimento, la chiamata missionaria ad gentes e ad aiutare le Chiese che hanno necessità di sacerdoti, di religiosi e religiose e di laici per rafforzare la comunità cristiana. E questa dovrebbe essere un’attenzione presente anche tra le Chiese che fanno parte di una stessa Conferenza Episcopale o di una Regione: è importante che le Chiese più ricche di vocazioni aiutino con generosità quelle che soffrono per la loro scarsità.

Insieme esorto i missionari e le missionarie, specialmente i presbiteri fidei donum e i laici, a vivere con gioia il loro prezioso servizio nelle Chiese a cui sono inviati, e a portare la loro gioia e la loro esperienza alle Chiese da cui provengono, ricordando come Paolo e Barnaba al termine del loro primo viaggio missionario «riferirono tutto quello che Dio aveva fatto per mezzo loro e come avesse aperto ai pagani la porta della fede» (At 14,27). Essi possono diventare una via per una sorta di “restituzione” della fede, portando la freschezza delle giovani Chiese, affinché le Chiese di antica cristianità ritrovino l’entusiasmo e la gioia di condividere la fede in uno scambio che è arricchimento reciproco nel cammino di sequela del Signore.

La sollecitudine verso tutte le Chiese, che il Vescovo di Roma condivide con i confratelli Vescovi, trova un'importante attuazione nell’impegno delle Pontificie Opere Missionarie, che hanno lo scopo di animare e approfondire la coscienza missionaria di ogni battezzato e di ogni comunità, sia richiamando la necessità di una più profonda formazione missionaria dell'intero Popolo di Dio, sia alimentando la sensibilità delle Comunità cristiane ad offrire il loro aiuto per favorire la diffusione del Vangelo nel mondo.

Un pensiero infine ai cristiani che, in varie parti del mondo, si trovano in difficoltà nel professare apertamente la propria fede e nel vedere riconosciuto il diritto a viverla dignitosamente. Sono nostri fratelli e sorelle, testimoni coraggiosi - ancora più numerosi dei martiri nei primi secoli - che sopportano con perseveranza apostolica le varie forme attuali di persecuzione, Non pochi rischiano anche la vita per rimanere fedeli al Vangelo di Cristo. Desidero assicurare che sono vicino con la preghiera alle persone, alle famiglie e alle comunità che soffrono violenza e intolleranza e ripeto loro le parole consolanti di Gesù: «Coraggio, io ho vinto il mondo» (Gv 16,33).

Benedetto XVI esortava: «"La Parola del Signore corra e sia glorificata'’ (2Ts 3,1): possa questo Anno della fede rendere sempre più saldo il rapporto con Cristo Signore, poiché solo in Lui vi è la certezza per guardare al futuro e la garanzia di un amore autentico e duraturo» (Lett. ap. Porta fidei, 15). È il mio auspicio per la Giornata Missionaria Mondiale di quest’anno. Benedico di cuore i missionari e le missionarie e tutti coloro che accompagnano e sostengono questo fondamentale impegno della Chiesa affinché l’annuncio del Vangelo possa risuonare in tutti gli angoli della terra, e noi, ministri del Vangelo e missionari, sperimenteremo “la dolce e confortante gioia di evangelizzare” (Paolo VI, Esort. ap. Evangelii nuntiandi, 80).

Dal Vaticano, 19 maggio 2013, Solennità di Pentecoste

FRANCESCO

1 ottobre 2013

storie di Bigene 7: "fulmine, morte, amicizia".

Ci sono avvenimenti che si vorrebbero dimenticare in fretta. Toglierli dalla mente, e non pensarci più.
Ma quel fulmine non lo posso dimenticare: anche da un male così grande possiamo cogliere delle vere possibilità di bene.
Domenica 22 settembre, ore 17.30 del pomeriggio: siamo riuniti in quella che sia chiama “equipe missionaria”. È la riunione che si compie dentro le nostre missioni, per organizzare e verificare i programmi della nostra pastorale missionaria. Tutti i missionari di una missione, suore, sacerdoti e laici, si mettono assieme per questo servizio pastorale. Adesso che sono arrivati anche don Marco e suor Narliene, ci troviamo maggiormente coinvolti in questa pastorale missionaria comunitaria.
Con suor Merione e suor Nella, oltre ai “nuovi” missionari, eravamo seduti al tavolo di “casa foggia”, verificando le evangelizzazioni compiute lo scorso anno nel nostro territorio. Siamo stati dolcemente accompagnati da un bellissimo temporale: atteso e benvoluto. C’è scarsità di acqua in questa estate, come nel 2011. Era proprio un bel temporale, con tanta acqua, a rallegrare la nostra riunione.
Poi è arrivato lui. Senza alcun preavviso, senza mandare i suoi compagni che iniziano a farsi sentire da lontano, e così ci si può preparare. È arrivato all’improvviso. Veloce. Assordante. Da solo.
Il fulmine è sceso qui! Sulla casa dei sacerdoti, o qui vicinissimo. Siamo sobbalzati sulle sedie; suor Narliene, molto più “agile” di me, è letteralmente saltata sulla sedia. Immediatamente la corrente elettrica è saltata. Vado alla sala delle batterie dove sono collegati i due sistemi fotovoltaici e vi sono le centraline elettriche. Ad un primo momento mi sembra che ci sia del fumo. Don Marco controlla meglio: mi sono sbagliato. Proviamo a riattivare l’impianto elettrico e tutto funziona. Tiro un bel sospiro di sollievo: l’impianto con la messa a terra ha funzionato bene. Però, che spavento….
Riprendiamo il nostro lavoro senza pensare a quello che, invece, era tragicamente accaduto accanto a noi. Il rumore della pioggia sui tetti della casa non ci permette di udire le prime grida di chi, disperato, iniziava un lungo pianto, che non si sarebbe fermato….
Joaquim arriva di corsa, dopo pochissimi minuti. Lui è il nostro operatore fisso nel Centro di Recupero Nutrizionale. Parla in modo confuso, e non riusciamo subito a capire quello che sta dicendo. Ci rendiamo conto di qualcosa di grave che poi riesce a spiegarci con più calma. Prima quasi increduli, ma subito poi coinvolti nell’angoscia, ci rendiamo conto che il fulmine è sceso nella casa davanti alla nostra, a pochi metri dal portone di ingresso al territorio della missione. E ha seminato morte.
Joaquim parla di cinque persone coinvolte: una mamma, i suoi tre bambini, e un uomo. Sono stati portati tutti al nostro ospedale di Bigene, ma la mamma è sicuramente già morta, ha una visibile ferita alla testa causata dal fulmine. Ci spiega velocemente tutto e ci invita ad andare a vedere, perché potrebbe esserci bisogno di noi. E l’uomo è molto grave, è Leandro, uno dei nostri professori alla scuola della missione.
Decidiamo di correre tutti davanti all’ospedale, e spostiamo le nostre due macchine, per ogni evenienza che possa accadere per soccorrere queste persone. L’ospedale di Bigene è chiamato così, ospedale, dalla gente del luogo. Ma non ha niente a che vedere con un ospedale! È una struttura dello stato dove operano un infermiere e una ostetrica, sostenuti dalla presenza di un analista e di un portinaio. Una sala parto e una sala per gli ammalati, un ingresso e sempre tanta gente che aspetta fuori quando un ammalato ricorre a questa struttura.
Ci sono centinaia di persone nella piazza del paese, davanti all’ospedale. È come la piazza principale, accanto alla chiesa, a cui si affacciano alcuni negozietti. La pioggia sta terminando. I volti sono bagnati. Alcuni volti sono bagnati anche dalle lacrime. Tensione alle stelle, via vai di persone dall’ospedale. Le notizie si accavallano, ma dopo pochi minuti emerge la situazione reale.
La giovane mamma è morta subito. È rinchiusa nella sala parto, dove nessuno deve entrare. E nessuno deve dire che è morta: ci sono i suoi tre bambini nella sala di ingresso.
Leandro sta morendo. Il fulmine ha toccato il suo corpo, il cuore batte senza regolarità, l’infermiere sta compiendo le sue azioni necessarie a tentare di rimettere il cuore in norma. Ma niente.
Telefono alla dottora Pina, che è a Bissau, per sapere se c’è qualcosa che possiamo fare. Pina conosce bene le emergenze e conosce bene cosa abbiamo e cosa non abbiamo a Bigene. Quanto mi insegna, al telefono, l’infermiere lo sta già compiendo.
Gli sguardi di tutti sono molto tirati. Molte persone mi guardano per capire dalle mie espressioni che cosa sta accadendo. Entro per parlare con l’infermiere, se riesco. E per capire qualcosa di più.
Leandro ha terminato la sua vita su questa terra. Mi preoccupo dei tre bambini. Sono di età tra i sei e i dieci anni. Il più grande lo riconosco subito, siamo amici. È il più sofferente. Anche i due più piccoli stanno male. Ma non stanno male per il colpo diretto del fulmine, che sembra abbia prodotto solo un forte calore alla base dei piedi. Stanno male per lo spavento, e perché hanno visto la mamma in quello stato. Il piccolo amico, quando mi vede, si riprende un pochino. Gli dico che deve avere il coraggio di essere il fratello più grande dei tre, e di non temere, che non c’è più motivo di spaventarsi. Parlo con la bocca, ma nel cuore vorrei stringerlo per piangere con lui…
Con l’infermiere decidiamo i passi da compiere. E così avviene.
Un aiutante dell’ospedale prende i tre bambini e li fa uscire: i bambini non devono vedere i defunti, e non devono assistere a ciò che sta per accadere. Tutti capisco che questa è la prima scena. I tre piccini si tengono stretti tra di loro, quasi fanno fatica a camminare: sguardo fisso a terra, nessuno che si rivolge a loro, e tutti che pensano a chi deve uscire adesso da quella porta.
Dopo due minuti la porta si riapre: esce il corpo della mamma. Le donne della piazza gridano il loro dolore, i giovani piangono quasi sottovoce: non c’è più tempo per guardarci negli occhi, tutti che guardano quel corpo sollevato dalle mani degli uomini. Alcune donne si rotolano a terra, in mezzo al fango: è un loro modo per manifestare la loro disperazione verso la morte della loro amica. Il corpo sale sulla mia macchina e viene accompagnato a casa. Solo i suoi familiari seguono la defunta, mentre la macchina procede lentamente.
Poi la macchina ritorna indietro; e tutti comprendono ancora cosa sta per succedere. Qualche uomo comincia a gridare, a chiamare il nome di Leandro, e tutti capiscono. Esce il corpo dalla finestra: mani vigorose lo appoggiano sulla mia macchina e tutti gli uomini piangono. Non succede mai: qui gli uomini non piangono mai, e se lo fanno, lo fanno di nascosto. Ma è troppo questo dolore per questa scomparsa così furtiva dell’amico conosciuto in tutta Bigene. E anche gli uomini piangono.
La macchina porta il corpo alla sua abitazione. Per tutta la notte si sentono le lamentazioni tipiche della mia gente. Sono come dei ritornelli cantati e ripetuti per ore e ore.
Anche noi missionari ritorniamo nelle nostre case. La nostra presenza non è servita a niente. O forse è stata molto utile a dimostrare, ancora una volta, che siamo qui a gioire con chi gioisce e a piangere con chi piange.
Il lunedì mattina celebriamo la S. Messa con partecipazione dei nostri amici cristiani. Al termine ci rechiamo tutti alla casa di Leandro. La mamma dei tre bambini è stata portata via, durante la notte: il suo funerale sarà eseguito al paese nativo, lontano dallo sguardo dei suoi bambini, come si usa fare qui. I bambini vengono sempre allontanati dai funerali: si pensa che poi potrebbero fare brutti sogni, e potrebbero stare molto male.
Alla casa di Leandro ci sono già molte persone, i parenti lontani sono in viaggio. Gli uomini anziani stanno già procedendo per iniziare gli scavi della fossa dove sarà sepolto il corpo, nel giardino di casa. Sono gli uomini anziani che organizzano tutto quello che serve per i funerali. Noi rimaniamo in silenzio, guardiamo, salutiamo i familiari. Non si esprimono parole: la presenza parla più di tutto.
Leandro non era cristiano. Non era nemmeno musulmano. Un bravo uomo, insegnante di lingua francese alla scuola dello stato e alla scuola della missione. Una persona seria e rispettata da tutti. Nel momento del fulmine era sotto la veranda di casa dove stava preparando del cibo cotto sul fuoco. Aveva in mano degli strumenti di ferro per cucinare. Anche la donna, dall’altra parte della casa, stava cucinando per i suoi bambini. Anche lei teneva i ferri in mano. Dentro la casa vi erano altre persone che non sono state toccate dal fulmine, solo toccate dallo spavento. Come noi nella nostra casa.
Dopo i nostri doverosi saluti ci ritiriamo, e ci diamo appuntamento, con tutti i cristiani, per il pomeriggio, nell’ora in cui Leandro sarà sepolto. Dobbiamo essere presenti, con la nostra preghiera silenziosa, ma presenti.
Nel pomeriggio ci ritroviamo tutti, ma avviene qualcosa di inaspettato. Un cugino del defunto mi chiede esplicitamente di andare a pregare. Con la preghiera della chiesa cattolica. Naturalmente dico subito di si, dopo aver verificato che nella famiglia sono tutti d’accordo per ricevere la preghiera cristiana cattolica. Dico questo perché, a volte, succede che nella stessa famiglia ci siano persone di altre chiese, o altre religioni, ed è prudente chiedere che tutti siano sereni nell’accettare la mia preghiera.
Rimango comunque sorpreso: non me l’aspettavo.
Arriviamo alla casa e iniziano le loro cerimonie. Il corpo del defunto è portato davanti casa e rivestito di vari panni. Una confusione fatta di pianti, di canti, di ordini pronunciati dagli anziani su come si devono compiere queste azioni. Noi cristiani rimaniamo scostati, in attesa.
Poi qualcuno detta l’ordine: “Adesso ascoltiamo la preghiera del padre!”.
Si apre un varco per farmi avvicinare al defunto. Scende un silenzio profondo. Chiedo di allargare il cerchio per permettere che i cristiani si riuniscano in preghiera attorno a Leandro. Il corpo è lì, avvolto nei suoi panni, disteso a terra su una stuoia.
Introduco la preghiera spiegando a tutti che è la famiglia a chiedermi di pregare, e che tutti, anche i non cristiani, possono ascoltare, senza alcun problema. Mi aspetto che i musulmani presenti si spostino dal cerchio della preghiera; anche altri non credenti, di solito, lasciano spazio a chi desidera pregare.
Ma questa volta non si muove nessuno. Forse il dolore che ci unisce è così forte che fa superare tutte le nostre distinzioni di fede. Commento il passo delle beatitudini dopo aver letto il Vangelo. Ho come la sensazione che mi stiano tutti ascoltando. E quando parlo di Dio che è Padre e che è ricco di misericordia con tutti, noto alcuni uomini anziani, non cristiani, confermare con il segno del capo le mie parole. Forte di questa impressione, affermo che dobbiamo essere tutti sempre più uniti, perché grande è il nostro dolore, e grande deve essere la nostra unione oltre il dolore di questo giorno.
È come se qualcosa avesse toccato i loro cuori: vedo gli anziani che confermano, con il capo, tutto quello che dico. E quando un anziano fa capire la sua approvazione, quella emozione è di tutti i presenti, nessuno si permette di non essere in sintonia con gli anziani.
Non è accaduto nulla di preciso, ma ho la forte sensazione che qualcosa di nuovo è accaduto. Nei giorni seguenti noto alcuni anziani che mi salutano con più attenzione, alcuni si fermano a dialogare sul dramma accaduto in mezzo alle nostre case.
La morte è sempre un male. Sempre.
Ma da questi avvenimenti dolorosi è come se fosse cresciuta, tra la mia gente, una amicizia ancor più profonda. Noi cristiani siamo la minoranza. Ma una minoranza che cresce e che sempre più si fa sentire. E dobbiamo crescere in rapporti di fraternità e solidarietà con chi vive in mezzo a noi, accanto alle nostre case. Le lacrime e i dolori, a volte, ci fanno anche crescere. E se i non cristiani ci chiamano per stare con loro, per pregare per loro, penso che Gesù sia molto contento.